Dopo la cattura ed il trasferimento nella base Usa a Cuba, sono scoppiate le polemiche sulle condizioni di vita dei prigionieri, presunti militanti di Al Qaeda. La Croce Rossa Internazionale ha visitato le “gabbie” per verificare la salute degli internati
Chi sono i prigionieri di Guantanamo? Più di cento presunti militanti dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda, creata da Bin Laden sono stati portati alcune settimane fa con volo diretto dall’Afganistan, dove sono stati catturati, nella base militare americana di Guantanamo, a Cuba.
Dopo la loro sistemazione nella base sull’isola caraibica è scoppiata una polemica internazionale, per le condizioni a cui i detenuti sarebbero costretti. Il governo inglese, principale alleato degli Stati Uniti in questa guerra contro il terrorismo, ha espresso una posizione fortemente polemica nei confronti del trattamento riservato dagli americani ai prigionieri, che sono detenuti in gabbie di anguste dimensioni, esposti alle intemperie tropicali. Inoltre sono state diffuse immagini impressionanti di prigionieri condotti tra le guardie, bendati e con le catene ai piedi. Il governo americano ha dovuto acconsentire ad aprire il campo di prigionia a delegazioni della Croce Rossa e di altri organismi umanitari, le quali pare abbiano potuto verificare che le condizioni dei prigionieri di Al Qaeda non sono molto diverse da quelle a cui sono obbligati i detenuti comuni americani.
L’uso di incatenare ai piedi e di bendare i detenuti durante i trasferimenti è praticato nelle carceri di alcuni stati dell’Unione. Ma il centinaio di uomini di Al Qaeda detenuti a Guantanamo rischiano di diventare un grosso grattacapo giuridico politico per gli americani.
Chi sono, dal punto di vista giuridico, i prigionieri di Guantanamo?
Gli Stati Uniti rifiutano di considerarli prigionieri di guerra, in quanto sostengono che non si tratta di combattenti di uno stato nemico fatti prigionieri in guerra, ma di appartenenti ad una organizzazione internazionale terroristica “privata”. Hanno difficoltà però anche a ritenerli criminali comuni, in quanto effettivamente i loro presunti crimini sono più vicini al genere dei crimini di guerra e di sterminio di massa che a quelli che possono essere commessi, per quanto efferati, da comuni malavitosi.
A complicare ulteriormente le cose c’è la richiesta della Gran Bretagna, di processare quelli tra i prigionieri di Guantanamo - pare tre - che hanno la cittadinanza britannica. Il pasticcio giuridico è generato dall’anomalia costituita in sé dalla cosiddetta “new war”, la guerra americana definita “asimmetrica” in quanto si tratta non di un conflitto tra stati, ma tra uno stato - o meglio tra una grossa coalizione di stati del mondo - ed un’organizzazione “privata” che, come Al Quaeda, godeva della ospitalità e del sostegno di uno stato: l’Afganistan dei Talibani. Ma gli Usa si sono sempre rifiutati di considerare il loro attacco come una guerra all’Afganistan. Anche la caduta del regime Taliban non è mai stato un obiettivo ufficialmente dichiarato del governo americano, quanto semmai un passaggio di fatto, una condizione indispensabile per snidare Bin Laden e la sua organizzazione. Ufficialmente gli Stati Uniti hanno proclamato il loro disinteresse per le vicende politiche interne dell’Afganistan, anche se il presidente Bush ha accolto solennemente il nuovo primo ministro afgano a Washington e lo ha esibito, in mancanza di altro, cioè della cattura dell’arcinemico Bin Laden, come segno di vittoria.
Nella nuova concezione della lotta al terrorismo l’obiettivo globale di sgominare le organizzazioni definite terroristiche viene considerato prioritario rispetto a qualsiasi altro problema politico o di diritto internazionale. Così l’identità giuridica dei prigionieri di Guantanamo sfuma, ed essi vengono identificati attraverso giudizi morali, del tipo “persone malvagie” o, come ha detto il segretario alla difesa americano Rumsfeld, “non proprio simpatiche”. In tale modo però si rischia di sostituire alla legge il giudizio morale e di personalizzare e “privatizzare” il rapporto tra l’offeso e l’offensore nel momento in cui viene fatta giustizia. Ma così si passa dalla categoria della giustizia a quella della vendetta.
Il principio fondamentale di ogni civiltà giuridica è che tra chi ha commesso un crimine e chi lo ha subito deve ergersi un terzo (la legge e il giudice che la applica) il quale, in quanto espressione di una “volontà generale”, è, come si dice, “al di sopra delle parti in causa”. Di solito questo terzo tra cittadini è lo stato, ma nelle relazioni internazionali sono gli stati ad essere parti in causa, come in questo caso gli Stati Uniti.
In effetti già esistono istanze internazionali, come il tribunale internazionale dell’Aja, che si occupano delle divergenze tra stati o dei crimini contro l’umanità. È il tribunale dell’Aja, come si sa, che si sta occupando dei crimini di guerra nella ex Jugoslavia e sta istruendo un processo contro l’ex presidente serbo Milosevic. Sono episodi significativi della cronaca recente quelli dell’arresto di Pinochet in Inghilterra, da parte della magistratura britannica per un mandato di quella spagnola, e la recente legislazione introdotta in Belgio, che consente alla magistratura di quel paese di perseguire certi tipi di crimini, considerati contro l’umanità, anche al di fuori della giurisdizione dello stato. In base a questa legislazione - tra l’altro - si sta istruendo un processo contro il premier israeliano Sharon, per i massacri di Sabra e Shatila. Tutto ciò dimostra come il problema di una giustizia internazionale, o addirittura “universale”, sia reso sempre più urgente proprio dai rapidi processi di integrazione economica, culturale e tecnologica che vanno generalmente indicati con il termine “globalizzazione”.
Eppure, di contro a questa esigenza, vi è riluttanza degli Stati Uniti a riconoscere l’autorità giurisdizionale di questo organismo, e più in generale addirittura insofferenza nei confronti delle istanze e della introduzione di normative internazionali che pretendono di avere una qualche legittimità universale. Ciò vale, come si è detto, per il tribunale dell’Aja, ma anche per la sottoscrizione degli accordi internazionali sul rispetto dell’ambiente, e perfino per l’Onu (a cui gli Stati Uniti hanno negato per anni i contributi che hanno elargito solo in seguito all’attacco alle Torri Gemelle, e per evidenti ragioni tattiche). Questo atteggiamento è in linea con la posizione nei rapporti internazionali che viene indicata come “l’unilateralismo americano”, che rischia di avere alla lunga contraccolpi pericolosi sugli equilibri mondiali.
Se si vuole evitare l’imbarbarimento delle relazioni internazionali bisognerà anche che i prigionieri di Guantanamo non siano sottoposti al giudizio sommario dei tribunali militari americani in quanto “uomini malvagi”, ma vengano condotti in giudizio, come imputati con diritto di difesa, davanti ad una Corte internazionale, che goda di ampio riconoscimento nella comunità internazionale e nello stesso mondo islamico. Già in diverse occasioni ormai il principio della supremazia dei “diritti dell’uomo” rispetto alla sovranità dei singoli stati è stato affermato. Anche se non è realisticamente pensabile che tale principio possa essere accettato da un momento all’altro da tutti, significativi passi in questo senso possono essere compiuti.
Abbiamo alle spalle ormai almeno quattro secoli, da quando Campanella ha scritto la “Città del sole”, e Tommaso Moro la “Utopia”. Più di due secoli ci separano dall’Illuminismo e dal “Progetto di pace perpetua” di Immanuel Kant. Sappiamo che gli uomini non sono portati facilmente ad accordarsi, anche nel caso in cui ciò corrisponda ai loro effettivi interessi, e che spesso e volentieri non sanno che farsene della pace e della giustizia. Tuttavia è proprio la rapidità con cui le nostre tradizionali categorie politico giuridiche vengono fatte cadere dall’impellenza dei processi indotti dalla globalizzazione ad imporci di ripensare non ingenuamente quanto elaborato dalla nostra civiltà in quattro secoli di modernità in riferimento all’ordine ideale.
È del tutto evidente che gli stati nazionali non bastano più a garantire la sfera della legalità, neanche al loro stesso interno. È altrettanto evidente che tra la legalità rigorosamente affermata dallo stato dentro ai suoi confini e la “terra di nessuno” o selvaggio stato di natura, nel quale il diritto è totalmente soppiantato dalla forza bruta, esiste ormai di fatto una vasta gamma di sfumature, un reticolo esile ma significativo formato dalle istituzioni internazionali, dalle opinioni pubbliche, dai movimenti, dalle esperienze di giustizia transnazionale che può essere rafforzato dalle pratiche “virtuose” degli stati. Questi possono trarre beneficio per le loro popolazioni rinunciando a qualche porzione della loro sovranità per creare una base comune per una tendenziale giustizia mondiale sempre più prestigiosa e largamente riconosciuta.
L’esempio deve essere dato proprio da chi, come gli Stati Uniti, hanno maggiore responsabilità nella evoluzione dei rapporti internazionali. L’Unione Europea, per parte sua, in quanto organismo soprannazionale che sta costruendo a poco a poco una sua più precisa identità politica e giuridica, per i successi, parziali ma significativi ottenuti in questo senso, offre la prova pratica che questo pragmatismo costruttivo può avere successo. Non è impossibile che valori, norme e procedure universali vengano via via ad equilibrare i processi e i contraccolpi spesso violenti connessi alla globalizzazione. Il mondo islamico, che in larghissima maggioranza non si identifica con il disperato estremismo islamista, deve assumersi, anche sul piano giuridico e giudiziario, la sua parte di iniziativa e di impegno per estirpare dal suo seno le pericolose degenerazioni, non limitarsi a subire solo passivamente le iniziative americane.
I prigionieri di Al Quaeda sono presunti appartenenti ad un’organizzazione internazionale che persegue un folle progetto politico religioso che minaccia il mondo. Deve essere il mondo a giudicarli.
P.S. Ad articolo ultimato e consegnato giunge la notizia che i prigionieri di Guantanamo saranno ospitati in baracche invece che nelle gabbie, in cui hanno finora soggiornato, ma soprattutto che una parte di loro godrà del trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Di questa decisione del governo americano beneficeranno infatti solo i prigionieri Taliban (non si sa di quale percentuale si tratti sul complesso dei prigionieri), e non quelli che tra loro sono riconosciuti come membri di Al Quaeda.
La decisione del presidente Bush ha un grande valore politico, anche se non è priva di oscurità ed incongruenze giuridiche. Elenchiamo alcune questioni che rimangono tuttora aperte:
1)non è mai stato ufficialmente riconosciuto dal governo americano lo stato di guerra con l’Afganistan, risulta pertanto difficile indicare di quale guerra i detenuti di Guantanamo sono prigionieri;
2) sulla stampa si parla di futuri “processi ai prigionieri di guerra”, mentre, come si sa, chi si trova in questa condizione non può essere processato per avere combattuto per il proprio paese, se non nel caso che abbia commesso crimini di guerra, contro civili inermi o prigionieri. La liberazione dei prigionieri di guerra è effetto di decisione politica, in seguito a trattativa tra gli stati che sono stati tra loro belligeranti;
3) non si sa ancora quale statuto giuridico avranno e da quali tribunali verranno giudicati - a differenza dei Taliban - i combattenti di Al Quaeda.
In ogni caso si tratta di un significativo successo dell’opinione pubblica internazionale, di una parte di quella americana e di quei governi europei (tra i quali non c’è purtroppo quello italiano, in patria apparentemente così sollecito in tema di garantismo) che non hanno temuto di esprimere apertamente la loro opposizione alla condotta americana. Un passo in avanti, per evitare il rischio che alla barbarie si diano risposte barbare, è stato fatto. Resta aperto il problema di un diritto e di una giustizia internazionali universalmente riconosciuti, in grado di operare anche nei casi di “conflitti asimmetrici”, come quello, non certo finito, contro il terrorismo.
|