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marzo/2002 - Interviste
Al Qaeda & C.
Guerra al terrorismo. Se ci sei batti un colpo
di Belphagor

La strategia del presidente Bush diretta contro l’“Asse del male”, fa prevedere, dopo l’Afghanistan, nuovi scenari bellici. Intanto la figura di Osama Bin Laden sembra quasi svanire, tanto che lo Sceicco Nero viene fatto apparire in videoconferenze riprese più di quattro mesi fa

Osama Bin Laden, sempre lui, ha parlato alla Cnn il 1° febbraio scorso, ma il fatto ha destato moderata emozione. E non vi è da stupirsene troppo. L’intervista, realizzata da un giornalista della televisione araba Al Jazira e giunta per vie oscure all’emittente americana, risale al 21 ottobre 2001, prima dell’offensiva a terra che ha portato alla conquista dell’Afghanistan. Insomma, uno Sceicco Nero non solo “virtuale” ma addirittura retrodatato. Come un assegno in lire portato in banca dopo il 31 dicembre scorso: è privo di valore. Per il resto, nulla di nuovo. Osama ha come il solito saltabeccato tra rifiuto delle accuse di terrorismo e minacce di attacchi apocalittici, senza rivendicare esplicitamente la responsabilità dell’11 settembre ma esaltando quegli attentati. “Pensiamo che sconfiggere l’America sia possibile, con l’aiuto di Allah, e persino più semplice per noi, Allah permettendo, di quanto sia stato sconfiggere l’Unione Sovietica”. Alla lunga, questa bieca caricatura del Feroce Saladino suscita, oltre che repulsione, noia. La sua logorrea – sempre espressa per via telematica – trasmette con implacabili ripetizioni messaggi fumosi che non meriterebbero nemmeno una citazione in poche righe se a lanciarli non fosse lui. Lui, la Mente Diabolica (aggettivo usuale ma inappropriato, i diavoli autentici sono tutt’altra cosa) del Terrore. Per impadronirsi del malefico miliardario si erano mosse le truppe e le flotte dell’Occidente (anche se a combattere sul terreno sarebbero stati essenzialmente i guerriglieri autoctoni dell’Alleanza), e il meglio dell’Us Air Force aveva bombardato senza risparmio un Afghanistan già da tempo notevolmente disastrato dagli eventi bellici.
Alla fine – o, probabilmente, all’inizio del secondo atto – tutto bene, a parte varie migliaia di morti, ma Osama non è stato trovato. “Sappiamo dov’è”, si annunciava ogni giorno. Una dopo l’altra sono state prese d’assalto e fatte saltare, con bombe ancora più “intelligenti” di quelle normali, quasi tutte le caverne dell’Afghanistan, mentre venivano scoperte, una dopo l’altra, le famigerate “basi” di Al Qaeda. Così, almeno, è stato affermato. Malauguratamente, non se ne è vista nemmeno un’immagine, fotografata o filmata. Anche se fotoreporter e operatori cinematografici e televisivi in Afghanistan davvero non mancavano, anzi, qualcuno ci ha anche rimesso la vita. Del resto, non è tuttora chiaro in che modo una “base” di Al Qaeda si distingua da una comune installazione militare. Forse perché lì si addestravano i terroristi? A fare che cosa? A usare bazooka, lanciamissili, kalashnikov, esplosivi? Non si è mai visto un terrorista che se ne va in giro, magari presentandosi al check in di un aeroporto, con quel tipo di armi, e per imparare a fabbricare una bomba basta disporre di un monolocale. Comunque, tornando allo Sceicco Nero, data la sua irreperibilità, si è ipotizzato che si fosse trasferito altrove. Abbastanza probabile, essendo scarsamente verosimile che Osama avesse deciso di rimanere proprio nel luogo dove si annunciava che sarebbe stato cercato, a correre il rischio delle bombe, della cattura, o, come il previdente presidente Bush ha più volte ripetuto, dell’uccisione. Per quanto lo Sceicco possa apparire una sorta di enigmatico mostro, non risulta che sia un imbecille. Allora, la guerra all’Afghanistan sarebbe stata inutile? Ma via, di quale guerra stiamo parlando? Nessuno ha mai dichiarato guerra all’Afghanistan. Quella che vediamo – o, meglio, che non vediamo – è, e continua ad essere, la Guerra al Terrorismo.

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Un’appendice della guerra si è trasferita dall’11 gennaio nella base statunitense di Guantanamo, Cuba. È in quell’“enclave” americana nell’isola di Fidel Castro che sono stati rinchiusi da allora, in gabbie individuali, alcune centinaia di “prigionieri” (ma presto saranno duemila) catturati in Afghanistan: Taliban e membri di Al Qaeda, a quanto si dice. In realtà non è che se ne dica molto. Non si sa chi siano questi “prigionieri”, con quali criteri siano stati scelti tra la massa degli altri rimasti in Afghanistan in campi controllati chissà da chi, perché siano stati trasportati così lontano, e perché proprio a Guantanamo, un territorio che non ricade sotto la giurisdizione della legge Usa. Forse perché sul suolo americano qualche giudice avrebbe potuto eccepire sulla legittimità della loro detenzione? In un primo tempo ai “prigionieri” venuti da lontano le autorità di Washington volevano negare le garanzie contenute nella Convenzione di Ginevra (riconosciute poi, non si sa quanto e come, ai soli Taleban, escludendo gli “stranieri”, supposti membri di Al Qaeda), trattandosi di “combattenti illegali”. Un’aggettivazione bizzarra, visto che tutti erano stati presi mentre resistevano all’attacco – qualcuno, per pura pignoleria, potrebbe dire all’aggressione – di Forze Armate provenienti dall’esterno, senza neppure una previa dichiarazione di guerra. Usualmente è ciò che ci si aspetta che dei soldati facciano.
I detenuti di Guantanamo sono stati anche etichettati come “pericolosi terroristi”, ma non è stato mai spiegato per quali motivi essi abbiano meritato tale definizione. E non risulta che in Afghanistan siano stati trovati dei terroristi veri e propri: per intenderci, del tipo di quelli che hanno compiuto gli attentati dell’11 settembre. Allora, i “prigionieri” in questione devono essere dei terroristi di un genere particolare, in un certo senso stanziali, come gli uccelli che non migrano. Gli altri, quelli autentici, saranno volati via, o in Afghanistan non hanno mai messo piede.
Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa, aveva dichiarato che la ragione principale per la quale queste persone avevano subìto la deportazione nei Carabi era l’esigenza di “ottenere il maggior numero di informazioni possibile, al fine di prevenire altri attacchi terroristici. In seguito, decideremo che cosa fare di loro. Alcuni potranno essere processati da tribunali militari. Altri potranno essere giudicati dalla giustizia civile americana. Altri potranno essere rimandati nei Paesi di cui sono cittadini per esservi processati. E’ possibile che alcuni siano tenuti in stato di detenzione mentre si raccolgono delle informazioni supplementari su di loro, o semplicemente se hanno un comportamento pericoloso”.
Una considerazione marginale : il regime castrista sembra aver accolto con benevola indifferenza l’iniziativa del suo “inquilino” (la base di Guantanamo è in affitto a tempo indeterminato) americano. Raul Castro, in visita nei dintorni delle installazioni della Us Navy, ha detto che se qualche prigioniero fosse riuscito a fuggire le forze di sicurezza cubane si sarebbero premurate di catturarlo e di consegnarlo ai suoi guardiani. Evidentemente, le vie della Nuova Distensione sono infinite, e soprattutto imperscrutabili.

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La guerra (al terrorismo, beninteso) continua. Il presidente Bush sembra convinto dell’esistenza di un Asse del Male, formato finora da Irak, Iran e Corea del Nord, tre Paesi molto diversi tra loro, come ha spiegato, nel febbraio scorso george Tenet, capo della Central Intelligence Agency, davanti alla commissione del Senato per i servizi segreti: secondo Tenet, pur esistendo un rischio nella volontà da parte loro di dotarsi di armamenti nucleari (ma non sono gli unici a nutrire questa ambizione), altro è il discorso per quanto riguarda in terrorismo. In particolare l’Irak avrebbe smesso da anni di sostenere dei gruppi terroristici mediorientali, e non sarebbe in alcun modo implicato negli attentati dell’11 settembre. La stessa opinione sembra essere diffusa negli ambienti del dicastero degli affari esteri, tanto che Colin Powell (che, forse per obbligo d’ufficio si sta trasformando in uno strano ibrido tra la colomba e il falco) ha dovuto convocare i più alti funzionari del Dipartimento di Stato per evidenziare la linea della Casa Bianca: “Il presidente tiene particolarmente alla sua campagna contro l’asse del male, e io non voglio che nessuno in questa stanza cerchi di togliere il mordente dalle sue dichiarazioni”. Detto questo, i diplomatici americani vanno confidando a quelli tra gli alleati che più si preoccupano per le impennate belliciste di Bush, che al presidente interessa soprattutto ottenere dal Congresso altri fondi per le Forze Armate e per il controverso scudo stellare. Il quale scudo, notoriamente, contro il terrorismo non serve assolutamente a nulla.
Però, dietro allo scudo, e anche dietro alla guerra, vi è dell’altro. In novembre negli Usa si voterà per rinnovare 36 governatori, un terzo del Senato e l’intera Camera dei rappresentanti, e per Bush, e per i suoi sostenitori, è essenziale che la popolarità del presidente si mantenga a livelli alti (attualmente ha, stando ai sondaggi, l’80 per cento di consensi), con ricadute positive per il Partito repubblicano. All’interno i problemi non mancano. Lo scandalo Enron, per nominarne uno di dimensioni rilevanti, il colosso (texano) dell’energia che aveva rapporti stretti e privilegiati con l’attuale governo, miseramente crollato in un fallimento dovuto a cause sia economiche che politiche. La disoccupazione, in aumento, che nell’estate prossima minaccia di raggiungere il 7 per cento. Il bilancio federale, in attivo durante gli ultimi quattro anni della presidenza di Bill Clinton, e ora in rosso per almeno tre anni. Anche grazie ai tagli alle tasse voluti dal presidente, con pesanti ricadute sui cittadini rimasti senza lavoro (il sussidio di disoccupazione ridotto a 13 settimane), e sui pensionati (ai quali non saranno concessi sconti sulle medicine). In una tale situazione, per ottenere altri miliardi di dollari per incrementare le spese militari e ridurre ulteriormente le tasse (alle industrie) occorre che gli elettori, per quanto possibile, pensino ad altro. Insomma, la brezza della recessione richiede venti di guerra. Facendo attenzione a scegliere gli obiettivi, per giustificare in seguito eventuali insuccessi. Se si è scatenato il conflitto in Afghanistan per prendere, o eliminare,un Osama Bin Laden alla fine svanito nel nulla, non importa. Lo ha detto in televisione il vicepresidente Dick Cheney, una vecchia volpe ereditata dallo staff di Bush senior: “Crediamo che Osama sia vivo, ma faremo in modo di impedire futuri attacchi contro gli Stati Uniti anche se non riusciremo a catturarlo. Osama in sé non è poi una grande minaccia”. Ma non si era affermato esattamente il contrario? O dobbiamo intendere che lo Sceicco Nero è solo un emblema, una figura simbolica, uno specchio per le allodole ?

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Va detto che lo hanno cercato ovunque, persino in una provetta in laboratorio. Antefatto: all’inizio di febbraio, un aereo senza pilota Predator individua con le sue telecamere su una strada nei pressi di Zawar Kili tre uomini, uno dei quali “alto e magro”. Potrebbe essere Bin Laden (o un qualsiasi contadino afgano), e dal velivolo viene fatto partire un missile Hellfire (Fuoco d’Inferno) che colpisce i tre viandanti e li disintegra, lasciando sull’asfalto solo “tracce umane”. Poca cosa, ma in mancanza di meglio tutto serve. Una settimana più tardi, a causa della neve, un reparto di paracadutisti della 101° Divisione scorta sul posto dei tecnici incaricati di raschiare da terra quelle “tracce umane”, che raccolte in apposito contenitore sono inviate a Washington, nei laboratori del Fbi dove sono depositate le sequenze del Dna della famiglia Bin Laden, grazie a ciocche di capelli, campioni di sangue e tracce di epidermide volontariamente offerti dai fratelli di Osama, importanti uomini d’affari con legami finanziari anche negli Stati Uniti. Lo Sceicco, o quel che ne resta, imprigionato in una provetta potrebbe far pensare a una versione macabra della Lampada di Aladino, ma lo stesso Donald Rumsfeld, che in un primo momento aveva annunciato l’azione del Predator “contro importanti personaggi di Al Qaeda”, ha presto ammesso di “non sapere chi abbiamo colpito”, escludendo però che fossero “semplici contadini afgani”, come, parlando con i giornalisti americani, hanno sostenuto gli abitanti del luogo.
Semplici contadini erano comunque i ventisette uomini del villaggio di Oruzgan catturati dai soldati dei corpi speciali americani, e rilasciati dopo una detenzione di alcune settimane. “Ci avevano chiuso dentro una gabbia di legno e ci bastonavano regolarmente – hanno raccontato, mostrando braccia gambe rotte, cicatrici recenti, grosse ecchimosi – I soldati ci picchiavano gridandoci: siete Taliban, siete terroristi, siete uomini di Al Qaeda”. Per avere tregua, qualcuno di loro aveva raccontato a chi lo interrogava delle storie del tutto inventate, sulla base delle quali chissà quali operazioni antiterrorismo saranno state decise.

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In realtà, non sappiamo neppure con un’accettabile approssimazione che cosa sia accaduto dall’11 settembre 2001, che cosa accada attualmente, e che cosa accadrà. “The invisibile war”, la guerra invisibile: ancora una volta è la stampa americana ad avere coniato questa implacabile definizione, e ci basterebbe questo per tenerci lontano da un antiamericanismo di maniera, che peraltro abbiamo altri motivi per non frequentare. Malgrado la grinta poco rassicurante, perché scarsamente credibile, del presidente George Bush jr., che parla della guerra come se lui la avesse veramente conosciuta da vicino, mentre non è assolutamente il caso. Sul quoziente intellettivo – quello intellettuale viene azzerato in partenza – del presidente il dibattito è aperto in America, con la spregiudicatezza, e la libertà, che solo gli americani sanno applicare ai loro leaders, e a loro stessi. Nel dicembre scorso, all’89° gala annuale dell’Alfalfa Club, un circolo esclusivo di miliardari (in dollari) e di manager delle multinazionali, Bush il Giovane ha giovialmente dichiarato nel suo conviviale discorso :”E’ vero, un anno fa nemmeno sapevo chi governasse l’Afghanistan. Ora lo so, e mal gliene incolse”. Qualcuno (e potremmo anche immaginare chi) applaudirà a tale candida disinvoltura, ad altri sorgerà qualche dubbio. Che sia il caso di preoccuparsi ? Dove potrebbe portarci questa “guerra al terrorismo”, che nei fatti di terroristi ce ne mostra molto pochi, o addirittura nessuno ? Siamo sicuri che l’incondizionata adesione ad ogni opzione di Washington sia la scelta giusta, per noi e per l’America? Qualcuno, ancora, dirà un sonoro Sì. anzi l’ha già detto. Ogni commento sarebbe superfluo, o inadeguato.

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“Non sono un esperto di questioni internazionali. Non sono un esperto di terrorismo. Non ho contatti con l’intelligence. In breve, non ho alcun titolo per parlare di questo argomento con qualche originalità. E hanno già parlato in tanti, in troppi, in questi giorni. E non voglio aggiungere la mia dose di inutile retorica alla molta che è già colata insieme alle informazioni che abbiamo ricevuto, a cui ci siamo volontariamente, inevitabilmente esposti. Tuttavia sento il bisogno di riflettere ad alta voce quanto successo. Anche perché, per mestiere, vedo quanto succede da un’ottica particolare: che, oggi, è quella di quelli sotto accusa. Mi occupo infatti, da sociologo, di islam, o meglio, di musulmani, e da una decina d’anni ne ho fatto il mio “oggetto” di osservazione privilegiato, quasi a tempo pieno. Anche se io mi occupo soprattutto dei musulmani che stanno in Europa. E quelli che conosco io non mettono bombe, e tanto meno si suiciderebbero sulle torri gemelle del World Trade Center, portando con sé tanti innocenti, nell’illusione di guadagnare per sé il paradiso e forse, per gli “infedeli” coinvolti e colpiti, spalancare le porte dell’inferno”: abbiamo riportato l’inizio dell’introduzione di “La tentazione della guerra” di Stefano Allievi (Zelig Editore), a nostro parere il libro più lucido e appassionato pubblicato su questo tema. Allievi è docente di sociologia e ricercatore all’Università di Padova, ed è autore di numerosi saggi, che vanno da “La sfida dell’immigrazione” (Emi, 1991), a “Musulmani d’occidente. Tendenze dell’Islam europeo” (Carocci, 2002). Quello di cui ci occupiamo è un’opera di tipo particolare. Un insieme di considerazioni, quali potrebbero nascere nella mente di ognuno di noi, accompagnate da impeti di rivolta intellettuale di fronte a manifestazioni di aperta menzogna. Esemplare la risposta alle tesi (farneticanti, se dobbiamo esprimere un giudizio equilibrato) gridate da Oriana Fallaci, prima in un articolo, e subito dopo (prevedibilmente) in un libro. “La tentazione della guerra” è un’opera la cui lettura ci sentiamo di raccomandare vivamente, a tutti. Per pensare (a volte è utile), e per discutere. I diritti d’autore del libro vanno a InterSOS, un’organizzazione umanitaria che si occupa di emergenze “laddove c’è bisogno, laddove la natura, e assai più spesso, purtroppo, l’uomo, ha creato disastri, Afghanistan incluso, come ultimo (per ora) anello di una lunga catena”.

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“Allarme attentati: Negli Usa torna la paura”. L’Fbi, che ora ha imparato quanto sia più saggio gridare al lupo piuttosto che farsi cogliere in siesta permanente effettiva, rivela, il 12 febbraio che alcuni dei detenuti di Guantanamo hanno parlato di attentati da effettuare contro “interessi americani”. Quando? Dal 12 febbraio, appunto, in poi. Posta così, la “rivelazione” potrebbe rivelarsi, prima o poi, esatta. Anche se non è molto credibile che delle persone catturate nel dicembre scorso potessero essere a conoscenza di questi piani.
Per concludere, è inevitabile tornare a Osama. Personaggio ineludibile, e in un certo senso necessario. Da vivo o da morto. Una cosa è certa: non assisteremo mai al suo processo. Allah non voglia! Chissà cosa potrebbe dire, quali menzogne sarebbe capace di mettere insieme. In fondo, si tratta pur sempre di un imprenditore miliardario, e si sa che da quelle parti (naturalmente ci riferiamo all’Arabia) la verità è considerata un optional trascurabile. Amen, o Inch’Allah, come meglio vi piace.

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