Lo studioso inglese Paul Gilbert traccia un quadro politico, etico, e filosofico di un fenomeno, purtroppo attuale, che assume volti diversi e spesso enigmatici
“Attentati dinamitardi che causano tra la popolazione civile morti e feriti, come spesso avviene durante le campagne terroristiche dell’Ira, possono essere considerati esempi dell’attività terroristica odierna, un fenomeno che suscita nella popolazione indignazione e rabbia nella stessa misura in cui genera paura e disagio. Sono però i primi sentimenti, piuttosto che i secondi, ad alimentare la reazione ‘pubblica’ che i giornali e la televisione ci propongono quotidianamente, una reazione costruita sul resoconto dei testimoni oculari, sui rapporti della Polizia e sul giudizio dei politici. È inevitabile quindi che, una volta filtrata dai quotidiani, dalla radio e dalla televisione, tale rappresentazione dell’opinione pubblica diventi schematica e riduttiva”. Paul Gilbert, docente di filosofia all’Università di Hull, Inghilterra, studioso di filosofia della mente, filosofia politica e questioni del nazionalismo, inizia così il primo capitolo del suo libro “Terrorism security & nationality” (“Il dilemma del terrorismo” – Feltrinelli – pagg. 230 – E 25,82), pubblicato nel 1994, e tre anni dopo in Italia, con alcune aggiunte e revisioni dell’autore che in una premessa afferma di considerare l’edizione italiana più precisa di quella inglese grazie al “supporto intellettuale” di Loretta Napoleoni, curatrice e traduttrice dell’opera. Certo, il professor Gilbert non poteva prevedere che un giorno, in tutto il mondo, centinaia di milioni di persone avrebbero assistito in diretta, minuto per minuto, allo svolgimento e agli effetti catastrofici di un attentato terroristico di proporzioni mai viste, e immaginate solo in qualche film dell’orrore, ma la sua analisi della reazione dell’opinione pubblica di fronte a un attentato, anche di quella successiva a quei drammatici fatti, resta largamente valida.
È vero che tutti abbiamo visto l’aereo pilotato dai kamikaze schiantarsi contro la seconda delle Twin Towers (mentre la prima, già colpita, era in fiamme), e poi abbiamo assistito al crollo dei due grattacieli. Ma, a partire da allora, sono stati i media a determinare e indirizzare le emozioni e le reazioni delle opinioni pubbliche, negli Stati Uniti e negli altri Paesi. E a loro volta i media si sono basati sulle informazioni, spesso lacunose e persino contraddittorie, fornite da Fbi, Cia, e altre strutture di investigazione o di intelligence europee e mediorientali, e sui “giudizi” delle diverse autorità governative, perentori e nello stesso tempo altalenanti. Quindi, la certezza di un crimine orrendo del quale tutti siamo stati spettatori, e dei responsabili. Anzi del responsabile, Lui, Osama Bin Laden, fondatore e capo di Al Qaeda, una sorta di Vecchio della Montagna di una setta di assassini che distrugge e uccide nel nome di un Islam riveduto e corretto. Con l’accompagnamento delle “prove definitive” sulla colpevolezza dello Sceicco Nero – il cui succedersi sino alla fine del conflitto ha potuto destare qualche perplessità – si è rapidamente arrivati alla guerra in Afghanistan, alla quale invece non abbiamo assistito in diretta, e molto poco in differita. Comunque, era stato annunciato che la “guerra al terrorismo” (da parte degli Stati Uniti? Della Nato? Dell’Onu?) non sarebbe finita lì, e del resto in Afghanistan di terroristi veri e propri non sembra ne siano stati trovati. Si attendono, dunque, nuovi scenari. E nuove informazioni che indirizzino le opinioni pubbliche in un senso o nell’altro, a seconda delle circostanze.
D’altra parte, sarebbe interessante riuscire a collocare correttamente quello che viene sbrigativamente definito “terrorismo internazionale” nello schema costruito da Paul Gilbert, nel percorso etico-filosofico che lo studioso delinea con assoluto distacco, senza manifestare particolare simpatia o antipatia per le ragioni degli uni o degli altri. O meglio, Gilbert dà l’impressione di suggerire che le “ragioni” devono essere esaminate solo in rapporto agli obbiettivi e ai fini raggiunti. Ad esempio, nell’ultimo capitolo del suo libro (la risposta dello Stato alla violenza) l’autore scrive: “Fino a ora ho sostenuto che il terrorismo ha il duplice carattere di guerra e di reato. In mancanza di metodi pacifici, spesso chi nutre nei confronti dello Stato rimostranze di carattere costituzionale è costretto, per risolvere la disputa, a muovere contro lo Stato una guerra. Uno Stato intenzionato a tenere fede all’impegno di mantenere l’ordine entro i confini territoriali non può non considerare la minaccia che tale situazione rappresenta per la sua sicurezza. Se i dissidenti fossero nemici esterni, allora sarebbe possibile contrattaccare militarmente. Ma un avversario interno sfida la pretesa dello stato di essere responsabile del mantenimento dell’ordine civile”. Paul Gilbert non cita mai il “terrorismo internazionale”, e neppure la sua branca “islamica”, però prefigura indirettamente quale potrebbe essere la reazione di uno Stato all’attacco all’interno del suo territorio condotto da terroristi (il termine di “dissidenti” sarebbe senza dubbio riduttivo se applicato ai piloti suicidi dell’11 settembre) definibili “nemici esterni”: “contrattaccare militarmente”.
Ed ecco che ai “dilemmi del terrorismo” presi in esame dallo studioso inglese se ne aggiunge un altro, molto attuale: contrattaccare, sì, ma dove, contro chi? Gilbert, per motivi comprensibili, si serve varie volte del paragone con quanto è avvenuto nell’Irlanda del Nord, con le azioni terroristiche dell’Ira, portate fino nella capitale britannica, ma non accenna neppure all’ipotesi di una qualsiasi azione militare contro l’Eire, dove in un passato ancora recente l’Irish republican army ha usufruito di appoggi, e anche di basi. Situazioni diverse, si dirà, ed è vero, ma tutte le situazioni sono diverse tra loro. Ne consegue che diventa estremamente difficile tracciare un ritratto veritiero e complessivo di questo terrorismo, che lo si voglia chiamare “internazionale” o “islamico”, e perciò definire i mezzi idonei e giusti per affrontarlo, e possibilmente sconfiggerlo. L’esperienza insegna che dietro l’apparenza di certe forme di violenza estrema, ostentatamente etichettate, si nascondono spinte e motivi che non vengono detti, che sarebbe arduo scoprire, e persino scomodo cercare. Così, la “guerra al terrorismo” mantiene i suoi interrogativi e le sue incertezze, rischiando di trasformarsi in una serie di spedizioni punitive sostenute da una tecnologia bellica di alta definizione.
Un libro che merita di essere letto, e meditato, questo di Paul Gilbert. Senza pretendere, però, soluzioni e risposte definitive che l’autore non può essere in grado di dare. Al puzzle che ci viene quotidianamente presentato mancano infatti i tasselli più importanti.
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