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febbraio/2002 - Interviste
Problemi sociali
La violenza come cibo quotidiano
di Massimo Buggea

La stampa, la televisione, i giochi, i dibattiti, la politica spesso sono palestre di comportamenti violenti, il più delle volte esaltati come costume di vita. L’indifferenza rappresenta un pericolo reale

Una delle caratteristiche più evidenti del nostro tempo è la violenza; i mezzi d’informazione ne parlano diffusamente, molte persone la criticano mentre alcune la praticano. A dispetto delle posizioni di ognuno sull’argomento, sembra però che la violenza sia divenuta una componente essenziale della convivenza quotidiana. Nonostante gli appelli ed il buonsenso che si ostentano in varie occasioni, è probabile che domani vi sia una reazione di indifferenza di fronte alle prossime violenze in qualche parte del mondo. Oppure non si può escludere che qualcuno gioisca della violenza, non importa dove.
Eppure c’è qualcosa che non sembra al posto giusto sul tema della violenza; ad una serie di buoni propositi si contrappongono situazioni orientate in senso opposto come dimostrano inquivocabilmente alcuni esempi.
Film e cartoni animati si rapportano spesso con la violenza; in molti casi non si tratta di descrizioni critiche bensì di una semplice rappresentazione che può assumere i tratti della assuefazione. In altri termini, se l’interprete dell’azione si trova a fare i conti con una realtà violenta e reagisce con una violenza maggiore, si attira la simpatia incondizionata dello spettatore. Il meccanismo dell’emulazione può costituire un pericolo per il pubblico più giovane, anche perché spesso si trova da solo davanti alla televisione.
I video giochi sono spesso orientati verso la violenza: anzi in molti casi si tratta di un elogio della violenza perché il fine ultimo del gioco è l’uccisione dell’avversario. Ovviamente non mancano dettagli veritieri quali il sangue sparso in abbondanza o le grida del ferito. Nonostante ciò sono pochi i genitori che limitano l’uso di questi giochi.
In tema di mezzi di comunicazione non va molto meglio, quando si ha l’avventura di imbattersi in qualche dibattito politico: l’imperativo dominante si impernia sulla distruzione dell’interlocutore che è sempre interpretato come “l’avversario”; da qui discende un atteggiamento aggressivo sia verbale che gestuale e, per quanto riguarda il nostro ragionamento, una violenza che si diffonde con l’audience creando i presupposti per altre analoghe violenze. Situazioni non dissimili sono divenute abbastanza frequenti anche sulla stampa spingendosi a demonizzare popolazioni e culture.
Trascurando per saturazione il mondo del calcio professionistico, è sufficiente recarsi presso uno dei campi dove i nostri figli si dedicano a questo sport: scopriremo che sono gli stessi genitori che da bordo campo incitano senza mezzi termini i ragazzi a praticare la violenza contro gli avversari, senza per altro risparmiare buone dosi di epiteti nei confronti dei loro genitori.
La stessa musica che ascoltano i giovani gronda di riferimenti diretti alla violenza: si tratta forse di uno dei modi più subdoli per cercare di orientare le personalità, proprio per la estrema permeabilità che caratterizza questa fase della vita.
Ma vi è di più: tra le mura domestiche si consumano violenze su minori, donne ed anziani; tutto ciò viene ricompreso in quella zona d’ombra o sommerso che complica la vita agli appassionati di statistica.
Esiste una violenza spicciola nel traffico di ogni giorno, sull’autobus dove nessuno ormai cede il posto a nessuno. Una violenza che, forse, nasce dalla diffidenza, come nel caso degli zingari, degli extracomunitari o comunque dei diversi. Altre volte è generata dalla colpevole disattenzione, come quando si preclude l’accesso ai portatori di handicap.
Per il nostro tempo che vede ancora guerre, esiste poi la violenza tutta verbale di chi, lontano dai campi di battaglia, approva la soppressione di qualcuno come se fosse un gioco, come se si trattasse della solita partita di calcio.
Uno degli equivoci più formidabili si ha quando l’atteggiamento violento proviene da chi riveste una qualifica, ha un ruolo o una funzione; qui si manifesta la distinzione cara ai sociologi pur se riferita ad altri ambiti tra atteggiamento “autoritario” ed “autorevole”, con tutte le conseguenze che possono derivare dalla scelta della prima o della seconda opzione.
Per gli scettici e gli increduli l’invito è provare di persona: per esempio partecipare ad una riunione sostenendo una tesi diversa da quella della maggioranza: che ci si trovi a scuola o nel condominio esiste un buon margine di probabilità che la discussione degeneri.
Si tratta solo di alcuni esempi; la lista è incompleta ma credo che ciò basti per aprire un dibattito su cosa si intende per violenza; solo dopo aver affrontato questo primo punto si può pensare ragionevolmente di passare al secondo, cioè che fare contro la violenza.

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