Nell’ultimo libro di Ettore Mo si narrano, tra le altre, le vicende degli internati in alcuni campi di prigionia, trecento chilometri oltre il Circolo Polare Artico, e dei lager in America Latina e in
Afghanistan
«”Voi siete stati portati qui non per vivere ma per soffrire e per morire. Se sopravvivete una delle due: o lavorate meno del dovuto o mangiate più di quanto vi spetti”.
Con queste parole venivano accolti i deportati a Norilsk, 320 chilometri oltre il Circolo Polare Artico, dove sorgeva, e sorgono tuttora, ricchissime miniere di nichel, oro, platino, cobalto, palladio».
Si apre così una delle storie imprevedibili e tragiche raccontate da Ettore Mo nell’ultimo libro (Gulag e altri inferni - Rizzoli - £ 29.000, pagg. 228).
“Welcome to hell”, benvenuti all’inferno, sta scritto all’ingresso della fabbrica del rame. Nel giugno del ‘35 Stalin ha già fatto rinchiudere nei campi di concentramento milioni di persone. Ritiene che non ci sia posto migliore per costruire il socialismo e raddrizzare l’uomo secondo il modello sovietico.
Scrive Ettore Mo: «Norilsk era solo un piccolo punto nero nel bianco della tundra spazzata dal vento; o un fuoco di bivacco sempre acceso nella lunga notte polare. Raggiungerla era quasi impossibile, un’impresa da esploratori. Né strade, né treni. La maggior parte dei deportati veniva scaricata nel porticciolo di Dudinka, alla foce dello Jenisei, e da lì, come una gran mandria, avviata verso le miniere, cento chilometri a est... molti sbarcavano stremati a Dudinka dopo aver affrontato la furia dei mari artici su decrepiti battelli attrezzati a malapena per la pesca a rete. C’è l’agghiacciante testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti all’olocausto siberiano, che scende da un mercantile insieme ad altri quattromila disperati. Sono intirizziti, affamati e anche oscenamente sporchi: perché, durante la tempesta, i barili pieni d’escrementi e d’urina, si sono rovesciati, inondandoli».
In questo volume, intenso e duro, ci sono anche altri racconti della Siberia, dell’ex Unione Sovietica, scaturiti dal lucido ricordo che l’inviato del Corsera ha dei luoghi visitati, conosciuti e amato per essere stato uno dei pochi a vederli per raccontarli, ma che ha anche odiato per l’orrore che li caratterizzava. Storie di morte e sangue, di miseria e disperazione che non lasciano spazio alla compassione ma che si fissano nella mente del lettore per la loro crudezza. Che è resa ancora più efficacemente dal linguaggio di Ettore Mo: frasi brevi, concise, pochi aggettivi, nessun commento. C’è la storia di Magadan, città martire della Siberia nord-orientale, quella dell’oro maledetto della Kolyma e quella delle isole Solovki nel Mar Bianco. E poi quella assurda ma reale dell’ospedale per i dannati di Charikar, quella dei minatori delle Ande peruviane e quella curiosa e insolita di un muratore che odora più di santità che di cemento.
E poi ecco Magadan, un centro abbastanza giovane di 240.000 abitanti. È situato nella Siberia nord-orientale: «Ma il supplizio subito nei primi decenni di vita - ha scritto Ettore Mo - è stato tale che può legittimare collocarsi al vertice della graduatoria delle città-martiri dell’ex Unione Sovietica». Le atrocità umane di Magadan non riguardano solo le vittime anonime dei campi di lavoro istituiti da Stalin negli anni Trenta per l’attuazione dei piani quinquennali e l’industrializzazione forzata dell’Urss. Nell’assurda graduatoria degli orrori il primato spetta però alle guardie del piroscafo Kim che stroncavano sul nascere la rivolta dei 3.000 detenuti a bordo, investendoli e schiacciandoli contro le pareti della stiva con getti d’acqua gelata, mentre il termometro segnava 40 gradi sotto zero. «E così, qualche giorno dopo, i funzionari del Dalstroy (un trust per l’estrazione di oro, argento, platino e altri metalli) si sono visti consegnare una grossa partita di cadaveri perfettamente conservati in bare di ghiaccio fatte su misura».
La terza storia è quella di Kolyma, una delle isole dell’arcipelago Gulag dov’era concentrata la maggior parte dei campi di lavoro forzati che, dagli anni Trenta in poi, avrebbero fornito manodopera gratuita alle miniere d’oro e carbone di cui la regione è molto ricca. Ci si arriva in macchina da Magadan.
Ottantacinque anni, i capelli bianchi raccolti in un fazzoletto ciclamino, la signora Anna è nella Kolyma dal ‘43. Era stata arrestata l’anno prima, nel Daghestan, mentre al bazar stava cercando di vendere un sacco di farina. Ha trascorso nel lager 13 anni, 4.745 giorni. Ha fatto e fa di tutto: zappa la terra, d’inverno va a tagliare i boschi sotto la neve, scende anche in miniera a spalare l’oro. «Era dura - racconta - non c’era quasi niente da mangiare, molte donne sono morte di fame e di fatica, altre bruciate dall’alcool che distillavamo noi stesse, per disperazione nel campo. Le guardie ci violentavano, era un normale passatempo. Ma i bambini che nascevano, li portavano via. Chissà come e dove sono finiti...»
Altra storia è quella di Justo Gallego che a Mejorada Del Campo, in Spagna, tutti chiamano il “santo muratore”, soprannome che gli è stato affibbiato a partire dagli anni Sessanta quando, questo curioso e singolare personaggio gettò le fondamenta della cattedrale, che si proponeva di costruire, tutta da solo, pietra su pietra. Ora che, dopo quarant’anni ciò che sembrava il sogno di un mistico visionario è una realtà, anche se a occhio e croce manca più di un terzo al completamento dell’intera costruzione, l’aureola intorno al capo dell’insolito artigiano sembra proprio di vederla. «Settantacinque anni, segaligno, gli occhi chiari in un volto asciutto, scavato come quello di certi santi usciti esangui dal digiuno, Don Justo non indossa la tonaca ma per la rigida osservanza dei voti sacerdotali che non ha fatto (castità, povertà, ubbidienza), è più prete dei preti. Celibe, vive con la sorella, non ha rapporti con l’altro sesso, non beve alcolici, non va mai al cinema e non guarda la tv. Riposa la domenica e le feste comandate... Arrivando a Mejorada Del Campo uno s’aspetta una chiesa rudimentale costruita da un artigiano armato solo di buova volontà... E invece ciò che ti si apre davanti è la sagoma imponente di una vera e propria cattedrale che, a lavori ultimati, sarà in grado di esibire portali sontuosi, una cupola centrale attorniata da una fungaia di minicupole, due torri campanarie, la navata altissima...»
A chi gli chiede perché lo fa, risponde, allargando le braccia, come se fosse una cosa scontata: “Lo faccio per la mia fede, per Gesù Cristo che è il mio Signore. E anche per una promessa fatta a mia madre che era una donna pia...”
Ancora un bel libro questo di Mo che un affermato inviato di guerra ha regalato ai suoi lettori. Ancora un esempio di giornalismo militante fatto di storie cercate, inseguite e descritte con la passione di chi ha scelto una strada impossibile da abbandonare: quella di raccontare la disperazione collettiva, quella di testimoniare, con la presenza fisica sui luoghi e con la forza delle parole, situazioni improbabili ma reali, estreme eppure frequenti.
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