Il calcio si manifesta come sistema in grado di attrarre persone disposte a commettere varie forme di illegalità, prescindendo dalle situazioni in campo. I violenti sono, in genere, ben inseriti nella società e il disagio sociale non li tocca. La Polizia, con la sua presenza, a volte amplifica i comportamenti anomali
La violenza negli stadi è un fenomeno multifattoriale non riconducibile semplicemente alla violenza tipica delle fasce giovanili, soprattutto quando queste esprimono disagio, malessere sociale ed emarginazione. Le analisi attualmente effettuate da psicologi e sociologi sul fenomeno riconducono maggiormente le motivazioni ad un concetto abnorme di agonismo e ad una passione sportiva degenerata, deformata, a livello patologico.
La violenza negli stadi non rappresenta quindi il semplice trasporto nel mondo dello sport della violenza sociale, bensì l’espressione diretta del malessere in cui versa in Italia lo sport in generale ed il gioco del calcio in particolare. È una violenza che nasce da dinamiche che vivono dentro lo stadio ed è il più inquietante sintomo dell’attuale degenerazione del mondo del calcio. È il sistema calcio quindi che vive una fase di “malattia” attraverso non solo la violenza dei suoi tifosi, ma anche il comportamento deviante di molti calciatori. Il disagio sociale, il ribelle ed antisociale comportamento giovanile in questo caso non c’entrano.
Il calcio attualmente è businnes e vive gestendo enormi interessi economici. Per alimentare questi interessi economici servono degli “eroi” in grado di catalizzare l’interesse e l’attenzione della gran massa dei tifosi. L’eroe stimola l’immaginazione e la fantasia dei tifosi al punto da spingerli a comprare non solo il biglietto della partita, ma anche l’ingente quantità di gadgets con l’immagine dell’eroe in vendita nei vari club-point. In questi ultimi anni è esplosa la gamma di oggettistica con il logo sociale su cui i vari club assorbono enormi profitti e royalties, alimentando anche una immagine aziendale che poi investono perfino in azioni di borsa. E tutto questo con l’alibi di “fare dello sport”.
La maschera dello sport copre quindi ingentissimi interessi economici in una spirale non ulteriormente sostenibile con l’esigenza di far quadrare i bilanci societari e le vicende fallimentari in cui attualmente versa una ricca società sportiva come la “Fiorentina Calcio” lo dimostrano.
In questo contesto il calcio si manifesta come un sistema in grado di attrarre persone disponibili a commettere reati: i tifosi, gli ultras, con gli atti di violenza ed i giocatori, i calciatori, attraverso il ricorso alle varie forme di doping ed alle combine delle calcio-scommesse.
Inoltre c’è da sottolineare il contagio psicologico che si diffonde nelle varie tifoserie, tipico dei fenomeni di gruppo e di folla, per cui bastano poche persone violente a trascinare tutta una curva ad esprimersi con cori violenti, spesso razzisti, determinando le premesse per comportamenti aggressivi, violenti e razzisti di gruppo e di folla.
La suggestione psicologica che il gruppo produce nei vari componenti, annulla la lucidità e l’oggettività del singolo al punto da fargli compiere gesta che, normalmente, in altri contesti, rifiuta perché estranee alla propria personalità.
Conoscere e gestire le dinamiche di gruppo rappresenta quindi il primo passo per chi, come le Forze di polizia, viene istituzionalmente investito del problema dell’ordine pubblico e della violenza domenicale negli stadi.
Tuttavia non basta. È necessario conoscere la vita settimanale degli ultras che non si limita solamente alla partita domenicale. Infatti non si è ultras solo la domenica pomeriggio. Essere ultras è un obbligo che si estende per tutta la settimana, condizionando pesantemente lo svolgimento della routine della vita quotidiana.
Essere ultras diviene necessariamente un modo di vivere e di condurre la propria esistenza giorno per giorno. Essere ultras potrebbe prevedere anche di non “vedere” la partita, ma di gestire la curva volgendo le spalle al campo di gioco. Essere ultras prevede sicuramente l’attacco alla tifoseria avversaria, ai suoi giocatori, alla città che rappresentano, alle vicende personali del Presidente e dei dirigenti della squadra, anche richiamando tristi eventi di cronaca e della storia. E questo attacco da semplice ed iniziale sfottò verbale si trasforma poi facilmente anche in scontro fisico cercato, voluto, esasperato, glorificato. Nell’attesa dello scontro fisico qualsiasi pretesto è valido per dare il via all’attacco e alla rissa, anche un innocuo e banale fallo di gioco.
Essere ultras quindi non prevede solo la partecipazione ad un fatto sportivo, non prevede la condivisione di alcun concetto sportivo, essere ultras significa improntare la propria vita intorno a specifici rituali di “guerra” quali lo scontro tra “brigate”, “commandos”, guerriglieri e “leoni”.
Ci si incontra quasi tutti i giorni nella sede del club (offerta dalla società) e si concerta non solo il contenuto dei cori e le scritte degli striscioni, ma anche l’abbigliamento, il numero delle birre, degli spinelli e delle protezioni da adottare nei momenti di scontro. Quegli incontri tra sedicenti sportivi divengono alla fine occasioni per stabilire e condividere, tra combattenti, strategie di lotta e di scontro.
Così come la guerra alimenta il mito degli eroi, anche il mondo degli ultras crea ed alimenta il mito dell’eroe calcistico, un eroe che entra nel quotidiano del tifoso che ne indossa la maglia e che lo imita nelle numerose scelte degli oggetti di uso quotidiano (l’oggettistica in vendita nei club-point). Come è stato detto il mito dell’eroe serve ad alimentare il businnes della società nella commercializzazione di loghi ed immagini.
Molti giocatori, ad esempio, cambiano numero della maglietta ogni anno per far vendere più maglie su cui anche loro hanno una percentuale (il tifoso aggiorna ogni anno la maglia del suo eroe), guadagnando così sempre di più (è la classica insaziabile “pioggia sul bagnato”, anzi sul diluvio).
Il mondo del calcio ha bisogno di eroi ed il calciatore, per divenire un eroe, ha bisogno di compiere gesti estremi: così come il calciatore colpisce deliberatamente l’avversario con l’intenzione di far male, scatenando l’applauso della curva, anche il tifoso colpisce deliberatamente il tifoso avversario con l’intenzione di far male, di “far scorrere il sangue”, forse anche di uccidere.
Essendo la vita dell’ultras totalmente improntata intorno alla squadra del cuore ed alle ritualità della tifoseria, lo scontro può avvenire non solo allo stadio, ma ovunque e senza restrizioni di tempo. È tipico rimandare le vendette da un anno all’altro, dalla Coppa al campionato, oppure infierendo contro i club amici del proprio nemico.
È quindi un eroismo estremo fatto di plateali gesti aggressivi come quelli visti al cinema e alla televisione, giudicati esteticamente belli e potenti e quindi ripetuti. Gesti visti e rivisti più volte sia a velocità naturale che rallentata o alla moviola in tutti i suoi dettagli, per imprimerli meglio nella memoria.
Nella ricerca di sempre più eclatanti gesti aggressivi diviene sicuramente più eroico colpire un agente delle Forze dell’ordine, un carabiniere, un poliziotto, che non un semplice e disarmato tifoso della squadra avversaria. Si diventa grandi ed eroi solo contrapponendosi a grandi ed armati nemici.
Di fronte ad ultras armati e determinati non può essere sufficiente la sola presenza fisica delle Forze di polizia. È necessario che anche loro entrino nelle dinamiche di queste strategie di lotta e di conflitto. Anche le gesta delle Forze dell’ordine vengono amplificate dall’obbiettivo delle televisioni e mitizzate nell’immaginario degli ultras come importanti nemici contro cui battersi e che faranno di loro degli importanti antagonisti. Battersi contro un coetaneo, semplice tifoso dell’altra squadra, non offre le stesse ricadute psicologiche.
Gli ultras non mettono in atto tutto questo perché vivono nel disagio, né perché sono affetti da chissà quale patologia psichica o sociopatia. Gli ultras sono normalmente ben inseriti socialmente, lavorano, hanno buoni rapporti familiari ed affettivi, se studiano possono essere anche dei brillanti studenti. Non è quindi il disagio sociale che entra nello stadio e genera violenza. Entra nello stadio una parte sostanzialmente “pulita” della società e qui si trasforma dietro le suggestioni e le pressioni di un mondo che sta vivendo di tutto meno che di sport.
Ciò che disorienta gli opinionisti di questi fenomeni è la multidimensionalità offerta dagli autori di eclatanti gesti di aggressività e violenza, quando l’arresto e la loro identificazione permette poi di conoscere che tipo di persone sono. Come a suo tempo si evidenziò con gli autori dei lanci assassini dei sassi dal cavalcavia, si tratta di persone sostanzialmente normali, ma con tratti di immaturità e superficialità che li rendono disponibili a gesti irresponsabili dietro le suggestioni di un gioco o le spinte di un gruppo. Normali e “patologici” allo stesso tempo, l’uno o l’altro a seconda delle circostanze, degli ambienti o delle amicizie.
Anche nel gioco in generale sta emergendo questa multidimensionalità in quanto anche il gioco oggi non deve essere banale ma deve contenere una posta del gioco alta, spesso anche la vita stessa. Si spiegano così anche quei “giochi mortali” dove si rischia la vita per un soffio, come spesse volte si è visto al cinema e si è riproposto poi con gli amici, magari dietro l’effetto disinibitorio dell’ennesima birra.
Si perde alla fine la differenza tra un videogioco, effettuato con la playstation, e la realtà dell’interazione sociale: si ammazzano decine di alieni, di nemici ed avversari in entrambe le situazioni con la stessa facilità ed irresponsabilità.
Questo è il fatto nuovo che sta disorientando gli studiosi dei fenomeni devianti sociali. Nel comportamento deviante non c’è più la cattiveria, la rabbia, la ribellione tipica di chi vive disagi sociali o sottoculture delinquenziali, ma solo la ricerca edonistica di un piacere estremo, eccessivo, paradossale, dove per sentirsi vivi si ha bisogno di sfidare la morte o di dare la morte a qualcun altro.
Per smontare, contenere, prevenire questi fenomeni le Forze di polizia possono da sole fare molto poco in quanto non possono intervenire sul businnes esasperato dei club sportivi, né sul bisogno di creare eroi della domenica, né sul bisogno degli ultras di essere all’altezza di questi eroi con scontri e violenze, né sul bisogno di esasperare il gioco con atti e rituali sempre più rischiosi.
Questi fenomeni non rispondono positivamente alla semplice repressione ed al controllo poliziesco perché, come abbiamo visto, la durezza delle Forze di polizia alimenta il meccanismo perverso su cui vivono gli ultras. La presenza massiccia della Polizia allo stadio contribuisce a spostare l’attenzione degli ultras dagli avversari a quell’“esercito” armato ed in assetto da guerra che nello scontro alza il livello del loro valore come guerriglieri e commandos.
E l’attenzione dagli avversari alla Polizia si sposta principalmente quando i tifosi avversari sono pochi, poco agguerriti o addirittura assenti. L’invito che spesso i prefetti diramano attraverso la stampa ai tifosi di non seguire la propria squadra in trasferta potrebbe paradossalmente far scaturire lo spostamento dell’obbiettivo della violenza dagli avversari assenti ad un nemico sostitutivo più prestigioso, rappresentato dalle Forze di polizia.
È troppo grande il bisogno e la voglia di nemico per contenerla semplicemente con la mancanza dei tifosi avversari. È troppo grande il bisogno di appartenenza a dei colori per non lasciarsi individuare da una sciarpa, una bandiera, un cappellino: si diventa in questo modo facile preda del bisogno di nemico dell’avversario.
È ben poca cosa una dinamica sociale ed interpersonale di questo tipo, ma è su questa base che oggi i sociologi parlano appunto di attuale appiattimento e banalizzazione delle ideologie.
BOX
La Cassazione dice “no”
Una sentenza della Cassazione potrebbe mettere in crisi le misure di prevenzione adottate negli ultimi mesi che hanno drasticamente ridotto il numero degli incidenti in occasione delle partire. La decisione della Suprema Corte riguarda il caso di un tifoso a cui, nell’aprile scorso, era stato proibito di continuare ad entrare nello stadio romano ed imposto di presentarsi al commissariato durante l’incontro: è stata annullata senza rinvio l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari aveva convalidato il “divieto di accedere nei luoghi dove sono in corso manifestazioni sportive” emesso dal questore di Roma Giovanni Finazzo perché è illegittima la contestuale notifica dell’atto amministrativo e del provvedimento del magistrato.
La sentenza arriva nel momento in cui sono stati resi noti i risultati ottenuti grazie all’applicazione costante e diffusa della legge che il ministro dell’Interno Claudio Scajola aveva chiesto di utilizzare per mettere un freno alle scorribande degli ultrà: e questo ha portato ad una diminuzione delle violenze negli stadi del 21%, ad una diminuzione dei feriti tra le Forze dell’ordine e tra gli stessi tifosi e dei danni provocati da questi ultimi ai treni ed agli autogrill.
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