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febbraio/2002 - Interviste
Sud America
Dall'Argentina alle bande
di Gianni Cirone

Gli ultimi venti anni di storia economica di questo paese, sono caratterizzati da una sorta di collusione politica finanziaria di stampo mafioso, con “strane” connivenze con i colossi azionari degli Stati Uniti

Perché dall’Argentina alle bande? Perché dallo sconvolgente attentato contro le Twin Towers a New York e contro il palazzo del Pentagono a Washington la politica internazionale sta offrendo indizi troppo evidenti, per non essere analizzati, con l’intento di una lettura credibile degli avvenimenti che, a cavallo tra il 2001 e il 2002, hanno sconvolto, e continuano a scuotere, gli equilibri planetari. Perché alle “bande”? Perché è stupefacente annotare come, mai come in questo tempo, la cronaca offra una sequela di denominatori comuni che, senza dubbio, possono risultare inadeguati alla ricomposizione di un quadro tendente al completo ma che, contrariamente alle sordine che li tacitano, possiedono una loro voce, indistinguibile per l’opinione pubblica, e invece fondamentale nell’architettura esplosiva dell’intero scenario. Nello spazio di queste poche pagine si tenterà, quasi per titoli, di offrire l’accostamento di alcuni pezzi di quello che può essere inteso come puzzle, un mosaico che a qualcuno non giova ricomporre, tanto apparirebbe stupefacente l’insidia che adombra e governa la postura della real politik, una volta saltati parametri, punti di congiunzione, tenuta, rottura. Quanto detto sino a qui apparirà fumoso, non congruo, inefficace. È probabile. L’efficacia, però, cresce nella ricerca. Ecco dunque un’ipotesi di traccia di ciò che è possibile affermare. Su ciò che, per ora, è indicibile ci si riserva un lavoro futuro.
Attacco dell’11 settembre 2001, stato di guerra tra Pakistan e India, sbriciolamento delle casse argentine e, adesso, emersione del crack della Enron, gigante dell’energia statunitense. Un’ipotesi? Due parole: effetto domino. Il caso Enron, la storia che fa tremare la Casa Bianca, è francamente emblematico. È il settimanale Time, il 13 gennaio scorso, a portarlo alla ribalta. Il periodico scrive che il 12 ottobre 2001, quattro giorni prima del clamoroso annuncio sui guai finanziari della Enron, un avvocato dei vertici della Arthur Andersen manda un memorandum ai revisori di conti al lavoro sul caso Enron. L’ordine sarebbe il seguente: distruggere il materiale relativo al gigante dell’energia “con l’eccezione di quello più essenziale al lavoro”. Vengono polverizzati migliaia di e-mail, documenti elettronici e su carta: sono quindi azzerate azioni e motivazioni dei top manager Enron. La Andersen ammette che un numero “significativo, ma indeterminato” di documenti è stato distrutto. Intanto, è già noto che la maggiore attività della Enron Corp., unità per il commercio all’ingrosso dei prodotti energetici, è stata venduta alla banca d’investimenti Ubs Warburg. La vendita avviene nell’asta conseguente al fallimento dell’azienda americana. La Ubs Warburg, sussidiaria con sede a New York della Ubs Ag svizzera, ha battuto la concorrenza: ha inferto cioè un colpo tremendo alla Citycorp Inc., maggiore banca degli Stati Uniti e uno tra i maggiori creditori della fallita Enron.
L’11 agosto del 2001, ad un mese dall’attacco aereo contro gli Usa, il nome della Citycorp Inc. appare in un “libro bianco” di 1.500 pagine, presentato a Buenos Aires dalla presidentessa della Commissione parlamentare sul riciclaggio, Elisa Carriò. La signora, che dice di temere per la propria incolumità a causa di quanto sta denunciando, presenta un documento sconvolgente: 20 anni di storia del suo paese, più nomi di personaggi eccellenti e di società che avrebbero formato “la matrice dello stato mafioso” argentino. Secondo la deputata, l’intreccio tra mafia e corruzione sarebbe alla base, in Argentina, di arricchimenti illeciti e dello spaventoso debito estero di 300mila miliardi di lire. I singoli, avverte Carriò, non avrebbero mai potuto tanto se non appoggiati da una rete internazionale di banche e personaggi senza scrupoli. Ecco dunque apparire la Citycorp Inc., la Citybank, la Cei, la Bcci, ovvero la Bank of Credit and Commerce International, che vanta negli anni ruggenti una sede più che interessante a Islamabad.
È straordinario. Nelle pagine della Commissione argentina ci sono i nomi dei principali complici di una rete mafiosa che avrebbe svuotato le casse dello stato attraverso operazioni miliardarie ed illegali. Movimenti finanziari sistematicamente posti in essere da società uruguaiane e panamensi, oltre che da banche off-shore, per compiere mastodontiche azioni di riciclaggio. Vengono messi sotto osservazione i processi “Ibm-Banco Nacion”, la “legge sui brevetti”, la vendita illegale di armi, il saccheggio e il conseguente fallimento di tante banche argentine, l’attentato contro la società ebraica Amia (che nel ’94 farà più di 80 morti) e la sua pista siriana. I riflessi interni di questa denuncia sono rilevanti perché vengono citati, come protagonisti di queste vicende, nomi legati all’esecutivo caduto sotto la protesta della classe media e all’ex presidente Carlos Menem. Per quest’ultimo si parla ampiamente del fratello Eduardo, dell’ex segretario Alberto Kohan, dell’ex cognato Emir Yoma. Dell’esecutivo travolto dalla rivolta, ricorrono i nomi del coordinatore del governo Chrystian Colombo, del sottosegretario alle finanze Daniel Marx, del ministro dell’economia Domingo Cavallo, deus ex machina del piano delle privatizzazioni nell’esecutivo Menem, e accusato dal deputato Mario Cafiero di aver costituito un sistema di gestione fraudolento del debito estero, oltre che d’essere azionista della società Cgn Financial Capital, con sede nelle Bahamas. Quello che accadrà in Argentina è sotto gli occhi di tutti.
Sotto la lente di Carriò, si è detto, c’è la Bcci. Una storia chiusa, diranno in molti, ben sapendo che l’epilogo della Bcci altro non è potuto essere che “una storia chiusa”; ovvero una vicenda da imbavagliare in fretta e furia, senza che molti responsabili dei suoi disastrosi risvolti pagassero realmente sul piano penale, e senza lasciare spiraglio alcuno a commenti o analisi che potessero divenire di dominio pubblico. Un’omissione d’immagine che non ha comunque impedito che la bancarotta della Bcci fondasse, addirittura, il paradigma di una specifica disciplina, denominata forensic accounting, nata e affermatasi negli Usa, nel Regno Unito, in Canada, e scaturita dalle investigazioni contabili alle grandi frodi finanziarie del pianeta. Tra le svariate attività della Bcci, quella di affari legati alle armi: ad esempio (solo un piccolo esempio), per foraggiare i mujaheddin afgani e arabi contro l’invasore sovietico. Bene. Il 23 marzo del 2001 emerge che i liquidatori della Bcci, istituto fallito nel ’91 sotto montagne di debiti per oltre 10 miliardi di dollari (più di 20mila miliardi di lire), potranno fare causa alla Banca d’Inghilterra per un massimo di 1 miliardo di sterline, oltre 3mila miliardi di lire. A stabilirlo è la Camera dei Lords britannica. Liquidatore della Bcci? La mastodontica società di revisione e consulenza Deloitte & Touche, che accusa i funzionari della banca d’Inghilterra di negligenza, perché l’istituto centrale non avrebbe mai dovuto concedere una licenza alla Bcci, che ha fatto di Londra il principale centro operativo.
La questione, comunque, è già sotto osservazione del governo inglese, almeno dal 27 agosto del 2000. È in quella data, infatti, che un’agenzia di stampa annuncia che Cherie Blair, moglie del leader britannico, è nel mirino dei conservatori britannici. Perché? Il quotidiano Independent non lascia spazio a equivoci. La signora, nonché uno degli avvocati più in vista del regno, è accusata di utilizzare l’appartamento di Downing Street anche per motivi di lavoro: quest’indiscrezione scatena la reazione del partito all’opposizione. Il problema, però, è un altro. A causa di quale lavoro, l’avvocato Cherie Booth (cognome da nubile che la signora Blair usa nella sua professione) usa Downing Street? Risposta: per incontrare alcuni legali in merito ad una consulenza sul collasso della Bank of Credit and Commerce International. La Bcci, appunto. Downing Street, sostanzialmente, conferma l’indiscrezione e parla di una madre di famiglia che, per accudire i figli, deve lavorare in casa. Il danno, però, è fatto: la notizia sulla Bcci ormai circola. Almeno, per chi la vuole cogliere. Domanda: perché la moglie del primo ministro del Regno Unito sceglie di trattare proprio l’argomento Bcci?
La risposta, appunto, arriva da quanto emerge da Deloitte & Touche. Come commenteranno gli addetti ai lavori, qui ci si trova dinnanzi ad una questione senza precedenti. È cioè la prima volta, dalla sua nascita, avvenuta 300 anni fa, che la Banca d’Inghilterra viene chiamata davanti a un Tribunale. La Deloitte & Touche, rappresentante di oltre 6mila ex clienti della Bcci, chiamerà a deporre il governatore, Sir Edward George, l’ex Governatore, Lord Kingsdown, e l’ex capo dell’autorità del settore, Brian Quinn. Si dice che la Deloitte & Touche abbia impiegato anni per conseguire l’autorizzazione concessa dai Lord e, raggiunto questo obiettivo, si accinga a chiedere alla Banca d’Inghilterra circa 550 milioni di sterline, senza contare interessi per ulteriori 500 milioni.
Tornando a quanto scritto nel memoriale presentato da Elisa Carriò, è bene ricordare che il nome della Bcci viene presentato appaiato a quello dell’uomo d’affari saudita Gaith Rashad Pharaon che, si ricorda, fu azionista di Montedison negli anni ’80, e uomo “di paglia” per operazioni di riciclaggio negli Usa. Sì, lo stesso Gaith Rashad Pharaon (attualmente presidente, a Parigi, della Pharaon Investment Group) che, poco più di un mese dopo la denuncia proveniente dall’Argentina, di fronte a qualche timido articolo che, dopo l’11 settembre 2001, accosta il suo nome a quello della famiglia Bin Laden, acquisterà interamente una pagina di Le Monde per fornire una secca smentita su sue possibili “partecipazioni finanziarie” con il miliardario terrorista. Elisa Carriò, però, è più penetrante. Afferma che a Pharaon, come al segretario di Menem, Alberto Kohan, sarebbe legato il siriano Monser al Kassar, implicato nell’attentato di Lockerbie, nel sequestro dell’Achille Lauro e sospettato, tuttora, dalla magistratura elvetica, di essere un trafficante di armi. Nonostante tutto, sottolinea la parlamentare, Al Kassar, otterrà la cittadinanza argentina in un batter d’occhio.
Queste accuse si levano, da Buenos Aires, circa un mese prima dell’uccisione di Massud, “il leone del Panshir”, e del seguente attacco terroristico agli Usa dell’11 settembre 2001. Ebbene, un mese dopo, nel caotico rombar di motori di guerra, che si sta per scatenare contro l’Afghanistan, in caccia di Osama Bin Laden, si apre una crisi “lampo” tra Gran Bretagna e Francia. Il tema è scottante. Si chiama riciclaggio di denaro. Questa volta gli strali provengono da Parigi, sotto forma di 400 pagine che compongono un documento redatto dalla Commissione parlamentare francese per i reati finanziari, il cui titolo non è una passeggiata: “La City di Londra, Gibilterra e le dipendenze della Corona: centri offshore, santuari del denaro sporco”. Londra, attraverso il portavoce di Tony Blair, risponde sostenendo che il carteggio è “impreciso”, una difesa alquanto eccentrica per un’accusa che, in poche parole, definisce la City come “luogo d’investimento” utilizzato anche “dalle organizzazioni terroristiche”. Se ciò non bastasse, vengono citati i casi delle isole autonome britanniche, indicate come autentiche “fabbriche per il riciclaggio”, a partire dalle dipendenze della Corona, come le isole di Jersey e Guernesey, definite “buchi neri della finanza mondiale” che godono dell’appoggio “tacito, se non esplicito, del Regno Unito”.
“Riteniamo – controbatte Downing Street – che il rapporto ignori sia ciò che abbiamo già fatto per garantire la trasparenza in questo paese, sia la serie di misure che abbiamo preso dall’11 settembre scorso consultandoci con i nostri partner nel mondo per applicare anche ulteriori controlli”.
La linea di difesa è, fuor di dubbio, vera. Ma debole. Il punto di caduta della piazza inglese, infatti, sta proprio nell’ampio permissivismo della legislazione sui “trust”, normativa che garantisce l’anonimato dei beneficiari reali dei fondi e l’assenza di regole per certe professioni finanziarie. I francesi parlano di uno “stato nello stato”, ovvero di circa 3.800 miliardi di euro in beni bancari su cui aleggia la più completa “indifferenza nei confronti del rischio di riciclaggio”. Insomma, gli autori del documento francese, che preferiscono rimanere anonimi per ragioni di sicurezza, affermano che su circa 40, tra banche, società ed individui britannici, pesa il sospetto di legami con organizzazioni terroristiche. A riprova di quanto affermato, alcuni passaggi di queste pagine vengono dedicati alla somiglianza, quasi perfetta, tra la rete finanziaria di Osama Bin Laden con il sistema utilizzato dall’ex istituto di credito Bcci, per portare a termine operazioni fraudolente. In ragione di ciò, il rapporto ricorda come i nomi di numerosi soggetti britannici, sospettati di avere collegamenti con Bin Laden, coincidano fatalmente con quelli dello scandalo della Bank of Credit and Commerce International.
Brutta storia, dunque. Anche perché la questione Bcci spalanca improvvisamente i farraginosi mondi di altri contenitori. Quello è un punto critico, da troppo tempo presente nel tormentato rapporto tra Occidente e Medio Oriente, e – straordinariamente – sarà seguito con rinnovata attenzione dagli Stati Uniti. Ad esempio, si veda il profilo del neo direttore del Federal Bureau of Investigation (Fbi), designato il 5 luglio del 2001 dal presidente George W. Bush. Robert Mueller, questo il suo nome, ha un curriculum di tutto rispetto. Avvocato del Dipartimento della giustizia, l’attuale direttore della Polizia Federale Usa si è occupato di casi scottanti come la vicenda del generale Manuel Noriega, il leader panamense deposto e poi perseguito per traffico di droga, l’inchiesta sull’attentato di Lockerbie, in Scozia, al volo Pan Am 103 e, appunto, il fallimento della Bcci.
Tutta una suggestione? Di suggestioni, poi divenute quasi tutte realtà, ha vissuto la Bcci, una banca che è giunta ad essere tra le prime dieci banche private del mondo. È il 1971, presso l’albergo Phoenicia di Beirut, quando più di cento persone s’incontreranno in uno splendido salone per celebrare la sua nascita. Primo fra tutte, il suo fondatore, Agha Hassan Abedi, nato a Lucknow, nell’India centro-settentrionale, figlio di un esattore delle imposte per le proprietà del Raja di Mahmudabad, principe ultramiliardario, e rifugiatosi poi con la famiglia a Karachi, nel neo-stato pachistano, seguendo il flusso dei musulmani d’India che, al momento della divisione del subcontinente indiano, scelgono la via pachistana. Una via che non impedisce al giovane Abedi di pensare in grande, assorto in una sorta di megalomania da sistema finanziario in grado di gettare un ponte tra le potenze economiche occidentali e i sistemi traballanti di alcuni paesi del Terzo mondo; naturalmente, per costruire la più grande banca del pianeta. Abedi inizierà con la prima pietra, la United Bank, nata quasi esclusivamente con il denaro di uno dei più ricchi uomini d’affari pachistano, tale Naseam Saigol. Di questo gruppo Abedi sarà vice direttore. Ma basteranno circa tre anni per convincerlo che si può fare di più. Un giro per tutti gli Emirati Arabi, un’ottima entratura con la Bank of America, che intendeva allargare la propria influenza proprio nell’ambito mediorientale, e Abedi si troverà a fondare la sua Bcci, contando su un capitale di più di 2 miliardi di dollari.
La creatura di Abedi si allarga a macchia d’olio. In breve penetrerà in ben 32 paesi, potendo contare su 146 filiali di cui 45 nel Regno Unito. È il momento per distinguere tanta grandezza. La banca si divide in due società, una con sede in Lussemburgo l’altra con sede nelle isole Cayman. Non basta. Abedi vuole di più, Abedi vuole gli Usa. Grazie all’appoggio dell’ex segretario alla Difesa, personalità del Partito democratico, Clark Clifford, che poi diverrà suo avvocato, e al responsabile del Bilancio di Jimmy Carter, Bert Lance, Abedi compra quattro banche statunitensi. Di questa, una è la più rinomata banca di Washington, la Financial General, che cambierà nome in First American. Il gioco è fatto. Presso quegli sportelli investiranno le personalità più influenti della città del Congresso, mentre sarà sempre più crescente e diffusa la clientela meno chiara o, per meglio dire, agente fuori dalla legalità. Un fatto che esploderà grazie ad un’inchiesta, denominata “C-Chase”, aperta dal Servizio doganale statunitense di Tampa (sì, proprio a Tampa, città-base anche per l’azione dell’11 settembre 2001), in Florida (nel 1989, una delle filiali Bcci a Miami ammette la propria colpevolezza per aver riciclato denaro proveniente da traffico di stupefacenti), che verrà condotta con grande spregiudicatezza: un agente “coperto”, aperto un conto presso la filiale Bcci, inizia a farvi confluire denaro da riciclare, proveniente dal traffico di droga. Il gioiello di Abedi si sbriciola in pochi mesi. Presto, tra gli innumerevoli dati raccolti nell’atto di accusa della Federal Reserve, si dirà che tra gli azionisti della banca vi sono anche suoi prestanome: ad esempio, Gaith Rashad Pharaon e Kamal Adham, capo dell’intelligence di Ryihad e intimo dei Bin Laden.
Sul cammino della Bcci si abbattono i primi ostacoli. Un cammino che, intanto, ha condotto la banca nel cuore di Ginevra, per aprire la Bcp (Banque de Commerce et de Placements), adibita ad operazioni petro-finanziarie, utile quando, nel ’77, il regime del dittatore Mohammad Zia ul-Haq, in Pakistan, svenderà ai soci Bcci una buona parte dei pozzi petroliferi del suo paese. A beneficiarne saranno Adham, Pharaon, Faisal Saud al-Fulaij. Tra i grandi sostenitori dell’istituto si fa anche largo la Cia che, per diverse ragioni, intende accrescere la propria sfera d’influenza nell’area mediorientale e centro asiatica. Grazie ai continui contatti con i servizi segreti sauditi, l’intelligence statunitense si apre una prospettiva economica sganciata dal Congresso e fa il proprio ingresso nell’istituto pachistano: Kamal Adham e Abdul-Raouf Khalil sono a capo dei servizi di informazione di Ryihad e anche componenti della Bcci. Nel settore centro-asiatico Cia, Arabia Saudita, Pakistan, Gran Bretagna, iniziano a smistare una gran mole di aiuti finanziari per tutte le parti in lotta: in funzione antisovietica nella guerra afgana contro l’Urss, finanziando l’acquisto di armi per entrambi i contendenti nel conflitto iraniano-iracheno. Dall’altra parte del mondo, l’inchiesta “C-Chase” porta i suoi frutti. Un trafficante di droga confessa di aver usato la filiale di Miami per il riciclaggio del denaro. Ma c’è di più. La rivelazione più importante su quell’istituto, la Capcom, sta nella seguente affermazione: come lui, ha anche operato Manuel Antonio Noriega che, in questo modo, verrà accusato di traffico di stupefacenti, riciclaggio di denaro, di appoggio ai trafficanti, di corruzione per milioni di dollari. La Bcci tenterà di salvare il capitale di Noriega, ben 23 milioni di dollari, frammentandolo in conti aperti in Europa, mentre gli statunitensi invaderanno Panama per arrestare Noriega, l’uomo che avevano imposto in quell’area. Giungerà a termine anche l’operazione sulla filiale Bnl (Banca nazionale del Lavoro) di Atlanta, rea di aver prestato bilioni di dollari al regime di Saddam Hussein. In pochi mesi, dietro quello sportello Bnl, sorgerà l’ombra della Bcci, un progetto che ormai ha troppo a che fare con traffico di armi, tecnologia atomica, droga.
La creatura di Abedi sarà sospesa dall’attività il 5 luglio 1991, in una seduta di una Commissione d’inchiesta composta da Usa, Regno Unito, Lussermburgo, isole Cayman, Spagna, Svizzera, Francia. Alla sospensione dell’attività, seguirà però una “non sospensione” degli strascichi e delle omissioni gravi riguardanti l’intera vicenda. L’attacco terroristico dell’11 settembre pone al centro dello scontro una questione importante: le basi finanziarie del terrorismo transnazionale di Al Qaeda, la rete di Osama Bin Laden. Ebbene, cosa resta dell’assetto della Bcci in una rete come quella di Al Qaeda? E, quest’ultima, sarà veramente la struttura occulta di cui si parla oggi o, invece, sarà solo la porta d’ingresso di un altro livello decisionale superiore?
C’è da lavorare, anche perché chi lavora coglie sempre i suoi frutti. Ultimo esempio. Il 26 aprile del 2000, sul quotidiano La Stampa, tale John Carlin scrive un interessante articolo intitolato “Il nuovo copione del dottor Stranamore”. Tale signore sostiene che è in atto da tempo un sostanzioso smercio di armi nucleari “in valigetta”; che su questo materiale l’area calda riguarda Pakistan, India e repubbliche ex-sovietiche; che sono possibili attentati contro obiettivi nordamericani, per aggredire “il Grande Satana. Il quale risponderebbe probabilmente con un attacco aereo convenzionale all’Afghanistan”. Che mago, questo Carlin, documentarista del Congresso statunitense. Con più di un anno di anticipo sa già che, prima o poi, si dovrà bombardare l’Afghanistan. Che fantasia: o meglio, che buon lavoro da serio analista degli affari riservati. Qualcuno se n’era accorto?

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