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febbraio/2002 - Interviste
Magistratura
Una riforma a metà
di Giovanni Conso

È quella detta del “giusto processo”, inserita nell’art. 111 della nostra Costituzione. La norma avrebbe dovuto essere apprestata in maniera migliore al fine di evitare incertezze e discrasie

Proprio all’alba del 2000 - più esattamente, a partire dal 23 dicembre 1999, giorno della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, o, meglio ancora, dal 7 dicembre 2000, giorno della sua entrata in vigore - la tematica del “giusto processo”, per chi preferisce usare la terminologia adottata da tale legge, oppure dell’”equo processo”, per chi preferisce usare la terminologia della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali nella traduzione italiana del testo ufficiale francese, ha visto crescere, non di poco, il suo peso nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale. E ciò non solo, come ovvio, in quanto il suggestivo concetto è stato così calato in Costituzione all’interno di quell’art. 111 che già ospitava le prime basilari “norme sulla giurisdizione”, ma anche per il concomitante aumento delle tante altre prospettive (storiche, filosofiche, esegetiche, comparatistiche) da cui - a parte, appunto, l’ora acquisita portata costituzionale - è possibile, se non necessario, prenderlo in esame. E’ su una di queste prospettive, forse la meno evidente, anche perché la più sottile, che vorrei ora soffermarmi, sia pur molto rapidamente.
Si tratta della prospettiva, che denominerei sistematica, volta ad inquadrare il nuovo modo di porsi dei rapporti tra Costituzione italiana e Convenzione europea sul terreno del “giusto” od “equo” processo. Nuovo nel senso che, dopo le tante incertezze e le estenuanti oscillazioni (largamente testimoniate anche e soprattutto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione) sin qui avutesi circa il rango da riconoscere alla Convenzione europea nella gerarchia delle fonti, è ormai fuori di ogni dubbio che i “princìpi del giusto processo” (dizione usata nell’intitolazione della legge costituzionale n. 2 del 1999) sono da considerare costituzionalizzati. Anzi, è stato proprio il raggiungimento di questo risultato drasticamente chiarificatore il vero motivo che ha spinto la larghissima maggioranza del Parlamento al “grande passo”, in neppure troppo tacita polemica con le sentenze di illegittimità costituzionale che hanno colpito l’art. 513 c. p. p. prima e dopo la riforma apportatagli dalla legge 7 agosto 1997, n. 267. Se, dunque, sotto il profilo della chiarezza, e tralasciando qualsiasi considerazione di ordine politico, la novità presenta innegabili riflessi positivi, sotto altri profili la troppa fretta e, comunque, l’eccessiva approssimazione con cui, più o meno consapevolmente, si è proceduto alla revisione costituzionale hanno, invece, dato causa ad alcune conseguenze negative.
Tralasciando possibili riferimenti alla non sempre limpida terminologia usata, come pure al non raro uso di formulazioni sin troppo dettagliate, quasi da norma ordinaria, concentrerò l’attenzione, coerentemente con la prospettiva sistematica in partenza adottata, sulle evidenti disarmonie fra il testo ampliato dell’art. 111 della nostra Costituzione ed il testo dell’art. 6 della Convenzione europea. Disarmonie riscontrabili addirittura in due direzioni, per giunta opposte, dal momento che nella Costituzione non si ritrovano alcune prescrizioni della Convenzione europea, mentre se ne ritrovano altre da questa non contemplate. Con il che il tanto auspicato livellamento tra le due Carte diventa soltanto parziale, risultando in realtà limitato alle parti divenute comuni e riproponendo per le parti restanti il tormentoso problema di prima, specie là dove la Costituzione ha mancato di riprodurre singole componenti dell’equo processo europeo.
Eppure, in partenza l’operazione era stata bene impostata e bene è rimasta impostata, dedicando i primi due dei cinque nuovi commi dell’art. 111 della Costituzione ad ogni “processo” e gli altri tre al solo “processo penale”, in sostanziale corrispondenza con l’art. 6 della Convenzione europea, che dedica il suo primo paragrafo ad “ogni persona” al fine della “determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta” e gli altri, rispettivamente, ad “ogni persona accusata di un reato” (paragrafo 2) e ad “ogni accusato” (paragrafo 3).
Quando, poi, però, dall’impostazione di fondo la legge costituzionale n. 2 del 1999 è passata ad enunciare i singoli princìpi, ecco che, assai meno opportunamente, sono cominciate le diversificazioni rispetto alla Convenzione europea, anche se in misura più accentuata per quelle riguardanti soltanto “il processo penale”.
Relativamente alle prime, infatti, non si può non notare come, dopo il generico, virtualmente tautologico, richiamo che il primo comma dell’art. 111 fa all’esigenza di attuare la giurisdizione “mediante il giusto processo regolato dalla legge”, il comma successivo abbia ripreso dal paragrafo 1 dell’art. 6 della Convenzione europea gli essenziali riferimenti all’indipendenza - o terzietà - ed imparzialità del giudice (il “precostituito per legge” figura già in Costituzione al primo comma dell’art. 25), nonché ad un “termine ragionevole” di durata, solo escludendo dalla “copertura” costituzionale l’aspetto della pubblicità (sia come diritto alla “pubblica udienza” sia come sentenza che “dev’essere resa pubblicamente”), aspetto peraltro riconosciuto passibile di numerose deroghe da parte della stessa normativa convenzionale.
Di rilievo sicuramente maggiore appaiono, ad un’attenta lettura, le divaricazioni riscontrabili nell’ambito dei precetti riguardanti unicamente il processo penale. Ed invero, a fianco dei precetti che si trovano a corrispondere pienamente tra loro (è il caso del terzo comma dell’art. 111, ove sono ripresi, quasi in fotocopia, i contenuti delle lettere a, b, d, ed e del paragrafo 3 dell’art. 6), ve ne sono alcuni che, a livello di previsione costituzionale, vanno ben oltre il modello europeo (cosa - beninteso - che il nostro legislatore era padronissimo di fare: si pensi al “riservatamente” richiesto dallo stesso terzo comma dell’art. 111 per l’informativa alla persona offesa della natura e dei motivi dell’accusa, ma specialmente ai successivi commi quarto e quinto in tema di rapporti tra princìpi del contraddittorio e formazione della prova) ed altri che, all’opposto, pur espressamente presenti nel modello europeo, non sono stati inclusi nella recentissima revisione costituzionale. Non è certo il caso né del paragrafo 2 dell’art. 6, essendo l’ivi prevista presunzione di innocenza sostanzialmente in un cardine del secondo comma dell’art. 27 sin dalle origini della Costituzione, né della lettera c del paragrafo 3 dello stesso art. 6, essendo la difesa d’ufficio, per chi non abbia i mezzi per ricompensare un difensore di propria scelta, già chiaro oggetto del terzo comma dell’art. 24 della Costituzione. E’, invece, il caso del “gratuitamente” con cui la lettera e del suddetto paragrafo 3 accompagna il diritto di farsi assistere da un interprete per chi non comprende o non parla la lingua impiegata nell’udienza, non bastando il fatto che l’assistenza gratuita da parte di un interprete sia prevista, per ogni imputato che non conosca la lingua italiana, dall’art. 143 del Codice di procedura penale del 1988, in quanto semplice norma di natura ordinaria, pur sufficiente, finché operante, ma solo finché operante, a dare concretezza all’impegno assunto a livello internazionale.
Una cosa è certa: la revisione avrebbe potuto (e dovuto, dato il suo così rilevante peso costituzionale) essere apprestata meglio. Purtroppo, il “giro delle quattro votazioni” sicuramente non favorisce il miglioramento del prodotto in gestazione. Ricominciare da capo un giro tanto lungo inevitabilmente scoraggia quanti abbiano fretta di vederlo concluso. I risultati sono, poi, quelli che sono, più che discutibili.
(per gentile concessione de “La Magistratura”, organo dell’Associazione Nazionale Magistrati)

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