Chi non c'è stato non può capire il clima e la tensione che c'era in quei giorni a Genova.
E invece bisogna capire, analizzare, spiegare.
Perché si sono costrette decine e decine di persone detenute, ormai incapaci di ogni resistenza o di reazione, a stazionare a Bolzaneto con la faccia al muro, le gambe divaricate, a capo chino e le mani alla parete.
Perché si è voluto imporre un clima di tensione sospesa, di ritorsione indiscriminata contro i "presunti" responsabili degli scontri, dei disordini o delle violenze di piazza?.
E' evidente che a quel trattamento degradante, che voleva alienare l'identità delle persone detenute, la loro potenziale opposizione all'ordine e alla disciplina imposta dalle Forze di polizia, potevano seguire abusi e violenze gratuite ed ingiustificate da ogni prassi operativa e professionale.
“Faccia al muro!” “Faccia al muro!” “Vuoi bere?” “Andare in bagno?” “Devi avvertire i tuoi?” “ L'avvocato?” “Anche tu non centri niente?” “Che ci sei venuto a fare a Genova! Cosa volevate fare contro di noi !”
Si è saldato così un falso e deleterio spirito di emulazione con le altre Forze di polizia. Ci si è caricati delle tensioni e dell'aggressività liberata da alcuni, senza conservare lucidità, coscienza umana e professionale. Si continuava a tenere "i prigionieri”, già duramente colpiti ed annientati in totale sottomissione e soggezione, perché così stavano facendo gli altri, poliziotti, carabinieri, finanzieri.
A qualcuno è sembrato che quella durezza, quella spersonalizzazione e quella tensione minacciosa conferisse più autorevolezza, più senso operativo, una efficace immagine di potenza di uno Stato forte e determinato.
Ma quale autorevolezza, quale immagine, quale determinazione resta quando poi si debbono negare i fatti gli errori e gli abusi avvenuti.
La responsabilità è personale. Ed anche gran parte delle responsabilità disciplinari e amministrative sono state soverchiare da iniziative, atteggiamenti e azioni individuali.
Ma che difesa può essere quella che nega o minimizza gli abusi, perfino gli inutili e deleteri trattamenti disumani e degradanti adottati, perché non ci sono prove di autentiche torture come le hanno raccontate i giornali o il tam-tam metropolitano?
Molti intuiscono e sottendono, (anche tra i non addetti ai lavori), che qualche schiaffo è volato, qualche calcio e cazzotto è piovuto gratuitamente. Possiamo solo augurarci che quelle violenze non inchiodino tutto il Corpo, gli operatori e l'Amministrazione ad una condanna e alla riprovazione della pubblica opinione più diffusa.
Sì, perché siamo consapevoli che la pubblica opinione davanti a violenze accertate di qualsiasi grado ed estensione, non giustificherebbe nessuna prassi operativa, nessun superiore bisogno di autorità e di durezza contro imputati o presunti responsabili di qualsiasi tipo di reato.
E allora quella nicchia di duri, di quelli che saprebbero come fare e garantire l'ordine, la disciplina, l'autorità e la fermezza, ma che non sono né sarebbero disposti a riconoscersi responsabili delle possibili (e davvero ineluttabili) conseguenze, quella nicchia di ideologismi e di frustrazione dell'identità di poliziotti in azione, finisce per essere il tarlo, forse la coltura infetta del Corpo, del senso dello Stato, della democraticità e della professionalità della Polizia Penitenziaria e degli operatori che, ad ogni livello, la blandiscano o la tollerino.
Occorre perciò capire, non solo Bolzaneto, ma ogni febbre o tensione nervosa che percorre l'organismo di questa Amministrazione, per sterilizzare questa infezione, per abbassare questa febbre, perseguendo dignità, professionalità, lucidità operativa, senso dello Stato democratico, che possa confrontarsi con la società civile e politica senza adombrare la propria realtà o separare il proprio mondo dal resto.
Chi dirige l'amministrazione penitenziaria, la classe politica e le rappresentanze sindacali non devono aver paura di leggere la realtà, perché irta di insidie o per timore di non essere capiti dai poliziotti. La storia degli apparati di Polizia insegna che senza democrazia e trasparenza, cadono per primi la dignità, l’immagine, il riconoscimento professionale, i diritti e le garanzie degli operatori.
Fabrizio Rossetti
Responsabile nazionale Fp Cgil Polizia Penitenziaria
|