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gennaio/2002 - Interviste
Armi
Sull’uranio impoverito, la penso così
di Falco Accame

Sulla nota questione dei proiettili ad uranio impoverito, usati durante l’intervento Nato nei Balcani, ecco il testo di una lettera che Falco Accame, presidente dell’Associazione Nazionale Assistenza Vittime arruolate nelle Forze Armate e Famiglie dei Caduti (Ana-Vafaf), ha inviato al professor Mandelli, incaricato dal ministero della Difesa di svolgere uno studio sull’argomento.

“Gentile professor Mandelli,
ho avuto modo di analizzare in dettaglio la sua seconda relazione sull’uranio impoverito. Mantengo e confermo tutte le perplessità e preoccupazioni per le conclusioni già manifestatele a proposito della prima relazione.
Non intendo certo riferirmi alle tematiche che riguardano questioni mediche, fisiche, chimiche, coinvolte nella problematica, ma alle questioni di metodo prese in considerazione nell’impianto delle relazioni. Infatti, come ricercatore operativo in anni passati, già capo del Centro di Ricerca Operativa delle Forze Armate, capo di un gruppo di lavoro presso la Nato per la ricerca in settori avanzati nel campo delle Commissioni mediche ospedaliere e capo del gruppo Sadoc per la progettazione dei sistemi operativi di combattimento della Marina Militare, ritengo di avere i titoli per intervenire in questo settore.
Quando io le posi la questione, nel colloquio che avemmo alla presenza del dott. Bongiovanni e della dott.ssa Degrassi, circa i dati necessari per il lavoro della Commissione, lei mi rispose che questi dati glieli avrebbe forniti il ministero della Difesa. Ma dalle relazioni risulta che questi dati essenziali non le sono stati forniti. Infatti, in particolare, per quanto riguarda la Bosnia, non risultano i dati spazio/temporali circa gli obiettivi colpiti con le armi all’uranio ed ancor meno le posizioni dei militari relativamente a questi obiettivi, mentre è evidente che la pericolosità di un’arma all’uranio per l’uomo dipende dalle distanze a cui l’uomo si è trovato dai luoghi d’impatto. E se non si conoscono le posizioni relative non ci si può fare neppure un’idea del pericolo a cui è esposto. La distanza non è certo l’unico fattore da prendere in considerazione, occorre anche sapere se il personale operava adottando misure di protezione o meno (in Bosnia certamente operavano senza protezione).
Altro fattore da considerare è la quantità di uranio con cui è stato colpito l’obiettivo (un proiettile può contenerne circa 300 gr di uranio, un missile circa 300 Kg). Altro fattore è quello ambientale (il vento, la neve, la pioggia, ecc.). Ancora un fattore riguarda il momento in cui i militari si sono trovati in vicinanza dell’obiettivo: un conto è se vi si sono trovati al momento dell’impatto, un conto è se vi si sono trovati in tempi successivi.
Ma naturalmente il fattore distanza è fondamentale. Le norme di sicurezza, impartite dal ministero della Difesa in data 22 novembre 1999, firmate dal colonnello Osvaldo Bizzari, e adottate dalla Forza Multilaterale Ovest nei Balcani, stabiliscono in 500 metri la distanza di sicurezza per un obiettivo costituito da un carro armato distrutto. Avvicinarsi a una distanza inferiore rappresenta chiaramente un rischio. Naturalmente si tratta di un dato puramente indicativo, derivato dalla esperienza fatta dagli Usa durante la guerra del Golfo negli Emirati Arabi e in Irak. Certamente la distanza sarebbe superiore se l’obiettivo fosse un edificio distrutto da un missile.
Comunque viene fornito un ordine di grandezza nel senso che il rischio per una distanza più ravvicinata rispetto ai 500 metri (ad esempio: 50 metri o 5 metri) è certamente superiore; mentre per una distanza più grande (5.ooo metri o 50.000 metri) è certamente inferiore. Occorre stabilire quando la distanza è da considerarsi tale per cui il rischio diventa irrilevante. E questo deve essere chiaramente stabilito e motivato. Altrimenti se si valuta che persone che si trovino, ad esempio, a 20 km di distanza dall’obiettivo colpito possono considerarsi soggette a contaminazione, vuol dire che la potenzialità inquinante dell’uranio (chimica e fisica) è altissima. E ciò è ovviamente in totale contrasto con la tesi secondo cui il rischio di contaminazione dell’uranio è bassissimo.
Quindi delle due l’una: se, ad esempio, assumiamo un raggio di 5 o 10 km come distanza massima, al di là della quale il rischio è irrilevante, si deve prendere in considerazione come personale esposto al rischio solo quello che si è trovato a distanze inferiori a questa convenzionalmente, accettata come limite oltre il quale il rischio si può ritenere inesistente. Certamente solo una parte dei 40.000 militari che hanno prestato servizio in Kosovo e in Bosnia si sono trovati a distanze comprese nei limiti entro i quali si ritiene che la possibilità di contaminazione sia irrilevante. A meno che, naturalmente, non si ammetta che non esistano limiti alla cui distanza l’uranio impoverito può presentare pericoli. Ma se accettiamo questa concezione (alcune particelle di uranio potrebbero in effetti essere trasportate dal vento) allora, ad esempio, anche 50 milioni di italiani hanno la possibilità di essere contaminati sul suolo patrio.
In altre parole non si capisce in base a quale criterio si assumano come “potenziali contaminabili” dal rischio tutti i 40.000 militari ipotizzati come presenti nell’area. Tra l’altro chi opera in un ambiente chiuso (edificio, mezzo blindato) è ovviamente meno vulnerabile di chi opera all’aperto. Anche chi è presente a 5 metri o a 50 metri da un carro armato distrutto non è esposto allo stesso rischio se si trova nel chiuso di un blindato o se opera, magari senza alcuna misura di protezione, all’aperto.
Nelle relazioni non si fa alcun cenno sulle posizioni geografiche degli obiettivi colpiti in Bosnia eppure, come ebbi a precisarle, questi obiettivi sono noti perché i raid aerei effettuati sulla Bosnia sono partiti, per la quasi totalità, dalla base di Aviano (al comando di un colonnello dell’Aeronautica italiana). E per ogni raid il pilota, nel suo rapporto di operazione, deve specificare quali obiettivi ha eventualmente colpito, le coordinate geografiche di questi obiettivi, i colpi impiegati all’uranio e no. In mancanza di questi dati non possono stabilirsi le distanze, come sopra specificato, dei militari presenti nell’area, dagli obiettivi. E per ogni militare potenzialmente esposto occorre conoscere il suo “status espositivo”, la sua “storia operativa”. Ma nelle relazioni mancano sia i dati relativi alle posizioni degli obiettivi, sia quelli relativi alle posizioni dei militari rispetto a questi obiettivi.
In queste condizioni che senso ha fare dei calcoli di pericolosità? Non è possibile esprimere alcuna seria valutazione. Un conto infatti è se prendiamo in considerazione 28 casi di possibili contaminati rispetto a 40.000 “potenziali esposti”; un conto è se consideriamo 28 casi rispetto a 20.000 “potenziali esposti”. Ma come posso stabilire questo numero di “potenziali esposti” se non si conoscono, quantomeno, le posizioni relative in cui si sono venuti a trovare i singoli militari durante le esplosioni e dopo le esplosioni?
Per chiarire ulteriormente la questione faccio un esempio: supponiamo di conoscere le posizioni degli obiettivi n. 1, n. 2, n. 3, n. 4, n. 5, ecc. e di conoscere altresì il quadro della distribuzione sul terreno dei singoli militari, di conoscere quindi la posizione dei singoli militari rispetto ai singoli obiettivi. Consideriamo l’obiettivo n. 1. Possiamo dire che per questo obiettivo, supponiamo (riferendoci per semplicità al quadro normativo delle norme di sicurezza, emanate dal ministero della Difesa) che si tratti di un carro armato distrutto. Potremmo sapere, ad esempio per questo obiettivo, che al momento della esplosione nessun militare, né operante all’aperto né al chiuso di un veicolo, si trovava entro 500 metri di distanza. E nel contempo 1.000 militari si trovavano entro un raggio di 5.000 metri e altri 1.000 entro un raggio di 10.000 metri. E, magari, sappiamo inoltre che questi operavano in locali coperti. Sappiamo anche che in tempi successivi all’esplosione, 3 militari che operavano allo scoperto hanno sostato in vicinanza del carro armato distrutto e senza adottare misure di protezione. Inoltre spirava un forte vento. Mentre per il resto dei militari, la distribuzione sul territorio è rimasta quella precedentemente esemplificata. E così via: per ogni obiettivo dovremmo conoscere la situazione specifica in rapporto ai militari presenti, individuando i tempi e gli spazi in cui possono essersi verificate delle contaminazioni.
La base dei dati per costruire gli studi doveva contemplare, obiettivo per obiettivo, analisi di questo tipo, pena la insignificanza dei risultati. Ma tutto ciò non risulta minimamente dalle relazioni.
E non si può nemmeno mettere assieme la situazione della Bosnia con quella del Kosovo in quanto non omogenee. Esse infatti differiscono. Per esempio, per il Kosovo, a differenza della Bosnia, si hanno almeno delle indicazioni, sia pure assai vaghe, sulle posizioni geografiche degli obiettivi colpiti. Inoltre, per il Kosovo, a differenza di quanto accaduto in Bosnia, è stato affermato che il personale (almeno 5 mesi dopo l’inizio del conflitto) operava adottando norme di protezione. E quindi tale personale era assai meno esposto al rischio.
Non entro in merito a tutta una serie di altre questioni, preciso solo che alcuni problemi metodologici le erano già stati fatti presenti dal professor Zucchetti dell’Università di Torino.
Non mi soffermo neppure sull’errore di calcolo che è stato rilevato dal professor Bertoli-Barsotti: se questo errore (scelta della distribuzione Gauss invece di quella di Poisson) non fosse stato compiuto la “significativa statistica” dei linfomi di Hodekin sarebbe emersa fin dalla prima relazione.
Non entro altresì nel merito del fatto che le relazioni sono imprecise circa il numero di malati presi in considerazione. Ciò perché le associazioni (certamente quella che io presiedo) non sono state interpellate circa i casi che erano stati ad esse segnalati. Tra l’altro alcuni degli ammalati per ragioni di privacy hanno chiesto alle associazioni di non rendere noto il loro nome. Inoltre, vari ammalati non hanno reso nota la loro condizione per il motivo che rischiavano di perdere il posto di lavoro.
Altri i casi che stanno lentamente emergendo, sono relativi ad ammalati che non hanno messo in relazione la loro malattia con la possibilità che questa fosse dovuta a contaminazione da uranio impoverito. Dunque non vi è alcuna garanzia che i casi considerati siano esaustivi. Inoltre, poiché gli studi si sono limitati alla Bosnia e al Kosovo, sono stati esclusi i possibili contaminati nella guerra del Golfo e in Somalia. Infine, né i 9 né i 13 registri dei tumori considerati possono ritenersi sufficientemente significativi come campione per l’Italia in grado di stabilire dei termini di riferimento.
È inoltre completamente mancata una sperimentazione in “corpore vili”, una sperimentazione che doveva e poteva essere eseguita nei poligoni di tiro colpendo con armi all’uranio vari obiettivi (carri armati, edifici, ecc.) e sperimentando i possibili effetti di nocività prodotti dalle polveri di uranio, cioè dall’ossido di uranio. Non si capisce perché questo aspetto essenziale del metodo scientifico (le verifiche sperimentali che ci hanno insegnato a fare Galileo e Bacone) non sia stato neppure preso in considerazione. Una tale questione era stata fatta anche rilevare dal professor E. Lodi Rizzini dell’Università di Brescia.
Desidero peraltro aggiungere una considerazione di ordine generale relativa alla questione della incompletezza dei dati che condiziona negativamente le relazioni, cioè il “depauperamento” (imposto o voluto) circa la base di riferimento.
In proposito mi viene in mente quanto accade nel campo della logica simbolica da parte dei formalisti logici quando si occupano della dimensione sintattica della logica che trascura altre dimensioni del significato. Si tratta anche qui di un “depauperamento” che non è senza conseguenze. Però i formalisti logici dichiarano con sincerità quello che hanno lasciato fuori dalle loro considerazioni. Invece, le relazioni sull’uranio impoverito non fanno cenno a tutto ciò che è stato lasciato fuori. Mi auspico che questo non sia dovuto al fatto che trattando materiale “impoverito” sia stato ritenuto giustificato un “impoverimento” dei dati che lo riguardano.
Sarò ben lieto di fornirle ogni altra precisazione se queste mie osservazioni non sono risultate sufficienti a chiarire la problematica. Le mie vive preoccupazioni riguardano il fatto che sono state tratte delle conclusioni, a mio avviso, non sufficientemente avallate da metodologie appropriate. Se posso permettermi di darle un suggerimento sarei a chiederle di ritirare le relazioni in attesa che possano essere riformulate, su una base di dati che il ministero della Difesa deve fornirle e che non lasci spazio ai gravissimi dubbi che possono sorgere sulle conclusioni. Quanto sopra limitandomi a valutare il piano formale e strutturale senza entrare nel merito della discussione sui contenuti che, come si sa, vede schieramenti di scienziati su posizioni nettamente contrapposte e certamente non concordi nell’affermare la nullità di rischi nell’uso dell’uranio impoverito”.
Falco Accame
Presidente Ana-Vafaf

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