Le operazioni di bombardamento in terra afghana, hanno dimostrato in modo inequivocabile, l’importanza dei raid strategici per taluni scenari di guerra
Contro le previsioni di tutti gli esperti militari-strateghi che abbiamo ascoltato in questi due mesi, (speriamo ora in un po’ di autocritica) ha vinto il generale Douhet. È in pratica la sua seconda vittoria dopo quella nella ex Jugoslavia e quella (parziale) nella guerra nel Golfo. Il generale Douhet non è però tra quelli in servizio attualmente. È morto molti anni fa. Nel 1921 scrisse un libro diventato celebre: “Il dominio dell’aria”, (anche se era un ufficiale di cavalleria).
Il suo libro ispirò il generale Usa William Mitchell sull’impiego dell’arma aerea americana; l’impiego dell’aviazione di Douhet si ispirava al principio di “spezzare le resistenze morali e materiali dell’avversario attraverso il dominio dell’aria”.
Sia in Afghanistan come nella ex Jugoslavia e parzialmente nella guerra del Golfo, gli Usa hanno potuto contare su una enorme supremazia aerea. Mentre nella guerra contro i sovietici gli afghani potettero servirsi per l’azione antiaerea dell’aiuto degli Usa, questa volta non hanno potuto contare su alcun aiuto esterno.
Negli Stati Uniti la teoria di Mitchell, derivata da quella di Douhet, suggerì i bombardamenti a tappeto nella Seconda Guerra Mondiale. Questi però furono considerati come “guerra agli inermi” e “terrorismo aereo”, provocando in tutti i commentatori timore di assoluta impopolarità.
Da osservare che la dottrina di Douhet si ispirava a quella di un italiano di un secolo prima (1858): Giuseppe Collina, autore di “Laostenia”. Egli fu il primo autore ad intuire lo sviluppo dell’aeronautica che allora riguardava gli aerostati.
Si può anche osservare che, indirettamente, la teoria di Douhet si riallaccia al pensiero di Lenin e anche del “giovane”Clausewitz che affermava l’identità di guerra e politica.
Douhet ha dunque vinto, contro tutte le previsioni, in Afghanistan, facendo terra bruciata e avvalendosi anche di ciò che Douhet non poteva prevedere circa la molto accresciuta perfezione delle armi aeree. Comunque la partita non è ancora chiusa perché si può sviluppare un’azione di guerriglia (quella che Clausewitz chiamava guerra di popolo), ma anch’essa ha bisogno di supporto tecnico per vivere.
Tuttavia debbo fare una precisazione rispetto a quanto ho scritto sopra a proposito del generale Douhet.
Artefice è stato in realtà anche un altro generale, il cinese Sun Tzu. È morto anch’esso, 2.500 anni fa, ma gli americani hanno saputo rispolverarne un insegnamento (dalla sua opera “L’arte della guerra”): si vince non solo con la distruzione ma anche con la corruzione; occorre “adescare il nemico”. E così non sono piovute dal cielo solo le bombe suggerite dal generale Douhet, ma anche le mazzette di dollari: 100 per far cambiare bandiera a un ufficiale, 10 per un soldato.
Riconosciuto così il dovuto merito anche a Sun Tzu, torniamo a Douhet e al suo contributo che è stato comunque fondamentale. Sintetizzata all’estremo, la sua teoria è basata su due concetti: 1) far massa nell’aria (e resistere in terra e sul mare), dare cioè indipendenza e importanza assolutamente primaria alle operazioni aeree rispetto a quelle terrestri e navali; 2) fare tutto il male possibile all’avversario, tutto senza eccezioni e senza distinzioni.
Non dobbiamo dimenticare che il generale Douhet ha esercitato la sua influenza non solo in Afghanistan, ma anche in patria facendo la guerra alle altre due Forze armate: nella sua opera “Il dominio dell’aria” (pag. 234) egli scrive: “Dominare il nostro cielo vuol dire dominare il cielo mediterraneo, aer nostrum sovrastante il mare nostrum”.
Si creò così molti nemici nelle altre Forze armate e nel 1916 finì recluso nel forte di Finestrelle: la Marina per via delle sue teorie, dovette rinunciare per mezzo secolo al sogno della portaerei. Ma Douhet si creò anche molti sostenitori. Italo Balbo, nella prefazione della edizione del 1932, de “Il dominio dell’aria”, scriveva: “È merito del Douhet aver richiamato per primo l’attenzione di tutti sul problema della guerra aerea”. E lo stesso Balbo nella prefazione alla edizione del 1935 di “La guerra integrale” ricorda le traversie che subì Douhet: “Fu uomo di grande carattere che per le idee soffrì nella stessa guisa di tutti i veri precursori”.
Per Douhet è sostanzialmente la guerra che deve dettar legge alla politica. È qualcosa che ci torna in mente se esaminiamo i rapporti che si sono creati tra guerra e politica in questa vicenda dell’Afghanistan.
Una guerra “post eroica”, cioè con i soldati Usa fuori tiro, in cui, come già accaduto per l’Iraq e la ex Jugoslavia, ben poco si è tenuto conto dei diritti degli inermi (quelli sotto tiro). E ciò anche da parte di quelle potenze occidentali che dicono di ispirare la loro condotta politica allo spirito delle leggi, in sostanza rifacendosi al pensiero di Montesquieu, il quale nella sua opera “L’esprit des lois” afferma che: “Il diritto delle genti è naturalmente fondato su questo principio: che le diverse nazioni debbono farsi nella pace il maggior bene e nella guerra il minor male”.
Mai come in questo conflitto l’Occidente ha dimostrato di essere lontano dagli schemi culturali che invoca.
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Quattro domande sulla “spedizione”
La spedizione navale italiana da Taranto pone vari interrogativi.
1) In primo luogo se l’obiettivo è (solo) l’Afghanistan che non dispone di sommergibili, di aerei, di navi di superficie, non si capisce quali operazioni di controllo e di contrasto occorrerà svolgere.
2) Se l’obiettivo è costituito dall’esercitare una pura presenza di bandiera (cioè, in sostanza, una questione del tipo “ci siamo anche noi”) si pone la domanda se ci troviamo in una situazione in cui la guerra dovrà dettare legge alla politica e non viceversa.
3) I costi altissimi di questa missione (leggiamo che i marinai verrebbero pagati addirittura 15 milioni al mese) sembrano scarsamente giustificati, sotto l’aspetto sociale, in un Paese che è costretto a ridurre le spese per la sanità.
4) È discutibile che possano considerarsi professionisti quei marinai di leva che, da un giorno all’altro, sono diventati, mettendo la firma su una richiesta, dei volontari (e a cui vengono affidate delle responsabilità da professionisti).
F. A.
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