Grazie all’iniziativa del SILP-CGIL il Ministero dell’Interno ha riconosciuto un indennizzo agli operatori di pubblica sicurezza che hanno contratto il virus. Una vittoria sindacale o un provvedimento insufficiente?
L'obiettivo del Silp Cgil era chiaro sin dall’inizio ed ha raggiunto lo scopo che si era prefissato: far riconoscere a tutti i lavoratori della Polizia di Stato, risultati positivi al virus da Covid-19, l’accesso al beneficio indennizzante, soprattutto per coloro i quali, all’inizio della vicenda pandemica, non possedevano i requisiti richiesti; adesso, grazie alla proposta sindacale accettata dal Ministero dell’Interno, i poliziotti che, attraverso test sierologici possono dimostrare di aver contratto il virus ed hanno effettuato un periodo di quarantena, hanno diritto di accesso al contributo previsto dalla convenzione assicurativa stipulata l’8 aprile 2020, evitando così una difformità di trattamento fra un prima ed un dopo rispetto a tale decorrenza.
«Abbiamo messo in luce un cono d’ombra che non dava tutela a quegli operatori che, per mancanza di screening in termini di test sierologici e tamponi nella fase antecedente alla convenzione stipulata dall’Amministrazione, non disponevano di fatto di alcuna copertura assicurativa» sono in sintesi le parole di Maurizio Cesaretti della Segreteria Nazionale del Silp-Cgil.
La circolare del Dipartimento di PS, con cui è stato introdotto il riconoscimento della patologia attribuito appositamente attraverso una copertura assicurativa della Società UniSalute del Gruppo Unipol, aveva in effetti delle evidenti rigidità e riferimenti che inevitabilmente hanno sin da subito creato molto malcontento tra gli operatori; in particolare tra coloro che nella prima fase della pandemia si erano trovati maggiormente esposti al rischio di contrarre il virus.
In effetti il susseguirsi delle decisioni governative, che hanno poi determinato l’applicazione del lockdown su tutto il territorio nazionale, sono giunte in una fase già avanzata (in modo particolare nel nord Italia) del processo di diffusione del virus; ad aprile si era già in piena pandemia e non sempre gli operatori della Polizia di Stato avevano avuto modo di effettuare i controlli sanitari previsti, quali test sierologici o tamponi, per accertare il proprio stato di salute, pur continuando a garantire, soprattutto nelle cosiddette “aree rosse” una presenza necessaria ed assidua allo scopo di assicurare la salute pubblica.
Ciò ha di fatto determinato la difficoltà, per molti operatori della Polizia, di fornire la “prova” di essere stati colpiti dal virus anche in modalità asintomatica, in quanto non erano disponibili sufficienti test e tamponi per capire l’entità del problema, cosa peraltro che ancora oggi si perpetua. Aggiunge il Segretario Cesaretti a tal proposito: «alcune Regioni hanno avuto maggiori disponibilità di tamponi rispetto ad altre che invece avevano disponibilità limitate, utili soltanto per rispondere ad emergenze sanitarie più impellenti».
La possibilità di copertura determinata dall’accordo in convenzione con il Ministero dell’Interno, con un’estensione anche al periodo precedente la stipula, è un risultato positivo, ma non ancora sufficiente a coprire tutta la casistica di episodi: è il caso, ad esempio, della fattispecie di coloro che potrebbero essere stati colpiti dal virus secondo il riscontro del test sierologico ma, in quanto asintomatici, potrebbero non essere stati posti in quarantena durante tale periodo. In relazione alla convenzione aggiunge il Segretario: «ancora oggi pur avendo raggiunto un ottimo risultato grazie anche all’attenzione dimostrata dai vertici del Dipartimento, abbiamo l’esigenza di implementare e migliorare questa convenzione, in scadenza ad aprile del prossimo anno, che ha risposto ad improrogabili esigenze del momento; inoltre ci siamo anche riservati di verificare gli eventuali effetti che questa patologia può provocare in seguito sui contagiati e che questa assicurazione non può coprire, e su cui si dovranno esprimere gli organi sanitari per l’eventuale riconoscimento da causa di servizio».
Certamente uno dei problemi che sono venuti maggiormente in luce durante questo lungo periodo di lockdown, ed anche uno dei motivi su cui il Silp-Cgil intende continuare a farsi promotore di questa campagna per la salute dei lavoratori del comparto sicurezza, è stata la mancanza di adeguati dispositivi di protezione (DPI) oltre alla poca chiarezza di come e quando fosse necessario od obbligatorio indossarli, che fa rima soprattutto con la generale cronica mancanza di formazione ed informazione: «In uno scenario che non era chiaro per quello che riguardava la trasmissibilità del virus ed in un contesto difficile da interpretare come quello vissuto in particolare in alcune aree del Paese – conferma Cesaretti – non sempre le istituzioni sanitarie hanno risposto in modo univoco, per cui abbiamo constatato incongruenze tra chi riteneva necessario utilizzare i dpi e chi, per contro, riteneva addirittura deleterio e pericoloso tale utilizzo».
«Comunque – continua Cesaretti – pur in presenza di una situazione molto complicata abbiamo riscontrato da parte delle Istituzioni una sostanziale sensibilità sul tema e l’Amministrazione ha confortato questa scelta intervenendo sull’organizzazione del lavoro mediante ad esempio un’alternanza nei servizi che garantisse il giusto distanziamento sociale sui luoghi di lavoro; anche quando ci siamo confrontati su temi discordanti, quali l’applicazione di taluni istituti contrattuali derogati dalle normative introdotte per l’emergenza, alla fine il confronto è sfociato verso una disponibilità di massima rispetto alle istanze rappresentate».
Questo periodo, sicuramente unico per ciò che ha riguardato la vita del Paese, ha evidenziato i limiti del nostro sistema di welfare sui lavoratori, soprattutto rispetto a categorie particolarmente esposte come, in questo caso, quelle ovviamente del comparto sanitario, ma anche del comparto sicurezza. Questa convenzione stipulata in tutta fretta dall’Amministrazione per riempire un buco normativo di tutele è una strada da percorrere e che va urgentemente attivata. «Siamo assolutamente sensibili sull’argomento – fa presente Cesaretti – al fine di far riconoscere le peculiarità della attività che svolgiamo e quindi anche le coperture assicurative necessarie, a partire da una rivendicazione che riguarda la pensione integrativa fino a mettere in campo dei meccanismi, in accordo con la nostra Amministrazione anche attraverso norme e coperture specifiche dettate dal Governo, che prospettino una diversificazione di prodotti in grado di tutelare i lavoratori, sia mediante interventi pubblici diretti, sicuramente auspicabili, ma anche con l’ausilio dei privati; è indubbio che l’attuale sistema di welfare prevede delle limitazioni che saranno sempre maggiori e quindi si debbono approntare degli strumenti capaci di compensare la mancanza di servizi da erogare al personale».
Il riscontro tra i poliziotti ha avuto «un esito senz’altro positivo – chiarisce Cesaretti, – perché abbiamo consentito di sanare una evidente disparità di trattamento». In realtà non sempre i poliziotti sono disponibili a sottoporsi ai test sierologici, soprattutto adesso che si va incontro alla nuova stagione invernale dai contorni non ancora chiari rispetto al rischio di una nuova escalation di casi. «Ci sono luci ed ombre da questo punto di vista – chiarisce Cesaretti – tra chi si sottopone al test sierologico per evidenziare uno stato di patologia pregressa per cui si tratta soltanto di una mera constatazione di eventi già realizzati, rispetto a chi invece dovrebbe effettuare tale test o tampone per verificare l’attuale stato di salute: sentiamo tale richiesta anch’essa forte tra i colleghi ma, come detto, ci sono luci ed ombre».
Non sfugge, in verità, che sottoporsi al test e verificare uno stato di possibile malattia da Covid-19 significa dover rischiare di assentarsi per una lunga quarantena con la rinuncia ad una serie di benefit per mancata presenza che indubbiamente pesano nella vita e negli impegni di molte famiglie: si ripropone l’annoso tema tra diritto alla salute e necessità economiche, specchio dell’insicurezza sociale che attraversa il Paese. A tal proposito aggiunge il Segretario: «Purtroppo non sempre si ha la piena consapevolezza dei rischi da salute per cui mentre gli operatori che stanno più a stretto contatto con esposizioni, legate alla tipologia del servizio reso, si rendono più facilmente disponibili a sottoporsi ai controlli sanitari, in altri contesti c’è in effetti una maggiore resistenza a sottoporsi in via preventiva a test e tamponi».
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