I capitali, nascosti ma non troppo, di Al Qaeda, galleggiano su un mare di illegalità finanziaria che nessuno sembra veramente interessato ad eliminare. E i motivi non sono di poco peso
Denaro nascosto. Un argomento che a dissertarne prima dell'11 settembre scorso si riusciva difficilmente a colpire l'attenzione, e non parliamo delle coscienze. In fondo, se si possiedono alcune centinaia di milioni - o, meglio, di miliardi - che si desidera conservare e gestire al riparo dall'occhiuto controllo delle leggi, dove sta il male? Qualche decennio fa, l'espediente più in voga era il classico "porto i soldi in Svizzera". E di soldi in Svizzera, dall'immediato dopoguerra in poi, ne arrivarono tanti, al punto che le banche elvetiche quasi non sapevano più dove metterli e che cosa farne. In seguito il sistema si è notevolmente perfezionato, sofisticato, diversificato. Sono nati, del tutto legalmente, i cosiddetti "paradisi", le piazze finanziarie off-shore, che con gli omonimi motoscafi hanno in comune il fatto di navigare al largo. Al largo delle regole, delle verifiche, e, beninteso, del fisco. Quest'ultimo punto in un certo senso serve da alibi, dato che sfuggire al pagamento delle imposte da qualcuno sembra essere considerato un espediente lecito, meno di un peccato veniale. Però, e solo ora si fa finta di accorgersene, non è questo l'aspetto principale. Certo, sfuggire al fisco è sempre comodo, ma i "paradisi" consentono soprattutto di ammassare dei capitali dei quali si nasconde l'esistenza, la provenienza, e l'uso che se ne fa. Ed è così che nel variegato mondo off-shore si ritrovano insieme, sia pure senza frequentarsi e nemmeno conoscersi (anche se, a volte …), affaristi e industriali, politici corrotti e grandi esperti delle frodi, trafficanti e mafiosi. E imprenditori del terrorismo internazionale. Sì, anche loro, perché il terrorismo ha bisogno di fondi, di mobilità finanziaria, e di grande riservatezza. Esattamente come gli altri sunnominati.
Nel 1998 un rapporto dell'Onu calcolava che i capitali depositati nei centri off-shore ammontavano a 5.000 miliardi di dollari (5.500 miliardi di euro), e da allora si deve ritenere che la massa di denaro libero e incontrollato sia aumentata grazie allo sviluppo dei trasferimenti attraverso sistemi bancari elettronici, e alla strenua difesa dell'anonimato personale e societario chiesta a gran voce dagli interessati, e dai loro rappresentanti politici. In particolare, anche dall'attuale amministrazione statunitense, fino all'agosto scorso. Per la precisione, fino a quando nel contesto dei "liberi capitali in libero mercato finanziario" si è inserito l'interrogativo sulla gestione economica del terrorismo "internazionale". Una definizione ricorrente, che però non è affatto chiaro a che cosa esattamente si riferisca. Solo a Osama Bin Laden, e alla sua Al Qaeda? Più in generale, al terrorismo "islamista", in tutte le sue forma e manifestazioni, che sono molte e diverse tra loro, e certo non tutte controllabili e controllate dallo Sceicco Nero e dai suoi luogotenenti o successori? O ancora, il terrorismo in senso lato, purché abbia una qualche connotazione "antiamericana"?
In realtà, nessuno sembra saperlo con precisione, o almeno volerlo dire. Il che oggettivamente complica la ricerca delle fonti economiche che sostengono le lobbies del terrore.
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Dove cercare, e che cosa cercare, questo è il problema. Certo, se si prende per buona la scelta dell'opzione afgana, la caccia dovrebbe essere circoscritta a quelle società finanziarie che in maniera più o meno precisa sono connotate come arabo-islamiche. La difficoltà sta nel fatto che queste entità sono variamente diversificate e sparse un po' ovunque: in effetti, le ricerche condotte finora hanno riguardato Paesi islamici quali il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita, lo Yemen, il Sudan, ma anche la Gran Bretagna, la Germania, la Francia, la Svizzera, il Portogallo, il Lussemburgo, la Romania, l'Italia. E gli Stati Uniti, dove i finanzieri arabi hanno sempre molto volentieri investito i loro petrodollari. Restano i famigerati "paradisi", il mondo opulento ed oscuro dell'off-shore, dove le regole sono effimere e i controlli meno che formali. Micronazioni (solo nel Pacifico del sud ve ne sono ventidue, con una popolazione complessiva di tre milioni di abitanti) dotate di legislazioni improntante al liberismo più assoluto e a un rigoroso segreto bancario e societario, che inglobano, trattano, fanno viaggiare masse di denaro di ogni colore 24 ore al giorno, 365 giorni all'anno. Dalle Bahamas, care agli arricchiti di ogni nazionalità, alle Isole Marshall, dal Vanuatu a Rarotonga, capitale dell'arcipelago delle Cook, alle Bermude, a Jersey, a Gibilterra, e simili, distinguere tra capitali leciti e illeciti, tra soldi puliti e soldi sporchi, tra i capitali del mercante di caffè e quelli del trafficante di droga, è praticamente impossibile. Lì la "pecunia" non solo "non olet" (come d'altronde nel resto del mondo civilizzato), ma non ha nome. E allora, le velleità delle cosiddette "autorità internazionali" - L'Onu? L'Unione Europea? Tutti gli organismi di controllo che sarebbe lungo, e inutile, elencare? - di intervenire con precetti ispirati (molto ipocritamente) a rigorosi principi etici, appare, spiace dirlo, risibile. Prendiamo, ad esempio, Sir Howard Davies, presidente della britannica Financial Services Authority, che, sempre dopo l'11 settembre (quasi che prima di quella lugubre data l'off-shore fosse un pianeta sconosciuto), ha ritenuto opportuno, o più verosimilmente è stato sollecitato in tal senso, scagliare una filippica contro i "paradisi" e i signori che li controllano:"I responsabili, nei prossimi anni, dovranno fare maggiori sforzi per provare che possono rispettare le norme internazionali per la lotta contro il riciclaggio. Altrimenti, saranno perduti". Che cosa significa l'invito a "fare maggiori sforzi" per rispettare quelle "norme internazionali" che organismi dell'Onu e dell'Ue, privi di reali poteri se non quello di stilare inutili e ripetitive liste nere, tentano di erigere a difesa della legalità e della trasparenza finanziaria? I "paradisi" esistono e sono mantenuti in vita proprio perché in quei siti felici qualsiasi norma è carta straccia. Altrimenti nessuno si darebbe la pena di portare lì i propri capitali, che siano fondi neri creati con quanto si è accortamente sottratto al fisco, o il frutto di traffici vari. Sarebbe come invitare le organizzazioni mafiose a "fare maggiori sforzi" per stare in un quadro accettabile di legalità.
Più diretto, nella sua usuale ruvidezza, George W.Bush, parlando il 7 novembre ai funzionari dell'Ufficio federale per la lotta alla criminalità finanziaria, ha indicato che l'obiettivo sono le strutture economiche che, secondo Washington, sostengono Al Qaeda:"Due reti che raccolgono fondi per finanziare le organizzazioni terroristiche di Osama Bin Laden: si chiamano Al-Taqwa e Al-Barakaat. Abbiamo raccolto prove incredibili. I loro uffici sono stati chiusi in quattro Stati dell'Unione, mentre i nostri partner del G8 ed altri Paesi amici, come gli Emirati Arabi Uniti, si sono affiancati a noi in questa operazione globale bloccando i fondi sospetti". E poi un avvertimento che merita di essere interpretato:"Questo è un chiaro messaggio alle istituzioni finanziarie globali: o siete con noi, o con i terroristi. Se siete con i terroristi ne pagherete le conseguenze". Il Presidente sa bene di non potere - e nemmeno di volere - dichiarare guerra all'intero complesso finanziario off-shore. Sarebbe una guerra malissimo accolta dai circoli politici ed economici che lo sostengono, e molto più lunga e difficile di quella in Afghanistan, che in fondo - sia detto senza malizia - non deve essere stata un cattivo affare per l'industria bellica Usa. L'appello "O con noi, o contro di noi", da una parte rinvigorisce davanti all'opinione pubblica l'immagine presidenziale, e dall'altra risolve la questione: gettate a mare i soci di Osama, e continuerete a fare i vostri affari in tutta tranquillità.
Una lista di 62 società "sospette" si è aggiunta alla precedente, che ne comprendeva 80, indirizzata da Washington alle autorità dei Paesi coinvolti dalla loro presenza : Italia, Svizzera, Svezia, Olanda, Liechtenstein, Bahamas, Somalia, Emirati, Canada. La caccia è aperta, e quello che va nel carniere, molto o poco che sia, può in ogni modo essere presentato come un buon risultato. "Stiamo facendo un altro significativo passo in avanti nella lotta contro il terrorismo e le sue ramificazioni finanziarie", ha detto Bush. Come non credergli?
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"L'utilizzazione legale o illegale dei paradisi fiscali sembra essere in pieno sviluppo. I dati disponibili e le inchieste che abbiamo condotto confermano che dei contribuenti, dalle grandi compagnie multinazionali ai singoli cittadini, fino ai gruppi criminali, fanno un uso molto largo dei paradisi fiscali. Si tratta di Paesi che da un lato hanno un tasso di imposte più basso che negli Stati Uniti, e da un altro lato un livello elevato del segreto bancario e commerciale , che ognuno di questi Paesi rifiuta di togliere anche nel quadro di accordi internazionali. La maggioranza dei paradisi fiscali si caratterizzano egualmente per lo spazio occupato da attività bancarie e finanziarie nella loro economia, per l'esistenza di mezzi moderni di comunicazione, per l'assenza di controlli dei cambi sui depositi in monete estere, per l'immagine di centri finanziari off-shore che essi vogliono dare.
Molti paradisi fiscali traggono grandi profitti dalla presenza di banche straniere che apportano loro impieghi e rendite. Ne risulta un'infrastruttura molto sviluppata sul piano dei servizi bancari più sofisticati, che permette di trasferire rapidamente, con grande efficienza, dei fondi illeciti.
… Il modo più diretto per regolare il problema con i paradisi fiscali sarebbe di non avere alcun trattato sul piano fiscale con loro. Gli Stati Uniti dovrebbero prevedere di mettere fine ai trattati esistenti , in particolare con le Antille olandesi e con gli ex territori britannici. Le appendici della Gran Bretagna costituiscono un affronto a una sana amministrazione fiscale, dato che la loro esistenza si giustifica unicamente attraverso la frode. Le autorità americane delle imposte non hanno avuto molto successo nei tentativi messi in atto per fare applicare le regole anti-frode".
Questi sono brevi estratti di un rapporto ufficiale presentato il 14 gennaio 1981 al presidente Carter, a firma di Richard A.Gordon, giurista, procuratore e consigliere speciale per la fiscalità internazionale presso la direzione americana delle imposte. Pochi giorni dopo alla Casa Bianca al democratico Carter succedeva il repubblicano Ronald Reagan. Da allora del rapporto Gordon non si è mai più parlato. Né negli Stati Uniti, né altrove.
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Albert Ahmet Huber, 74 anni, svizzero, dichiarato ammiratore di Adolf Hitler, del quale ostenta un ritratto nella sua villa di Berna, è nel consiglio di amministrazione di Al-Taqwa, socio dell'italo-egiziano Jusuf Nada, sospettato di essere uno degli uomini d'affari di Osama Bin Laden in Europa, "Noi ci occupiamo di progetti di sviluppo nel Terzo Mondo - ha detto Huber in un'intervista trasmessa nel programma televisivo di Michele Santoro - Abbiamo degli sponsor, gente ricca del mondo musulmano, dalla Malesia al Brunei, all'Arabia Saudita, che fanno dei regalio dei prestiti islamici senza interesse". Il finanziere elvetico, convertito all'Islam, ha aggiunto: "In Quanto musulmano ho da molti anni contatti con le differenti destra e estreme destre nel mondo". E ancora:"Osama Bin Laden è un Robin Hood o un Guglielmo Tell arabo che si oppone al grande e disgustoso gigante rappresentato oggi dagli Stati Uniti, che con lo stato di Israele sono i grandi sistemi terroristici del mondo".
Che dire? Certo che di tutte le facce del cosiddetto "terrorismo internazionale" (oggi "islamico", domani chissà), quella finanziaria sembra essere la più misteriosa. A meno che non sia, invece, la più chiara. Off-shore, per intendersi.
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