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gennaio/2002 - Interviste
Guerra
Dopo i Taleban la guerra civile. Di nuovo
di Gianni Cirone

In Afghanistan si è trattata la resa. Ma i problemi non sono risolti. Ecco quali potrebbero essere i prossimi scenari nella zona e nel mondo

Ormai sembra fatta, per la prima fase di questa guerra all’insegna di “Enduring freedom”. Cadute le ultime sacche di resistenza delle basi afgane di Al-Qaeda e Osama Bin Laden, si fa il bilancio degli ultimi combattimenti. Haji Aman, portavoce del comandante militare, ha affermato che “molti arabi sono stati uccisi”. A Tora Bora, nelle caverne e nei cunicoli già espugnati, sono state catturate intere famiglie di arabi, donne comprese, e poi armi, veicoli. Insomma, si è disgregato tutto quello che può essere definito la perfetta macchina da guerra di Osama Bin Laden. A qualcosa dovevano pur giovare tanti bombardamenti. E intanto spunta, in modo molto opportuno, il video conviviale con lo Sceicco Nero che sorridendo confessa di essere l’organizzatore dell’11 settembre.
Il futuro, comunque, è già tracciato. In Afghanistan, con un nuovo governo provvisorio costruito artificialmente in un “laboratorio” tedesco, in Somalia che, nel giro di una manciata di giorni, scopre di essere il prossimo target delle testate di “Enduring freedom”, l’operazione anglo-statunitense che conta innumerevoli sponsor interessati. Non è un bel vedere e, con un pizzico di pazienza, si può capire anche il perché.
Si parta dall’indiscrezione che, mentre si espugna Tora Bora, segnala Osama Bin Laden sulle montagne di Spin Ghar, ad est, cioè più vicino al confine pachistano, o addirittura già in Pakistan. A dirlo è un portavoce militare dell’Alleanza del Nord, che accompagna la rivelazione con un “probabilmente”. Dopo due mesi d’inferno sull’Afghanistan, insomma, l’arabo miliardario è, sì, solo e braccato, ma del tutto imprendibile. Il suo principale alleato, il mullah Mohammad Omar, leader dei Taleban, baratta la resa con la possibilità di “vivere in dignità”: all’anima dell’irriducibile. I luogotenenti sono morti sotto le bombe dei raid. Prima il capo militare Mohammed Atef poi il braccio destro Ayman al-Zawahiri, i due egiziani. La lista degli uccisi si allungherebbe sino a comprendere anche un figlio del mullah. Mentre si sguinzaglia la caccia all’imprendibile, però, l’Afghanistan ha ormai il suo governo. O sedicente tale. Il parto, più che travagliato, è annunciato il 5 dicembre. La conferenza di Bonn forma il nuovo, ennesimo, provvisorio governo di questo martoriato paese. Alla guida il capo pashtun Hamid Karzai. “Abbiamo raggiunto un accordo. La data, per l’entrata in carica della nuova amministrazione, è il 22 dicembre” afferma il portavoce delle Nazioni Unite, Ahmad Fawzi, dopo che i delegati hanno proseguito per tutta la notte le trattative nel palazzo del Petersberg, il “laboratorio” tedesco. In quel momento, restano ancora da assegnare 11 dei 30 posti di ministro, ma già si parla di una cerimonia formale per la firma dell’accordo, alla presenza del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.
L’intesa giunge all’inizio del nono giorno di lavori della conferenza di Bonn, alla vigilia dell’inizio di una nuova conferenza, che si aprirà a Berlino, tra i paesi donatori di aiuti per la ripresa afgana. Ma chi è Hamid Karzai? È un 46enne comandante che ha contribuito all’assedio di Kandahar, un leader carismatico dell'etnia pashtun, vicino alle posizioni dell'ex re Zahir Shah. Capo della tribù meridionale dei Popolzai, Karzai partecipa alla lotta antisovietica dall’82, prima di essere nominato vice-ministro degli esteri nel governo dei mujaheddin del 1992. A causa della sua permanenza negli Usa, negli anno ’80, Karzai parla bene l’inglese, è sposato, senza figli, ha sette fratelli ed una sorella. Dice di essere un musulmano moderato ma, inizialmente, è stato sostenitore dei Taleban, cambiando la sua posizione dopo l’assassinio del padre a Peshawar, due anni fa. Poco dopo l’inizio dei bombardamenti anglo-americani sull’Afghanistan, torna dall’esilio per sostenere il ripristino della monarchia. All’avvio della conferenza di Bonn, Karzai telefonerà al responsabile delle Nazioni Unite per invitare all’unità nazionale e alla riconciliazione.
C’è però chi pensa che, quello uscito dalla conferenza di Bonn, sia un governo fantoccio. Ad affermarlo, naturalmente, è l’ex ambasciatore dei Taleban, in Pakistan, Mullah Abdul Salam Zaef. Si tratta, sostiene, di un governo “non per l’Afghanistan, né per gli afgani”. È vero: la valutazione di un uomo che ha rappresentato un regime violento, incivile e oscurantista, fa poco testo. Quello che, invece, è interessante sottolineare, sta nelle dichiarazioni in merito al proprio regime appena sconfitto. Il mullah, ex ambasciatore, afferma infatti che i Taleban continueranno ancora la loro lotta contro i nemici dell’Islam ma, quando gli si chiede come, risponde che non sa se sarà una lotta politica o una guerra. Stato confusionale o tattica? Era questo il mostruoso e temibile nemico da battere?
La realtà è che il regime dei Taleban si è sbriciolato come una cialda sotto un tir. Al sessantesimo giorno di guerra la resa di Kandahar, centro nevralgico dei Taleban, è questione di ore. Gli studenti del Corano, ancora asserragliati nella loro roccaforte, rinviano di minuto in minuto la consegna delle armi. Al di là della cocente sconfitta, comunque, alcuni di loro sanno bene che, sul fronte politico, il governo provvisorio annunciato a Bonn andrà incontro ad enormi ostacoli. Non sono pochi, infatti, gli importanti leader locali che lo criticano, mentre il generale Dostun, addirittura, intende boicottarlo. Per queste ragioni, al di là delle comprensibili trattative per salvare la pelle, i Taleban circondati tirano la corda. Il capo del nuovo governo provvisorio, Karzai, annuncia un prossimo trasferimento di poteri per la consegna di Kandahar. “La procedura – precisa Karzai – potrebbe richiede un paio di giorni. La cosa più importante è che avvenga nel modo più pacifico possibile”. Lo sa, il neo capo dell’esecutivo provvisorio che certi passaggi sono ardui. Il raggiungimento dell’accordo viene confermato da Abdul Salam Zaif, l’ex-ambasciatore dei Taleban in Pakistan, secondo cui il mullah Omar, leader carismatico e comandante delle milizie taleban, avrebbe accettato di consegnare pacificamente anche altre zone sotto il suo controllo. Con una piccola clausola: la consegna avverrà in favore dei “capi tribali locali” e, senza dubbio, non al capo del governo provvisorio. Karzai rilancia, offrendo un’amnistia generale per tutti i Taleban che s’arrendono. Nessuna amnistia, invece, si delinea per il loro leader, il mullah Omar, così come gli stessi Stati Uniti predicano da tempo. Agli stranieri, alleati dei Taleban (soprattutto arabi, per i quali si muove persino il figlio del leader libico Gheddafi, che raggiunge il territorio afgano al fine di pianificare possibili trattative), Karzai manda a dire che dovranno lasciare l’Afghanistan, anche se “nessuno potrà garantire cosa accadrà quando lasceranno il Paese: sono criminali che vanno assicurati alla giustizia”.
A Kabul si sgrana una lunga lista di delegazioni, qualcosa come una processione con finalità d’intercessione per i più disparati soggetti e per le più diverse situazioni. Giunge una missione di diplomatici italiani, inviata in Afghanistan dal ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, per avviare una prima serie di contatti con le autorità afgane e verificare le condizioni della sede diplomatica italiana. I russi, da parte loro, hanno tutt’altro tipo di priorità. Essi non intendono catturare Osam Bin Laden, ma vogliono approfittarne per scovare i capi della guerriglia cecena, come ammette il loro ministro della Difesa, Serghiei Ivanov, esternando la più completa soddisfazione per la collaborazione informativa pianificata con tutti i partecipanti all’operazione antiterroristica in Afghanistan. Chi, invece, si lamenta ed attacca il nuovo governo afgano, creato dalla conferenza di Bonn, è Ahmad Gailani, un leader spirituale dei pasthun che non esita a definire l’esecutivo “squilibrato” ed “ingiusto”. “Sono state commesse ingiustizie nella distribuzione dei ministeri”, afferma Gailani, che spera vivamente nell’organismo delle Nazioni Unite: secondo lui, è ora che esso formi “un comitato che rappresenti il popolo nella Loya Jirga, cosicché nei prossimi passi da compiere si possano risistemare le cose”. Ciò che è certo e che il generale Rashid Dostum, il più forte leader uzbeko, non ci sta: “Siamo – rivela seccamente – molto scontenti. Annunciamo che boicotteremo quest’inverno e non andremo a Kabul finché un governo adeguato non sarà in carica”. Secondo Dostum, la sua fazione Uzbek Junbish-i-Milli non è equamente rappresentata all’interno del nuovo esecutivo. La ragione? Il generale uzbeko ha avuto il ministero dell’Agricoltura, miniere e industria, e non quello degli Esteri, come richiesto. Dunque Dostum, che si è ripreso da giorni Mazar-i-Sharif, della quale è stato in passato governatore e padrone assoluto, ritiene di trovarsi di fronte “ad un’umiliazione”, uno smacco che impedirà ai nuovi amministratori l’ingresso nel nord del paese, dove sono le risorse di petrolio e gas. Si farà un’altra guerra anche per questi obiettivi?
Inutile dire che sono innumerevoli i risvolti economici dell’evento bellico. Abdul Qadir Fitrat, già governatore della Banca centrale afgana, dal ‘92 al ‘96, vive da cinque anni negli Stati Uniti, dove ha aperto un piccolo negozio per guadagnarsi da vivere vendendo tappeti. Adesso, però, si dice pronto a rientrare in patria per tentare di risollevare il paese martoriato da anni di guerra civile, dopo che il capo della vittoriosa Alleanza del Nord, Burhanuddin Rabbani, gli ha chiesto di tornare a dirigere la banca. Il banchiere è però preoccupato della situazione politica attuale. “Se c'è caos politico – afferma – ci sarà caos economico. Spero che le spese militari siano limitate, questa volta: quando ero alla Banca centrale mi capitava di piangere a causa dell’inflazione”. Attualmente, il capitale dell’Afghanistan Bank ammonterebbe a soli 280 milioni di lire, mentre il tasso d’inflazione dovrebbe superare l’800%. “Avremo bisogno di molto aiuto”, conclude l’ex banchiere.
Una ricerca d’aiuto che, per ben altre ragioni, sembra ormai ossessionare anche il mullah Omar che non appare più a capo dei suoi studenti di teologia, dopo aver affidato la direzione del movimento a Haji Obaidullah Akhund che, intanto, sta negoziando con il capo del governo di transizione Karzai. Obaidullah, ministro della Difesa del governo taleban, è un pashtun originario della regione di Kandahar, un uomo che, in piena occupazione sovietica dell’Afghanistan, tra il 1979 e il 1989, parteciperà al jihad contro gli occupanti accanto a Pir Sayed Ahmad Gilani, il comandante pashtun che appoggia il ritorno dell'ex re Zahir Shah. Per questa ragione Obaidullah intrattiene tuttora rapporti e ottimi contatti con i mujihaeddin mentre, secondo alcune fonti, soffrirebbe di non poche difficoltà con i capi militari dei Taleban, come il capo di stato maggiore o il vice ministro della Difesa, che distintisi sui campi di battaglia, discutono direttamente col mullah Omar, capo supremo delle forze militari dei Taleban. Nel momento della resa, però, certi vecchi rapporti sono considerati utili, tanto che il supremo Omar preferisce affidare ad Obaidullah l’estrema mediazione che dovrebbe salvargli la pelle.
Così, mentre in nome degli interessi propri e della sua famiglia, l’esimio mullah Omar cerca scampo, Kandahar vive giorni confusi e violenti, tra scontri di fazioni anti-Taleban in perenne lotta intestina. I clan che si affrontano sono tutti di etnia pashtun e tutti del gruppo Durrani. Per acquisire il dominio di Kandahar fanno di tutto. Sono i Popalzai, di Hamid Karzai, il neo eletto capo del governo di transizione. A questo clan sono appartenuti quasi tutti i re dell’Afghanistan, a partire dal primo Durrani, Ahmad Shah, che si proclamò sovrano a Kandahar nel 1747. Ci sono poi i Sherazai, del comandante Gul Agha, ex muhajeddin, già governatore di Kandahar prima dell’avvento dei Taleban nel 1994. Gul Agha vuole tornare al potere e non accetta il compromesso di Hamid Karzai di consegnare la città al Mullah Naqib Ullah. Agha conta su circa 3mila uomini che da due mesi combattono contro i Taleban. Le sue forze occupano l’aeroporto di Kandahar. Ci sono gli Alokozai, del Mullah Naqib Ullah, ex muhajeddin, già capo della “shura” (consiglio islamico) negli anni ‘90, che nel ’94 consegna Kandahar ai Taleban ordinando ai suoi 2.500 uomini di arrendersi. Per quest’atto viene premiato: non verrà né torturato né ucciso. Si ritirerà in una madrassa, una scuola coranica, vicino Kandahar. Oggi ha una gran voglia di restituire la cortesia al mullah Omar. Ci sono infine i Nurzai, del comandante Haji Bashar, ex mujaheddin, il favorito dai Taleban per la consegna di Kandahar. Karzai non lo ama particolarmente per i troppo stretti legami con la milizia islamica, ma i Nurzai controllano la strada verso il confine pakistano e la città di frontiera Spin Boldak, centro conquistato recentemente dalle milizie anti-Taleban.
Al momento, quindi, dopo l’intervento anglo-statunitense in Afghanistan, ciò che rimane è un paese distrutto, i nervi scoperti di una guerra civile che non accenna a sedarsi, uno stato da far west, e qualche fuggiasco rimasto tale. Le centrali del terrorismo, quelle vere, possono aspettare. Il prossimo obiettivo, da bombardare a go-go, è quella perfetta macchina da guerra che si chiama Somalia.

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