Vorrei ricordare (oggi che non c’è più) la figura e l’opera di mio padre Angelo Rossi per quanto attiene il suo impegno a favore della Riforma della Polizia. Nei numeri precedenti di “Polizia e Democrazia” ho visto tanti messaggi delle persone che hanno lottato nel Movimento e per questo spero che anche queste mie righe possano essere ospitate nelle vostre pagine.
Quello che mi torna subito alla mente è la tenacia, la forza, il tempo e la volontà che mio padre e tanti altri suoi colleghi hanno profuso per realizzare una vera Riforma della Polizia. Penso che la generazione di mio padre sia stata una delle ultime che abbia saputo esprimere valori morali e spiccato senso civico.
Anche dopo essere andato in pensione, l’impegno ideale di mio padre non è mai cessato, anche se si indirizzava ai colleghi rimasti in servizio: s’impegnava perché proprio loro avessero un futuro diverso e migliore.
Ricordo la sua amicizia con Franco Fedeli (da mio padre sempre stimato) e con tanti altri che profusero il loro impegno nel Movimento quando altri, magari, vedevano come unico valore il “dio denaro”. Ho trentanove anni e ovviamente sono della presente generazione, ma sono combattuto tutte quelle volte che, magari senza accorgermene, agisco solo in funzione egoistica... Ma poi ecco che mi torna in mente mio padre, lui che faceva tanto senza mai chiedere nulla in cambio. Lo faceva per la soddisfazione che provava nel mettersi al servizio degli altri e per la convinzione di vivere secondo i propri ideali e non secondo le opportunità del momento.
Negli anni Settanta ho visto che l’uomo in divisa non sempre era apprezzato: ma quando qualcuno, per i più diversi motivi, lo avvicinavano rimaneva meravigliato nel constatare che sotto quella divisa c’era una persona gentile, sempre pronta ad ascoltare ed, eventualmente, intervenire. Erano tempi, quelli, in cui io vivevo nell’assoluto “rispetto degli altri” mentre oggi, questo “rispetto” mi sembra difficile praticarlo. Una volta (ero un bambino) tornai a casa con della frutta... sottratta ad un contadino; la mostrai a mio padre, rallegrandomi con lui per quella... “conquista”. Lui certo non mi picchiò, ma bastarono poche parole per farmi capire la gravità di quel mio gesto. In fondo, questa era la sua filosofia: il dialogo, sopra ogni cosa.
Negli ultimi anni, ormai in pensione, continuava a scrivere per questa rivista analizzando la sua visione della rinnovata Polizia italiana. Qualche volta lo sentivo rammaricarsi perché non si riconosceva più in certi comportamenti: non sopportava l’immagine del “poliziotto-sceriffo” (questo era il termine da lui usato per indicare certi atteggiamenti degli uomini in divisa). Quella divisa che lui tanto aveva amato e perciò rispettata, non doveva essere insudiciata con atteggiamenti o comportamenti sbagliati.
Queste ultime considerazioni di mio padre, io le condivido pienamente e vogliono essere un invito ai tanti giovani poliziotti di oggi: non servitevi della vostra divisa per ottenere “qualche cosa”; essa deve essere un simbolo attraverso il quale il cittadino deve riconoscere un uomo che pratica la lealtà, produce sicurezza, offre protezione.
Vorrei chiudere questo mio scritto ringraziando mio padre, perché è stato un uomo che ha fatto dell’onestà, dell’altruismo, del senso del dovere la sua vera ragione di vita.
Grazie, babbo, per tutto ciò che mi hai insegnato, per come mi hai preparato ad affrontare la vita e soprattutto per l’esempio che mi hai dato. Oggi mi sento un uomo equilibrato, sereno che cerca di vivere secondo i tuoi insegnamenti. Questo ritengo sia il patrimonio più prezioso che un genitore può lasciare ad un figlio.
Grazie amici di “Polizia e Democrazia” per questo spazio che mi avete concesso. Un grazie anche da mia mamma Anna Maria Lombardi e da mio fratello Marcello.
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