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ottobre/2001 - Interviste
Genova DOCET
Le agitazioni del 1898
di Stefano Prosperi

Le giornate di Genova, con tutto il loro carico di polemiche e contumelie, sono state giudicate e paragonate nei modi più diversi. Tra questi non è mancato un riferimento scontato anche se inappropriato. Infatti si è fatto riferimento, in relazione agli incidenti e all’atteggiamento delle forze dell’ordine considerate alla stessa stregua della gestione dell’ordine pubblico operata dal generale Bava Beccaris, ad una pagina drammatica nella storia dello stato unitario, quella delle manifestazioni del 1898 e della conseguente repressione.
Vediamo allora più da vicino gli avvenimenti che portarono alle conseguenze che tanto segnarono il nostro paese dal punto sociale e dal punto politico negli anni a venire.
A prescindere dalla vocazione autoritaria del governo del marchese Di Rudinì succeduto a Crispi, il paese era logorato dagli effetti di una incombente crisi economica, simile a quella che imperversava in Europa, a cui si aggiungeva lo scontento per la fine dell’avventura africana dopo la tragedia di Adua e gli effetti insostenibili dell’allargamento della coscrizione obbligatoria, anche perché l’esercito era stato messo in allarme per esigenze di ordine pubblico dopo lo sforzo bellico seguito alla campagna d’Africa.
La produzione nazionale di grano era scesa nel ’97 a 23,9 milioni di quintali rispetto ai 39,9 del 1896 così, secondo i calcoli dello Annuario statistico italiano, basato sui salari medi degli operai industriali, si era passati dalle 73 ore di lavoro necessarie per l’acquisto di un quintale di frumento nel 1894, alle105 ore del 1898. Contemporaneamente, a gettare benzina sul fuoco del malcontento, soprattutto delle masse contadine, era arrivato il protezionismo industriale che aveva deviato il grosso dei già scarsi capitali disponibili verso investimenti produttivi rappresentati dalle fabbriche, protette dalla concorrenza estera. A questo si era aggiunto l'effetto del dazio sul grano che aveva reso conveniente lo sviluppo estensivo della cerealicoltura, impedendo una politica intelligente di scorte o di prezzi calmierati, volti a prevenire i possibili effetti della carestia. Se a questo aggiungiamo infine una miope politica fiscale che, attraverso le imposte indirette, aveva trasferito i suoi oneri prevalentemente sui ceti popolari, possiamo immaginare quali nembi si andassero ad addensare sul governo del Di Rudinì.
Non c’è dubbio che su questi, oltre alla paura per il crescente malcontento e la presa delle organizzazioni radicali, anarchiche ma anche cattoliche, sul malcontento diffuso, si aggiunse l’influenza del cosiddetto partito di corte, le cui paure erano notevolmente cresciute dopo un primo attentato alla vita del Re e che chiedeva, ormai insistentemente, l’uso del pugno di ferro per fronteggiare la crescente insofferenza sociale.
Anche il provvedimento, preso dal governo per rispondere alle agitazioni che andavano crescendo, dell’ acquisto sul mercato estero di 100 mila quintali di grano per distribuirlo ai più bisognosi, oltre a rappresentare una goccia nel mare, sortì l’effetto di inasprire di più gli animi. Da ultimo lo scoppio, in aprile, della guerra ispano americana provocò una ondata speculativa sul prezzo del grano che fece traboccare il vaso.
Dal 26 aprile al primo maggio, una dopo l’altra città e località di provincia videro estendersi le agitazioni di grandi masse, soprattutto contadine. Si ebbero i primi morti: a Minervino Murge le plebi linciarono un incettatore di grano e un medico che aveva cercato di reagire all’occupazione della sua casa, mentre a Molfetta la forza pubblica uccise cinque dimostranti. Il 4 maggio il governo si decise a sospendere il dazio del grano ma ormai era tardi, gli animi erano esacerbati e il governo propenso alla repressione che tra il 4 e il 6 maggio vide diversi morti in varie città del paese. Il 6 maggio anche Milano fu interessata dalle agitazioni che quì, anche per la presenza di una forte concentrazione operaia, in particolare della Pirelli, assunsero rapidamente caratteri di grande tensione per la morte di alcuni operai e di un delegato di pubblica sicurezza e per vari tentativi di erigere barricate da parte dei dimostranti. Così, nonostante molti tra cui il Zanardelli fossero contrari ad un pericoloso giro di vite che si temeva avrebbe provocato il precipitare degli eventi, furono dati tutti i poteri al gen. Bava Beccaris di cui era nota la propensione repressiva. Fu proclamato lo stato d’assedio e richiamata alle armi una classe, mentre il cannone entrava in azione contro le barricate di Porta Ticinese.
Il generale Bava Beccaris non si distinse tanto nella repressione delle agitazioni di Milano che, peraltro, furono represse con durezza eccessiva e con scelte nient’affatto lungimiranti visto il gran numero di morti (più di cento) e di arrestati, quanto nelle misure prese nei mesi successivi. Tutta la stampa che non fosse governativa fu soppressa o sospesa, i loro direttori e molti giornalisti arrestati, le organizzazioni di sostegno e solidarietà e le Camere del Lavoro chiuse. Eppure si era trattato soprattutto di moti spontanei all’interno dei quali la folla inneggiava indifferentemente alla Repubblica o al Re e nel Nord, dove le organizzazioni sindacali erano più forti, esse non fecero nulla per spingere le moltitudini verso lo scontro.
Molta storiografia ha sostenuto che nei moti del ’98 non fu in atto un complotto rivoluzionario, come parimenti inesistente fu un complotto di corte per tornare allo Statuto del ’48 con un corollario repressivo. A questo riguardo sono state citate le parole di Luigi Albertini, divenuto direttore del Corriere della Sera proprio durante quei fatti luttuosi: “… Testimone di questi dolorosi avvenimenti, assistei al panico da cui le classi abbienti milanesi furono colte (…) Rudinì volle rassicurarle, e rassicurare il governo, decretando a Milano lo stato d’assedio, ed affidando al generale Bava Beccaris la difesa dell’ordine pubblico, difesa che questi eseguì con rigore di gran lunga sproporzionato alla realtà dei fatti… Si credeva che la rivoluzione fosse alle porte, organizzata col concorso delle banche svizzere, e fosse necessario soffocarla senza riguardi. Ciò non giustifica, ma spiega, non solo il numero delle vittime e il ridicolo assalto al convento dei Cappuccini, ma anche altri enormi eccessi come la sospensione di 110 giornali, lo scioglimento di migliaia di associazioni cattoliche e di comitati parrocchiali. L’arresto di noti uomini politici socialisti come Costa, Turati, Bissolati ecc…” (Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni; Mondadori).
A questo riguardo è di grande interesse aggiungere anche la lettura che dei fatti luttuosi del 1898 fece Eugenio Torelli Viollier, fondatore del “Corriere della Sera”, direttore responsabile del giornale e suo comproprietario insieme a Ernesto De Angeli, G.B. Pirelli e Luca Beltrami. Proprio in seguito agli incidenti con il loro corollario di morti e feriti, e più ancora a seguito della esagerata repressione che ne seguì, il Viollier non accettò di schierare disciplinatamente, ma contro le proprie convinzioni democratiche, il giornale secondo i decreti del comando militare che era responsabile dell’ordine pubblico, e per questo ( e per non creare imbarazzi alla testata) rassegnò le sue dimissioni da direttore, ruolo che fu assunto, come già detto, da Luigi Albertini.
Il pensiero di Viollier è particolarmente efficace e diretto in una lettera inviata a Pasquale Villari, lettera in cui, insieme ad una lucida ricostruzione dei fatti e delle ragioni ultime che portarono a quegli avvenimenti, il Viollier non manca di manifestare la sua crisi di coscienza per l’involuzione autoritaria del paese, e la sua amarezza per la solitudine in cui si era venuto a trovare.
“… Io mi trovo in questi giorni oggetto d’avversione così degli scalmanati radicali come degli scalmanati moderati… I moti di Milano furono cosa molto meno spettacolosa di quello che s’è creduto qui e fuori. Li ha ingranditi la paura generale, li ha ingranditi non soltanto nella immaginazione, ma nella realtà. Hanno avuto paura gli operai, che abbandonarono alcuni stabilimenti alle prime intimazioni dei malintenzionati; ebbero paura gli industriali che chiusero gli stabilimenti – ed erano la maggioranza- ove gli operai avevano continuato a lavorare; ebbe paura la borghesia, che s’immaginò che il gran giorno della liquidazione fosse giunto; ebbero paura le autorità che non fidavano nella resistenza dell’esercito. La paura gettò sulla strada tutti gli operai di Milano, la paura fece ammazzare un centinaio di persone,…, la paura ha fatto credere in tutta Italia che la nostra città fosse a due dita da una catastrofe; la paura ha fatto sì che siamo fuor della legge, e che sia stata sospesa ogni libertà, ogni guarentigia costituzionale….” Il Viollier si dilunga poi in un minuzioso racconto dei fatti salienti che caratterizzarono le tre giornate più tumultuose e continua poi riferendo dell’incontro tesissimo che ebbe col sindaco della città, nell’intento di evitare il precipitare degli eventi….”Tornando alla mia visita al Sindaco, gli dissi che la città era tranquilla e ch’era indispensabile egli agisse presso le autorità militari per far cessare un macello che ormai non faceva che vittime innocenti. E tentai persuaderlo che la rivoluzione era stata esagerata.
Quanti soldati sono caduti ?, dissi. C’è stato un morto solo, un ufficiale ferito, pare, di coltello e poco più di mezza dozzina di soldati feriti da sassi. Dall’altra parte , si hanno 500 persone tra morti e feriti. I rivoltosi non avevano altre armi che sassi, e tegole da cui l’esercito si è difeso con molta facilità…E’ stato un movimento di poca canaglia, e di donne e ragazzi, che furono facilmente dispersi….Questo ed altre cose dissi al Sindaco Vigoni, e mi accorsi che erano poco gradite. Nei giorni successivi, non potendo dire nel giornale quel che pensavo, lo dissi ad altri pezzi grossi, senz’altro risultato, pare, che di passare per uomo che vuol tenere i piedi in due staffe e per un falso conservatore, un infido, un giornalista che mira soltanto alle palanche, ecc. Non potei parlare nel Corriere come piaceva a me, anche perché capivo che non era quello il momento d’indebolire l’autorità; ma non volli neanche parlare come piaceva agli altri….” (Lucio Villari, I fatti di Milano del 1898. La testimonianza di Eugenio Torelli Viollier; in Studi Storici N 3, 1967)

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