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ottobre/2001 - Interviste
Genova DOCET
“Una violenza premeditata”
di

Sui fatti di Genova abbiamo rivolto alcune domande al nostro collaboratore Marco Cannavicci, psicologo e criminologo. Ecco le sue risposte

Dal suo punto di vista, come giudica le violenze che si sono verificate a Genova?
Le violenze osservate per le strade di Genova hanno sorpreso tutti e, credo, le stesse Forze di polizia, perché non ci si aspettava una esclusiva volontà di essere lì solo per esprimere violenza. La violenza espressa che tutti abbiamo visto è stata quindi cercata, voluta, premeditata, frutto di una scelta comportamentale.
Alcuni gruppi di giovani, in modo particolare i gruppi dei black bloc, si sono riuniti non per manifestare contro il G8, ma solo per sfogare il proprio odio e la propria rabbia attraverso vandalismi e distruzioni. Lo hanno anche scritto sui muri di Genova: "hate and destroy", odio e distruzione. Era il loro programma ed il motivo per cui erano lì. Essendo poi una situazione di protesta collettiva, l'espressione della violenza nell'ambito di una situazione di massa ha contagiato altri gruppi che, pur non essendo inizialmente disponibili alla violenza, si sono ritrovati anche loro a manifestare devastando e distruggendo. Ci sono molte testimonianze che affermano che a distruggere e devastare non erano solo i balck bloc.
Tuttavia poteva essere una sorpresa fino ad un certo punto in quanto fin dal 1999, dopo le proteste di Seattle, negli Usa, sono presenti su internet dei comunicati dei black bloc in cui si teorizza lo sfondamento di vetrine di megastore, di multinazionali e di banche. Non solo, in questi comunicati sono spiegate le modalità per farlo senza essere catturati dalla Polizia. Sono spiegate le modalità di movimento, di reciproca protezione e di non riconoscimento degli appartenenti al gruppo. Sono quindi dei ragazzi non solo pronti ad esprimere tramite la violenza e la distruzione il loro odio, ma sono anche ben preparati e ben addestrati per farlo nel migliore dei modi e non essere né visti né catturati dalla Polizia.
Qual è la molla psicologica che spinge ragazzi a partire dalla loro città per andare ad una manifestazione solo per esprimere violenza?
Riunirsi, organizzarsi, partire richiede una "logistica" che fa di questi ragazzi delle persone intelligenti, culturalmente preparate ed anche socialmente inserite. Non sono emarginati, non sono criminali, non sono sbandati né disoccupati, non vivono di elemosine, non hanno alcuna affinità con gli "squatter" che si conoscevano. Questi ragazzi conoscono e frequentano internet molto più dei loro coetanei e tramite internet hanno creato una loro rete internazionale.
Sono ragazzi che rifiutano questo modello sociale occidentale e lo stile di vita che, tramite il marketing industriale, preme su di loro. Rifiutando, anzi, odiando questo modello di vita sentono il bisogno di esprimerlo, di farlo sapere, di manifestarlo, di essere in qualche modo "visibili" nei canali delle comunicazioni. Attraverso l'esperienza di Seattle, nel 1999, in occasione del vertice del Wto, hanno scoperto che manifestando con atti di distruzione e vandalismo i media si occupano più facilmente di loro e che alla fine si parla più di loro che del vertice contro cui hanno manifestato. Questo si è poi ripetuto a Goteborg, in Svezia, ed anche a Genova: le notizie sulle proteste e le modalità con cui sono state espresse prevalgono su tutto il resto. Anche oggi, a distanza di mesi, non si parla più del G8, ma solo delle proteste.
Partire ed andare a Genova per poter esprimere attraverso la violenza e la devastazione il loro odio contro questo modello sociale è stato il modo per essere inquadrati dalle telecamere, per occupare pagine sui giornali, per essere quindi al centro dell'attenzione internazionale. La violenza e lo sconvolgimento deliberato dell'ordine sociale permette loro di essere "visibili" e di aggregare ed organizzare altri ragazzi in altre parti del mondo rendendo così la loro protesta "globale".
Come spiega la rabbia di molti giovani che si è manifestata a Genova e come si lega (se si lega) a una contestazione del dominio del "logo", delle mode e quindi delle grandi Corporation?
Fino a qualche decennio fa gli adolescenti ed i giovani adulti avevano a disposizione vari modelli e stili di vita: sceglievano quello che più di tutti si avvicinava al loro modo di pensare, politico o filosofico, ed era possibile un adattamento che evitava tensioni e conflitti sociali. Oggi questo non è più possibile. Dietro le spinte dei vari gruppi industriali, le multinazionali prevalentemente americane, i modelli e gli stili di vita si sono uniformati al punto che è venuta a mancare la varietà e la possibilità di scegliere. E questa uniformità dagli Stati Uniti si è estesa all'Europa, al Giappone e quindi negli altri paesi. Si può entrare in un qualsiasi McDonald del mondo e non fa differenza se questo si trovi a New York, a Roma, a Calcutta oppure a Santiago del Cile: il luogo è lo stesso, i cibi sono gli stessi. I no-global osservano che i centri commerciali del mondo sono standardizzati su uno stesso modello ed offrono tutti gli stessi prodotti. Viene a mancare la scelta, la differenza, l'identità etnica e culturale: è una forma di clonazione culturale. È contro questa "globalizzazione" che i giovani protestano, contro questa massificazione delle culture e degli stili di vita imposti dagli interessi economici delle "corporation".
Purtroppo anche loro non hanno scelta: se vogliono bere c'è la Coca Cola (in molte foto i no-global stavano bevendo Coca Cola), se vogliono vestire ci sono le Polo (anche il politico Bertinotti è andato a manifestare a Genova indossando una Lacoste), se vogliono camminare anche loro comprano le Nike e se vogliono avere soldi in tasca anche loro sono costretti a servirsi dei Bancomat (prima di distruggerli).
Nelle manifestazioni di piazza si esprime una violenza che sembra accumulata. Quali sono le principali "fonti" di questa violenza?
Le teorie sociologiche classiche fanno risalire la violenza giovanile all'emarginazione sociale ed economica. Quello che attualmente si legge nella cronaca dei vari quotidiani non conferma questa ipotesi: i giovani violenti hanno una cultura, hanno soldi in tasca e appartengono a famiglie normali. La loro violenza è la massima espressione del loro “No” a tutto quello che la società, attraverso le pressioni economiche di consumo, sta imponendo loro.
I ragazzi di Genova sono consapevoli di essere un numero, una percentuale di mercato, una variabile del Pil nazionale e si ribellano con la sola arma che hanno a disposizione: la protesta dura. La loro è una protesta che non consente di guardare da un'altra parte, di scuotere il capo e andar via, di bollarli esclusivamente come teppisti. La loro violenza è scelta, studiata, premeditata, organizzata, finalizzata. Forse alcuni leader del Genoa Social Forum non si sono resi conto dell'enorme potenziale di violenza che cova nei loro gruppi, altrimenti non si sarebbero lasciati andare a proclami di guerra come "violeremo la zona rossa", oppure "faremo la guerra".
I no-global scelgono gli obiettivi da attaccare non solo sulla strada, ma anche su internet. Loro spiegano e motivano quello che fanno e dicono apertamente che la scelta della violenza è l'unico modo per essere presi in considerazione, per contare. Spaccando una vetrina non fermeranno certo il fenomeno della globalizzazione industriale, tuttavia quella vetrina spaccata diviene il loro manifesto politico, il loro programma ideologico.
Molti hanno paragonato la violenza politica alle violenze degli "ultras" negli stadi. Qual è il nesso, se esiste?
Non vedo alcun nesso apparente tra la violenza politica e quella da stadio. Sono diversi i moventi, gli obiettivi e le modalità di espressione. È lo stadio che cerca di impossessarsi di tutto ciò che nel mondo rappresenta lotta e violenza. Sono le tifoserie a prendere slogan, nomi ed aggettivi dai conflitti politici, dalle guerre e dalle rivoluzioni, ma sono solo etichette prive di contenuti.
Accomunare le due forme di violenza conduce all'errore di poter combattere l'una con le stesse modalità dell'altra e questo non è possibile. Questo è l'errore che potrebbe aver commesso la Polizia a Genova, e cioè pensare di affrontare i no-global come ogni domenica affrontano gli ultras dello stadio. Non è la stessa cosa perché per gli ultras il nemico è visto nella tifoseria avversaria, mentre per i no-global il nemico era la Polizia stessa

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