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ottobre/2001 - Interviste
Genova DOCET
Trasparenza e responsabilità cercansi
di Gianni Mengraviti

Il profilo dell’Italia, almeno per quanto attiene l’ordine pubblico, agli occhi degli stranieri si adombra di un tragico velo di incompetenza e violenza. Fallimento della politica dell’ordine pubblico?

Il G8 di Genova lascia un segno profondo. Un morto, moltissimi feriti, la devastazione di una città. Le istituzioni traballano, l'opinione pubblica è sconcertata, le Forze dell'ordine appaiono in preda al più completo marasma. Il profilo dell'Italia, a livello internazionale, si adombra di un tragico velo di incompetenza, pressappochismo, violenza. Il "movimento no-global" appare pericolosamente in bilico tra le istanze di critica alla globalizzazione e la guerriglia, distruttiva e qualunquista, di numerose frange.
Davanti a questo scenario complesso, il governo imposta e vede fallire una propria politica di ordine pubblico. Una politica ossessionata dalla protezione degli "otto grandi", rinchiusi in sterili riunioni nella "zona rossa", e dall'accettazione di chi sembra voler essere predestinato allo scontro diretto nelle piazze. Sugli avvenimenti, centrodestra e centrosinistra si scambiano accuse roventi, dando vita caparbiamente ad un livello di rissosità che lascia però aperti non pochi spazi ambigui. Trasparenza e responsabilità latitano e sembrano essere chimere anche nei giorni della resa dei conti. Una resa dei conti che si sostanzia dinnanzi a due organismi: la Procura di Genova e il Comitato di indagine parlamentare sul G8.
Ma, mentre la Procura svolge il proprio lavoro, è la Commissione parlamentare ad offrire all'opinione pubblica la prima completa immagine dei protagonisti del G8: responsabili delle Forze dell'ordine e dei movimenti no-global.
Il capo della Polizia, Gianni De Gennaro, offre la propria versione e resta al proprio posto. Saltano, invece e subito, il vice-capo vicario, Ansoino Andreassi, il capo dell'Ucigos, Arnaldo La Barbera, il questore di Genova, Francesco Colucci. L'Arma delinea una propria posizione e, nell'ambito della comunicazione, appare meno danneggiata dalle critiche. Tra gli uomini della Polizia, resta imbrigliato dentro ad una larga rete di accuse il comandante del Reparto Mobile di Roma, Vincenzo Canterini, che si vorrebbe unico responsabile di un'operazione di Polizia giudiziaria, alla scuola Diaz, operazione che lascerà dietro di sé un'angosciante scia di sangue. Canterini, in verità, è solo un uomo che prende ordini e cerca di compiere una perquisizione, dai risvolti francamente incomprensibili, che si svolgerà a G8 chiuso e con uno scarsissimo bottino: nessun terrorista preso, niente armi da fuoco né esplosivi rinvenuti. Tanto sangue versato. Eppure, c'è qualcuno che intende convincere l'opinione pubblica che Canterini è il solo responsabile di un tale fallimento. Il capo dello Sco (Servizio Centrale Operativo, una branca del Dipartimento della pubblica sicurezza), Francesco Gratteri, facente parte del pool di responsabili del blitz, afferma di essere addirittura giunto in ritardo sul luogo dell'operazione e, dunque, di non poter dire nulla sulle violenze che si sarebbero perpetrate nei minuti che hanno registrato l'azione di sfondamento di quel luogo. Dai componenti della Commissione parlamentare verrà chiesto ad ognuno degli interrogati chi fosse responsabile di quell'operazione. Nessuno di loro saprà fornire una risposta soddisfacente, almeno commisurata ad una struttura - com'è quella del Viminale - dove non si muove foglia se non arriva il comando da un funzionario o dirigente che sia, con tanto di nome e cognome.
A ben vedere, però, sul tema può apparire più che interessante la testimonianza di Ansoino Andreassi che, davanti al Comitato parlamentare d'indagine, dirà quanto segue. "Arrivo all'ultimo punto, quello più dolente: la perquisizione alla scuola Diaz. (...) Occorre fare assolutamente chiarezza su questa vicenda. Cerco allora di puntualizzare meglio quali sono state le tappe di questo processo che hanno portato poi agli eccessi da lei ricordati e che io stesso sono il primo a condannare. Mi auguro che la magistratura faccia luce quanto prima e mi auguro che le inchieste amministrative facciano altrettanto. Non a caso ho dato atto di essere stato quanto mai sensibile sotto questi profili e lei troverà allegata alla mia relazione anche questa famosa carta, questo famoso decalogo, che è stato un po' il mio pallino fisso e cioé le indicazioni che bisognava dare al personale per evitare che ci fossero brutalità ed eccessi. Quel vademecum distribuito al personale contiene alcuni consigli che sono tratti da questo mio decalogo. Il vademecum è stato fatto in quella forma - e posso esibire anche le prove perché ci sono delle carte in proposito - perché l'ho sollecitato io, costituendo al dipartimento un gruppo di lavoro con il compito di elaborarlo. Ritornando alla vicenda, si manifestò l'esigenza di intervenire all'interno della scuola Diaz perché c'era stato quel precedente, cioé quel passaggio di nostre pattuglie e i lanci di oggetti contro di esse. Allora, assumendomi forse responsabilità che vanno ben al di là del mio mandato - perché per me il mandato era concluso, le manifestazioni erano finite, il mio compito, a volerlo dilatare, era quello dell'ordine pubblico, non quello delle perquisizioni, né quello degli arresti -, convenni sulla impossibilità di dilazionare questa operazione, perché, o si faceva subito, oppure era inutile aspettare l'indomani mattina, dopo quello che era successo: se ne sarebbero andati tutti. E, se era vero che all'interno della Diaz c'erano dei violenti, bisognava intervenire. Si trattava, però, non di una semplice perquisizione di Polizia giudiziaria, perché non si può sostenere che fosse come andare a recuperare delle autoradio rubate; si trattava, piuttosto, di un'operazione oggettivamente delicata e complessa perché prima di tutto si inseriva nel clima di una giornata di scontri e poi perché era oggettivamente rischiosa, anche per i riflessi che poteva avere sull'ordine pubblico. Per questo suggerii al questore di consultarsi con il Capo della Polizia. Seguirono delle telefonate tra il questore e il Capo della Polizia; seguirono probabilmente, ma bisognerà poi chiederlo agli interessati, telefonate anche fra La Barbera e il Capo della Polizia. A quel punto il mio compito era finito e, ancora, ho dato atto già di essere intervenuto soltanto, e mi assumo anche le responsabilità di questo (...), per suggerire di ricorrere all'unità speciale del Reparto Mobile di Roma, perché dal punto di vista dei metodi di selezione usati nel reclutare e nel formare questa squadra e per il tipo di addestramento ricevuto, era questa la squadra che mi dava maggiori garanzie rispetto ai riflessi che l'operazione poteva avere sull'ordine pubblico. Non ho mandato l'Unità speciale per fare l'irruzione; questo non l'ho detto, ma mi sembrava scontato. L'irruzione la potevano fare altre componenti presenti sul posto e in particolare i Reparti prevenzione e crimine che hanno un addestramento specifico sotto questo profilo. Non ho partecipato alla riunione operativa perché, come ho detto, per me la situazione era ormai altrimenti gestita e, quindi, non so quali siano state le decisioni assunte sul posto".
Bene. Se anche La Barbera afferma di non aver voluto quell'operazione (valutazione francamente tardiva), i protagonisti che potevano decidere di attuarla a tutti i costi sono solo due: il questore di Genova, il Capo della Polizia. Nessuno di essi si chiama Canterini. Come dire? Trasparenza e responsabilità cercansi.

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