Il tema che sono chiamato ad affrontare è l’immigrazione nel teatro della regione in cui vivo, il Friuli Venezia Giulia; soglia dell’Est, porzione d’Europa, in cui lo sviluppo e l’economia avanzano ancora con fatica, territorio tra i più soggetti all’influenza del fenomeno dei traffici non sempre leciti.
Essa si colloca, e non per puri motivi geografici ma perché parte costitutiva, nel laborioso e ricco Nord-Est; presenta, infatti, un laboratorio economico dinamico, in continua evoluzione, grazie anche alla posizione geopolitica e strutturale, soggetta quindi ad essere attraversata o raggiunta dal popolo di disperati alla ricerca di un diritto alla dignità.
Tale regione è abitata da una popolazione caratterizzata da una cultura mittleuropea, multietnica e con un passato non troppo recente d’immigrazione; tutti elementi che hanno contribuito a qualificare la civiltà e la società di questo territorio di confine, sebbene si percepisca ancora quell’indotto canone intellettivo tipico di chi vive in frontiera. In tal senso, da sempre, rappresenta un esempio di civiltà nel nostro paese come territorio dove coesistono pacificamente comunità di diversa razza e religione.
Modello di quanto detto è rappresentato da Trieste, città dove convivono varie comunità. Tutti i giorni in questa città, in modo consueto e silenzioso, circa cinquemila lavoratori stranieri attraversano il vicino confine per lavoro, mentre la sera, nello stesso modo, tornano nel loro paese. Per contro ogni giorno questa regione è teatro di passaggio e di fermo di centinaia di persone in regime di clandestinità: ciò avviene in particolare a Gorizia e a Trieste. Ne consegue una frenetica attività d’identificazione e di ricerca dei passeur da parte degli organi delegati per competenza a svolgere questo lavoro, come le Forze dell’ordine e la magistratura.
Contestualmente rispetto a questa massa di gente nient’altro è fatto, nonostante che ogni volta si ponga il problema di dove poterli ospitare, sia durante l’attesa dell’espletamento degli atti necessari, sia per rendere quel minimo d’assistenza umana che necessita chiunque abbia fatto un "viaggio".
Premesso ciò, come affronta il fenomeno del passaggio di tante persone tale regione, interessata attualmente in maniera sicuramente più massiccia rispetto a zone come la Puglia? Qual è l’approccio culturale degli abitanti? La sensazione personale è che la risposta alla prima domanda probabilmente nessuno la può dare, o forse nessuno la vuole dare, anche chi, per diversi motivi la dovrebbe dare.
Puntualmente, qualcuno esprime proposte come: erigere muri alla frontiera, disporre soldati lungo tutti i confini, cavalcando insomma una sorta di sterile scontro politico e mass-mediologico che sostanzialmente non dà risposte concrete ma trasforma l’essenza della questione, come un problema di ordine pubblico. Proposte che ratificano una cultura dell’emergenza la quale produce un’ulteriore percezione negativa nel cittadino.
Tale percezione si manifesta in modo discreto, come in fondo è la gente di questa regione, ma in modo palese e composto nell’esprimere distacco e paura rispetto all’immigrato, anche se nella propria casa chi adempie alle pulizie è la signora slovena.
Quanto detto m’induce a porre alcune riflessioni: ha senso parlare ancor oggi, con tutte le difficoltà d’avvicinamento culturale a tale fenomeno, in modo localizzato, come se lo stesso fosse esclusiva del nostro paese e d’alcune regioni? Ci si rende conto che lo stesso si manifesta e già da tempo, in più parti del mondo? E un caso che tale fenomeno sia più evidente negli Stati più ricchi? L’esigenza di conciliare il diritto a sfamarsi con le regole del libero mercato non consente passi avventati, ma quanti hanno tentato di denunciare le perversioni dei meccanismi di funzionamento dello stesso mercato?
Forse è la verifica delle previsioni esplicitate già 10 anni fa da studiosi dei flussi dei popoli di società sottosviluppate o in via di sviluppo, autorevoli economisti che non sto qui ad elencarvi, i quali ponevano contestualmente un problema di criteri distributivi della ricchezza, altrimenti masse di poveri avrebbero tentato di sottrarsi alla fame, cercando di raggiungere i paesi dell’Occidente. Quest’ultimo, ricco e opulento, con un’economia che concentra l’85% della ricchezza mondiale, è ovviamente oggetto di sogno da parte di chi deve pur poter sopravvivere.
Statisticamente risulta che più di un miliardo di persone vive nel benessere continuando ad arricchirsi, mentre cinque miliardi d’individui non hanno nemmeno il necessario. Rafforzerei suddetto paradosso citando: i quindici milioni di pasti che ogni giorno sono gettati nelle case, nei ristoranti, nelle mense degli Stati Uniti; o, ennesima contraddizione, il bilancio della Fao, inferiore a quanto si spende in un paese di media ricchezza per prodotti dimagranti e addirittura a quanto viene speso in nove paesi industriali per l’alimentazione di cani e gatti. Appare evidente allora che tale manifestazione, come qualcuno comincia a dire, è di carattere transnazionale se non mondiale. Non è quindi un problema e come tale, non va trattato.
E un fenomeno e come siffatto deve essere gestito, altrimenti causa problemi.
Ma quale problema causa? Molteplici direi: in primis, più clandestinità nell’immigrazione con il sorgere di più trafficanti di carne umana e il contiguo rafforzamento del crimine organizzato; maggior emarginazione e confusione che riduce le certezze anche per chi tenta d’inserirsi nella nostra società e produce la promiscuità che può indebolire la moralità dell’individuo rendendolo più soggetto ad atti criminosi, con conseguente danno sociale per chi li subisce. E di solito sono gli appartenenti alle fasce più basse che ne fanno le spese.
A quanto detto consegue forse il problema più grande e cioè uno sviluppo pseudoculturale della società, che catalizza la paura quasi atavica nei confronti di chi è diverso, paura che sfocia a volte nell’intolleranza, nel considerare lo straniero un soggetto potenzialmente in grado di prendere il tuo lavoro e minare la tua sicurezza.
Data la mia immodesta esposizione rispetto a tale fenomeno, a tratti anche un po’ indisponente, qualcuno potrebbe chiedermi: "ma in fondo localmente cosa si potrebbe fare?" Faccio presente che la mia professione è quella di semplice operatore della Polizia di Stato e quindi con delega a vigilare sulla sicurezza dei cittadini e non con un mandato politico e legislativo. Posso affermare che la mia professione mi pone in un osservatorio privilegiato rispetto al fenomeno e mi da modo di esprimere alcune proposte legittime, sia da un punto di vista professionale che da un punto di vista sociale in quanto uomo impegnato nel sindacato.
Proporrei a tutte le istituzioni delegate di lavorare in modo tangibile insieme, mettendo da parte personalismi politici, di creare strutture idonee all’accoglienza necessaria di queste persone, come poi la legge prevede.
Per concludere faccio un appello affinché ognuno di noi dia il proprio contributo contro qualsiasi forma di razzismo in quanto nessuna comunità è immune da tale pericolo e d’altronde il passato insegna che non lo si è geneticamente, ma lo si può diventare: ad esempio, di fronte a crisi occupazionali o economiche ma soprattutto in assenza di forti anticorpi democratici.
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