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luglio / agosto/2001 - Laboratorio
Laboratorio
Un grido di dolore
di

Ecco il testo di una lettera che il Coordinamento Donne del Siulp ha inviato, l’8 marzo di quest’anno, al Ministro delle Pari Opportunità.
“Da tempo il Coordinamento Donne Siulp è impegnato su tutto il territorio nazionale nel raccogliere elementi utili alla elaborazione di proposte che rendano il difficile quadro organizzativo della Polizia di Stato più compatibile con una società che, sempre più, è orientata verso una maggiore affermazione dei diritti dell’individuo e della famiglia, diritti che troppo spesso sono stati riconosciuti sulla carta ma ignorati proprio nei rapporti con le Istituzioni.
E mentre molto è stato fatto per attribuire maggiore valenza ai bisogni del cittadino nel suo rapporto con le Istituzioni, riconoscendo una centralità della sfera soggettiva dei diritti, l’apparato da cui dipende la Polizia di Stato, si è reso protagonista in questi anni, di un’involuzione culturale che ne ha appiattito i connotati essenziali sul modello militare provocando, come era prevedibile, un rafforzamento delle logiche burocratiche, che oggi di fatto soffocano quel naturale respiro che in uno stato di diritto deve essere riconosciuto alla sfera individuale e personale della vita di un lavoratore.
Vorremmo dare alla giornata dell’8 marzo un positivo senso di concretezza allargandone la portata al concetto di Pari Opportunità non solo tra uomo e donna ma tra cittadini/e e poliziotti/e, sottoponendo alla Sua autorevole attenzione alcune proposte di modifiche del quadro normativo che disciplina il rapporto di lavoro, consapevoli che una società che si prepara a tutelare le differenze non può avvalersi di apparati che riconoscono solo l’omogeneità.
Mobilità - Nel corso dell’incontro svoltosi presso gli Uffici del Ministero da Lei diretto, l’8 novembre 2000, una delegazione del Coordinamento Donne consegnò un elenco di situazioni personali relative ad alcuni lavoratori di Polizia, padri e madri, che a causa di un sistema di mobilità vetusto e anacronistico, sono costretti a lavorare ‘per legge’ lontano dai figli e dal proprio nucleo familiare.
Come noto, il bando di concorso per Agenti effettivi contiene il divieto di chiedere come sede di prima assegnazione la provincia di residenza e quelle confinanti, mentre il bando di concorso per l’accesso al ruolo Ispettori è ancora più penalizzante in quanto il limite di cui sopra è esteso non solo alla regione di residenza ma anche a quella di nascita. Quest’ultimo limite viene imposto anche a coloro che partecipano alla quota di posti riservata a chi è già appartenente alla Polizia di Stato. Da notare, innanzitutto, l’anomalia di un limite che non è previsto nel bando di concorso per Commissari, i quali possono prestare servizio tranquillamente nella loro città di provenienza. Da poco è stata emanata una circolare ministeriale contenente rigorosi criteri cui il Ministero si atterrà nel gestire le domande di trasferimento che verranno accolte nel rispetto di una graduatoria in base ad elementi nel complesso condivisibili. Tuttavia, grande perplessità suscita la circostanza che dette istanze non verranno neanche prese in considerazione laddove il dipendente non abbia maturato almeno quattro anni di servizio in sede. Da questo quadro normativo, pur sinteticamente esposto, emergono con chiarezza alcune gravi devianze rispetto ad un processo di valorizzazione della famiglia intesa, non solo come luogo primario di crescita e formazione, ma anche come espressione dell’intimità e della sfera affettiva di ciascuno. Infatti, il combinato disposto esposto dai precedenti dettami, fa sì che il lavoratore o la lavoratrice di Polizia che hanno già un bambino, per legge staranno lontano dalla prole per almeno quattro anni, non solo: in tale periodo può accadere, come già verificatosi in tante province, che nella città che il lavoratore non potrà richiedere come sede, vi potrà essere paradossalmente assegnato d’ufficio personale appena uscito dalle scuole e che nella migliore delle ipotesi avrebbe preferito lavorare in altra città. Oltre enormi ‘guasti’ all’integrità della famiglia, questo pregresso sistema di assegnazione e mobilità del personale provoca ‘a cascata’ un’infinita serie di problemi sotto il profilo alloggiativo. Infatti, oltre a non poter tornare nella città di provenienza, il lavoratore di polizia apprenderà solo 48 ore prima dell’inizio dell’attività lavorativa la sede di destinazione. L’attuale congestione delle caserme, che si acutizza puntualmente e drammaticamente ogni volta che arrivano ‘nuove leve’, ne è la prova lampante. Il disagio della vita di caserma impedirà a molti poliziotti un’adeguata integrazione nel tessuto sociale; ciò, inevitabilmente, anziché stimolare l’inserimento nella città di assegnazione, non farà che esasperare la legittima aspettativa di tornare nelle sedi di provenienza, alcune delle quali, peraltro, hanno una limitata capacità recettiva di personale rispetto alle numerose domande di trasferimento, costringendo i lavoratori di Polizia ad attese ultradecennali.
Questo Coordinamento, pertanto, chiede che anche attraverso un adeguato periodo di transizione, si giunga gradualmente ad eliminare qualsiasi limite geografico, sia nell’assegnazione della prima sede, sia nelle assegnazioni conseguenti le progressioni di carriera. I vincitori di concorso, genitori di figli di età inferiore a dodici anni, dopo un periodo di transizione, dovrebbero essere assegnati, automaticamente, preferibilmente nella città dove risiede la famiglia o alla sede di lavoro ad essa più vicina.
Alla luce di quanto esposto, sarebbe auspicabile anche l’abolizione del limite dei quattro anni di servizio in sede, sanando, così le tante contraddittorie situazioni, evitando disagi ai singoli ed alle loro famiglie allo scopo di ‘armonizzare’ i tempi in un’ottica comunitaria.
Aggregazioni - L’aggregazione anche in sovrannumero rispetto all’organico è prevista nel Contratto Nazionale di Lavoro per gravi motivi di famiglia. La genericità del requisito rende la gestione di questo diritto naturalmente fumosa ed ambigua: sarebbe opportuno imporre un termine perentorio all’Amministrazione allo scadere del quale si configuri un silenzio-assenso ed individuare una casistica di patologie a fronte delle quali l’esercizio del diritto funzioni come una sorta di automatismo. Di frequente è accaduto che il lungo silenzio dell’Amministrazione abbia vanificato la stessa richiesta in quanto deceduto il congiunto per il quale la stessa era stata inoltrata.
Applicabilità delle leggi - Il problema è connesso ai lunghi tempi che l’Amministrazione impiega per adeguare la propria azione amministrativa al susseguirsi delle nuove disposizioni normative di fonte legislativa che ne disciplinano l’attività funzionale.
In particolare l’attenzione del Coordinamento viene richiamata sulla prassi circa la ‘mancata attuazione’ - da parte di Funzionari e Dirigenti di Polizia - di leggi ordinarie dello Stato, senza la previa emanazione di circolari esplicative ed interpretative. Tali prassi determina una ‘sospensione’ de facto della vigenza delle norme di legge e dei diritti che le stesse riconoscono e garantiscono, creando nocumento all’attività della Pubblica Amministrazione e un danno a quei soggetti che invece la norma tutela. Un esempio tra gli ultimi riguarda il ritardo dell’applicazione dei ‘diritti’ previsti dalla recente legge sui ‘congedi parentali’; a numerosi dipendenti che richiedevano l’applicazione di quei diritti è stato risposto di attendere la circolare esplicativa che dopo svariati mesi dall’entrata in vigore della legge, non era ancora pervenuta.
In uno stato sociale di diritto retto dal principio democratico non è possibile ammettere la ‘sospensione’ di diritti previsti e garantiti dalle leggi dello Stato. A tal proposito tra i molteplici rilievi di carattere sistematico e tecnico-giuridico che i fatti narrati consentono si ritiene necessario far presente quanto segue:
a) l’art. 10 delle Disposizioni sulla legge in generale prevede - quanto all’inizio dell’obbligatorietà delle leggi - che le medesime, in linea di principio, divengono obbligatorie nel decimoquinto giorno successivo a quello della pubblicazione (vedi anche art. 73 Cost.). La ratio della disposizione è quella di consentire - tra l’altro - l’adeguamento delle amministrazioni alle nuove disposizioni normative. Il termine di 15 giorni - detto anche vocatio legis - è quindi ritenuto dal legislatore congruo per la presunzione di conoscenza da parte di tutti e per l’eventuale emanazione di circolari da parte delle Amministrazioni che le ritengono opportune. Trascorso tale periodo la legge diventa obbligatoria per tutti in conformità con il principio generale ‘ignorantia legis non excusat’;
b) quanto al rifiuto dei Funzionari e Dirigenti di assunzione di responsabilità di applicare le leggi dello Stato in assenza della circolare esplicativa, vale la pena ricordare quanto disposto dall’art. 28 della Costituzione della Repubblica italiana e si richiama l’attenzione sulla previsione degli artt. 323 e 328 del Codice penale che, in generale, sanziona la condotta del pubblico ufficiale, che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge [...] arreca ad altri un danno ingiusto.
Legge 675/96 - Il secondo problema è connesso alla mancata applicazione delle garanzie previste dalla legge 675/96 sulla Privacy in merito al trattamento dei dati personali con particolare riferimento a quei dati definiti dalla norma stessa ‘dati sensibili’.
Anche in questo caso numerose segnalazioni giunte da tutta Italia, sollevano l’attenzione sulle modalità con le quali vengono trattati i dati relativi alla salute dei dipendenti. La prassi, in numerose questure, prevede l’obbligo - da parte del dipendente che si assenta per malattia - di fornire al proprio ufficio (es. all’Ufficio Personale del commissariato) il certificato medico comprendente sia la diagnosi che la prognosi. Mentre può avere una sua logica il fatto che l’Ufficio periferico debba essere messo a conoscenza della prognosi - ossia al fine di pianificare l’organizzazione del servizio e l’eventuale sostituzione del dipendente - non si comprende la ratio - soprattutto alla luce delle nuove norme - della necessità che l’Ufficio periferico (e quindi non esclusivamente quello sanitario competente) debba conoscere la patologia di cui è affetto il dipendente. Con questa prassi, ormai consolidata, numerosi colleghi e superiori del dipendente malato vengono messi nella condizione di conoscere ‘dati sensibili’ pur non essendo a ciò formalmente preposti.
Per uscir fuor di metafora, un poliziotto affetto da una qualsiasi patologia, prima di vedere trasmesso il proprio certificato medico all’Ufficio sanitario competente, lo deve vedere girare per tutto l’ufficio (Ufficio personale, segreteria, dirigente, vicedirigente o quant’altro), rischiando di subire ingiusti danni d’immagine, alla libertà ed alla dignità.
A questo punto la S. V. ci vorrà perdonare una innocente considerazione di parte, attesa la natura di questo Coordinamento. Non meno grave e lesiva si profila la divulgazione dei dati relativi alla salute dei dipendenti di sesso femminile che, per naturale costituzione fisiologica, sono più soggetti ad assentarsi per patologie fisiche che implicano anche delicati condizionamenti di natura psicologica (interventi all’apparato genitale, interruzioni di gravidanza, ecc.). È in questo caso ancor di più inopportuno, oltre che vietato dalla legge, divulgare nell’ambiente lavorativo questi dati, anche se purtroppo i fatti evidenziano il contrario.
I termini del problema, quindi, da un lato riguardano l’individuazione delle corrette procedure per il trattamento dei dati personali riguardanti lo stato di salute, dall’altro lato la predisposizione di idonee misure organizzative e tecniche per garantire la sicurezza del trattamento medesimo.
Entrambi tali realtà sono regolamentate da una disciplina legale che in questa sede, ci si limita a richiamare.
La normativa di riferimento per trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici è contenuta del d.lgs 11 maggio 1999, n. 135 e successive modificazioni ed integrazioni (d,lgs 30 luglio 1999, n. 281 e 30 luglio 1999, n. 282), disciplina questa che dà attuazione al disposto dell’art. 27, comma 1, della legge 675/96. Nell’individuare i limiti entro i quali il trattamento di dati personali è consentito ai soggetti pubblici, il d.lgs 135/99 stabilisce la necessità di rispettare durante il trattamento la ‘pertinenza [...], non eccedenza e necessità’ dei dati rispetto ‘alle finalità perseguite nei singoli casi’, rapporto questo che l’Amministrazione è tenuta a verificare specificatamente (art. 3, comma 3), pena l’inutilizzabilità dei dati raccolti.
Il ruolo fondamentale che nell’impianto normativo in esame assume il principio di ‘minima interferenza’, in questo modo codificato dal legislatore, risulta confermato - quanto al trattamento di dati personali idonei a rivelare lo stato di salute - dalla previsione di particolari cautele tecniche da seguirsi per il trattamento (art. 3, comma 4 e 5), nonché dal divieto di diffusione contenuto nell’art. 23, comma 4, legge 675/96, confermato dall’art. 4, comma 4 del d.lgs 135/99. In questa prospettiva sono da richiamarsi, altresì, le disposizioni del D.p.r. 28 luglio 1999, n. 318, che prevede le norme per l’individuazione delle misure minime di sicurezza per il trattamento dei dati personali a norma dell’art. 15, comma 2, della legge 675/96, nonché - quali norme di chiusura del sistema - l’art. 18 legge 675/96, quanto alla disciplina della responsabilità civile per ‘danni’ cagionati per effetto del trattamento di dati personali, nonché l’art. 36 legge 675/96, circa la responsabilità penale per l’inosservanza di misure necessarie alla sicurezza dei dati.
Per concludere è di tutta evidenza che la riferita prassi relativa alla gestione dei dati concernenti lo stato di salute dei dipendenti della Polizia di Stato effettuata dai singoli Uffici del personale istituiti presso i commissariati o altri Uffici decentrati non risponde alle prescrizioni della normativa in materia, e si richiede, pertanto, una verifica dello stato di attuazione della richiamata disciplina anche in attuazione dell’art. 27, comma 4, legge 675/96 il quale dispone che ‘i criteri di organizzazione delle amministrazioni pubbliche [...] sono attuati nel pieno rispetto delle disposizioni della presente legge’.
Questo Coordinamento Pari Opportunità, certo della Sua sensibilità, auspica che questi temi, che sicuramente meritano una trattazione più approfondita, entrino comunque nella sua agenda politica, prima che giunga a compimento quel processo di emarginazione della donna, iniziato forse ancor prima della sua integrazione, in quella che è senza dubbio una delle più delicate istituzioni della Repubblica”.
Il Coordinamento Donne Siulp

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