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luglio / agosto/2001 - Interviste
Giustizia
Un Codice penale da rivedere
di

Occorre, forse, cambiare le norme alla luce dell’attuale momento storico che vede una spiccata tendenza all’intervento del diritto come rimedio alle emergenze sociali e contro i ceti più deboli

Si è aperta più volte nel nostro Paese - e troppe volte si è bruscamente richiusa, soffocata dall’apparire di una qualche nuova emergenza - la discussione sulla necessità di dare inizio ad un percorso che conduca all’elaborazione di un nuovo Codice penale.
Il principio ispiratore di “Antigone” (l’Associazione che da anni si batte per una riforma della “macchina Giustizia”, anche in chiave di garanzie per gli imputati), è che in un periodo storico che vede una tendenza alla espansione della sfera di intervento del diritto penale, quale strumento quasi esclusivo per affrontare le più diverse emergenze sociali e quale strumento sempre più rivolto, in senso classista, contro i ceti più deboli, con un incremento ormai insostenibile della popolazione detenuta (e delle sue componenti di marginali, immigrati e tossicodipendenti) va realmente posto all’ordine del giorno del dibattito politico la necessità di un intervento strutturale e di ampio respiro mirante alla concreta applicazione del principio del diritto penale minimo.
Per far ciò, siamo consapevoli che “la contrazione della risorsa penale non può essere perseguita unicamente, in modo volontaristico o normativo, affermando l’esigenza di diminuire o cancellare le leggi penali per motivi, rispettivamente, di utilità o di ottemperanza a norme e principi superiori dell’ordinamento. Si richiede invece, soprattutto, che vengano individuate e favorite le condizioni sociali e culturali, nonché le politiche e gli strumenti alternativi di controllo che permettano di uscire dalla falsa logica: penale o non penale, più penale o meno penale, con cui la penalità si riproduce come la categoria fondante. Di conseguenza, le nuove condizioni della legalità dello Stato sociale futuro vanno cercate in quelle strategie politiche, sociali, culturali ed economiche - ben prima che giuridiche - che consentono di rispondere ai bisogni di sicurezza della società senza restare prigionieri di quella falsa logica. Come dire che lo spazio materiale della penalità può essere ridisegnato fino a scomparire del tutto quando sia il caso, all’interno di un complesso integrato di politiche e nelle condizioni sociali che permettono di rispondere diversamente ai problemi egemonizzati dalla risorsa penale” (Alessandro Baratta e Massimo Pavarini). Si prenda il caso, emblematico, del rapporto tra immigrazione e sistema della giustizia penale. Nell’associazione tra immigrazione e criminalità vi è la radice di un pregiudizio razzistico purtroppo assai diffuso nel nostro Paese. Siamo convinti che la proposta di qualificare l’immigrazione clandestina come reato sia contraria ai principi fondamentali di uno stato di diritto e viceversa che la libera circolazione vada riconosciuta come un diritto fondamentale della persona, quale sia la sua nazionalità, e quindi, se centri per immigrati hanno da esservi nel nostro Paese, veri centri d’accoglienza debbono essere, non centri di detenzione mascherati; siamo altresì convinti che solo i traghetti di linea potranno mettere fine alla tratta degli esseri umani e allo sfruttamento dei migranti da parte di organizzazioni criminali che stanno nascendo e prosperando sulle politiche proibizionistiche del Nord del mondo; ma sappiamo che solo una compiuta politica di integrazione degli immigrati potrà sconfiggere la domanda di controllo penale che viene rivolta nei loro confronti e quindi consentirci di raggiungere quegli obiettivi essenziali di una politica del diritto penale ispirata alla sua minimizzazione e al rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Affrontati nella sede propria i problemi e le questioni sociali che travagliano il nostro tempo, nella definizione di un nuovo Codice del diritto penale minimo, si tratta innanzitutto di rendere operante il principio della “riserva di codice in materia penale”, e cioè il far sì che ogni nuova disposizione penale sia organicamente inserita nel Codice e l’evitare una alluvione disordinata ed emozionale di nuove norme incriminatrici (o che contengano irrazionali e sproporzionati aumenti di pena). La politica penale non può rincorrere gli allarmi lanciati dai giornali e la voglia di protagonismo dei diversi esponenti politici.
Ma affinché l’attuazione del principio della “riserva di codice” si coniughi con una effettiva riduzione dell’ambito di intervento del diritto penale, ovvero con l’affermazione del concetto del diritto penale quale extrema ratio, il lavoro di riscrittura del Codice penale - che deve essere ispirato ai principi di sussidiarietà e di tassatività della norma penale, di materialità e di offensività dell’illecito - al fine di non provocare fenomeni sociali di rigetto nei confronti dell’intervento riformatore ed al fine di coniugare l’obiettivo della “maggiore sicurezza” con quello della “minore sofferenza”, non si può tralasciare la ricerca intorno a ciò che deve essere fatto delle condotte destinate ad uscire dall’area del diritto penale. La ricerca e l’elaborazione devono, quindi, parimenti concentrarsi sulle sanzioni e le procedure sanzionatorie extra-penali, a partire da una analisi sull’attuale configurazione e sulle prospettive di trasformazione delle sanzioni e del procedimento sanzionatorio amministrativo. Occorre cioè prevedere un ampio ventaglio di sanzioni (e non solo amministrative), reali garanzie per il cittadino nella fase endoprocedimentale e la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso il provvedimento sanzionatorio.
Ed il discorso sulla “differenziazione dei vari tipi di sanzioni” va affrontato anche con riferimento a ciò che resterà nell’area dell’illecito penale, al fine di uscire dalla prospettiva che vede quale unica sanzione penale - accanto alla sanzione pecuniaria (che appare più logico collocare al di fuori del sistema penale) - la privazione tout-court della libertà personale. È il discorso - che deve diventare momento caratterizzante il nuovo codice - sulla pena articolata e flessibile, e che deve vivere accanto alla prospettiva della “riduzione dei minimi e dei massimi edittali, a partire dall’abolizione della pena dell’ergastolo”. Crediamo che sia necessario giungere ad una limitazione della discrezionalità di intervento nella fase di esecuzione delle pene, trasferendo al giudice della cognizione - sulla base di precise indicazioni normative - il potere di attribuire pene differenziate, con la possibilità per il giudice, con riferimento alle lunghe pene, di delineare - con la sentenza di condanna - un “percorso” per passaggi intermedi dalla pena detentiva alla piena libertà del soggetto, in attuazione del principio costituzionale di reinserimento del condannato. Attraverso una rivisitazione del sistema delle pene si può puntare sul recupero del concetto di effettività della pena; mentre, attraverso una riduzione delle fattispecie di parte speciale, si può puntare all’effettivo recupero del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. Un punto di partenza - sia pure migliorabile - è l’articolato elaborato dalla Commissione Grosso.
Ma il banco di prova di una riforma del diritto penale nel senso della sua minimizzazione è la riforma della parte speciale e della miriade di norme sanzionatorie sparse nell’ordinamento (cui contribuisce ormai in maniera significativa una normativa comunitaria che sta aprendo la strada ad un diritto penale sovranazionale), la selezione delle fattispecie penali, la riduzione dei massimi e dei minimi edittali, la previsione di sanzioni diverse da quella detentiva. Per questi motivi riteniamo che paradigmatica sia la disponibilità ad una revisione della legge sugli stupefacenti. Un principio ideologico, la proibizione legale della circolazione delle sostanze stupefacenti, è alla base di una normativa criminogena, di fattispecie inquisitorie, di pene draconiane. Gran parte del funzionamento della giustizia penale, dell’esecuzione penale e della popolazione detenuta sono assorbite da questa legge e dalla fallimentare politica che la ispira. È chiaro quindi, che un progetto di riforma che non dovesse muoversi in direzione della decarcerizzazione, della depenalizzazione di tutte le condotte connesse al consumo di droghe e della decriminalizzazione della vita quotidiana dei consumatori non avrebbe ragione di essere.
Associazione “Antigone”

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