La nomina di Asa Hutchinson, deputato repubblicano dell’Arkansas, a direttore della Dea (Drug Enforcement Administration), è stata presentata dal presidente George W.Bush come la prova della volontà del governo Usa di dare un nuovo impulso alla lotta contro il traffico di stupefacenti. E l’interessato ha subito sostenuto di essere quasi un veterano di quella guerra nella quale si sarebbe battuto “come magistrato, come parlamentare, come padre”. In realtà, Hutchinson, che effettivamente è stato procuratore federale dell’Arkansas, alla Camera dei rappresentanti si è soprattutto segnalato per essersi messo alla testa dei repubblicani che chiedevano l’impeachment di Bill Clinton in seguito al famigerato, e piuttosto farsesco, “affare Monica”. Quanto alla droga, il deputato è stato portavoce di un gruppo interpartitico che si è occupato del problema, e ha proposto delle misure contro i prodotti sintetici, quelli utilizzati dai giovani che non hanno i soldi necessari all’acquisto di cocaina ed eroina, e cercano a prezzi bassi lo sballo di una serata.
Qualcuno avrà forse spiegato a Mister Hutchinson che, comunque, la Dea è un’altra cosa, poiché la lotta al traffico, che dovrebbe essere compito istituzionale di questa agenzia governativa dotata di mezzi e poteri quasi comparabili a quelli della Cia (a volte alleata, non di rado rivale), ha orizzonti più vasti e percorsi più complessi di quelli che egli può avere intravisto da procuratore o da parlamentare. Ma dubitiamo che qualcuno dei suoi collaboratori sia stato così spregiudicato da consigliargli la lettura di un libro recentemente pubblicato in Francia dalle edizioni La Découverte, autore Jean-François Boyer, dal titolo “La guerra perduta contro la droga”.
Titolo esplicito, che annuncia una disfatta della quale sono compartecipi le autorità di tutti i Paesi occidentali, pur se il discorso riguarda in particolare gli Stati Uniti. François Boyer è un giornalista esperto di America Latina, e quindi dedica una larga parte della sua analisi a quei Paesi. La Colombia, in primo luogo, con i clan di Cali e Medellin, ma dove anche le formazioni del Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) che si dicono “rivoluzionarie” controllano il traffico di cocaina ed eroina riscuotendo le loro brave tangenti. L’autore preferisce evitare il termine, comunemente usato, di “cartelli”, ritenendo che questa definizione sia servita proprio alla Dea ad indicare un avversario di comodo, da attaccare in alcune occasioni con largo spiegamento di mezzi, con offensive che alla fine, dando l’impressione di un forte impegno, lasciano tutto come prima. Certo, scrive Boyer, le mafie colombiane sono bene organizzate, bene organizzate e solidamente attrezzate, anzi ad esse da una decina d’anni sono venute ad aggiungersi quelle messicane, che hanno il vantaggio di disporre di una frontiera comune con gli Usa. Però, la responsabilità maggiore per il perdurare del traffico non andrebbe addebitata ai produttori, né alle mafie locali dei Paesi dove la materia prima viene coltivata e trasformata, bensì alle organizzazioni criminali dei Paesi ricchi, che ne gestiscono l’importazione e il consumo, e ne traggono i più forti guadagni. In prima fila quelle statunitensi.
Secondo Boyer, diversi interessi si trovano a determinare la mancanza di una autentica volontà di farla finita con la droga. Ad esempio, le autorità di Washington sarebbero piuttosto tiepide nell’accusare esplicitamente le connivenze tra mafie (messicane e americane) e alcuni dirigenti corrotti di quel Paese, legato agli Stati Uniti da un trattato di libero scambio. Ma al di là di questo caso particolare, l’autore denuncia la connivenza, se non la complicità, di settori dell’economia legale, che consentono il riciclaggio dei capitali provenienti dalla droga, e la loro immissione nei circuiti “legali”. Insomma, la tesi di Boyer è che la droga rappresenta un affare troppo rilevante per convincere a rinunciarvi chi negli affari vede la sua unica legge morale.
|