Il ventesimo compleanno della legge 121 lascia ancora insolute molte questioni, sia di carattere storico che socio-politico.
Un primo interrogativo si pone ancor prima della Riforma della Polizia e consiste nel chiedersi come mai un’istituzione tipicamente civile sia stata mantenuta per lungo tempo sotto l’organizzazione militare.
Non appare sufficiente considerare unicamente le difficoltà della società italiana del secondo dopoguerra, anche se hanno influito in modo diretto su alcune scelte. Similmente non sembra sostenibile la teoria di chi giustifica la militarizzazione delle Forze di polizia con la loro scarsa affidabilità politica; secondo i fautori di tale interpretazione una Polizia “con le stellette” costituirebbe una garanzia sia per l’imparzialità operativa, sia come argine di protezione in funzione anti-democratica.
Se si riconosce il ruolo delle Forze dell’ordine nel funzionamento dell’apparato statale non si può che evidenziare come tra il 1943 ed il 1981 lo stesso Stato abbia attuato un controllo rigoroso su questo settore attraverso le gerarchie militari. Questo tipo di gestione ha precluso i miglioramenti organizzativi interni ma soprattutto ha reso impermeabile l’organizzazione “Polizia” rispetto alle istanze di sicurezza dei cittadini. A ciò si deve, in parte, il divario attualmente esistente tra richiesta di sicurezza ed impegno di adeguamento da parte delle Forze dell’ordine.
La situazione in cui si viene a trovare la Polizia italiana sul finire degli anni sessanta è frutto anche di una concezione della politica che tende a separare la sicurezza dal contesto sociale di riferimento.
L’aver individuato questa collocazione storica e l’impegno per creare condizioni migliori di vita e lavoro costituiscono un patrimonio ed un merito indiscusso dei poliziotti “riformatori” ispirati e guidati da Franco Fedeli.
Ma oltre questi indiscutibili aspetti storici il percorso che ha condotto all’attuazione della legge di riforma risulta costellato di interventi esterni che non sono univocamente riconducibili alla volontà degli appartenenti al Corpo: in questo senso la Riforma è frutto di compromessi e mediazioni. Ed è emblematico in questo senso il ruolo giocato, al tempo, da governo ed opposizione, con il primo proteso a difendere fino all’ultimo gli assetti esistenti, la seconda impegnata nel collegare il “Movimento per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione” al mondo operaio.
Sono trascorsi venti anni, ma parlandone sembra di evocare un mondo la cui memoria si perde nel tempo, anche se sappiamo che l’approvazione della 121 fu il frutto di un compromesso come lo furono centinaia di altre leggi, nella coerenza con la logica che sorreggeva la politica di quegli anni.
Anche dal punto di vista linguistico molti degli elementi innovativi proposti dal Movimento risultano impoveriti se non stravolti nel loro significato: è l’effetto di una costante opera di adeguamento lessicale certo giustificata dalla formalizzazione ma su cui sarebbe opportuna un’analisi specifica.
Tra il 1981 ed il presente c’è una lunga serie di modifiche alla legge 121 che non si sono collegate allo spirito innovatore della norma; anzi a questo proposito si può affermare che una delle più gravi lacune della legge 121 è evidenziata dalla discontinuità delle leggi integrative rispetto alla norma di riferimento.
La legge di riforma, come tutte le leggi, non poteva avere poteri taumaturgici: per altro la smilitarizzazione era un atto dovuto e qualsiasi ulteriore ritardo avrebbe avuto ripercussioni politiche non indifferenti. È sulla sindacalizzazione che si focalizzano le aspettative dall’aprile del 1981; anche per analizzare i comportamenti sindacali venti anni rappresentano un periodo di riferimento significativo.
Personalmente sono convinto che il sindacalismo nella Polizia sia rappresentato attualmente in linea di continuità rispetto agli ideali dei “carbonari” solo ed esclusivamente da chi vive con passione questo impegno.
Parlare di sigle, parlare del diverso approccio rispetto ai problemi o argomentare sui referenti politici o sindacali è del tutto di secondaria importanza: nella scala di valori prima viene quel gruppo di sindacalisti che, in Polizia come altrove, svolge il suo lavoro con onestà, coraggio e tenacia, cercando di ascoltare gli altri senza proporre soluzioni preconfezionate, ammettendo gli errori ed impegnandosi contro qualsiasi forma di ingiustizia.
La grande discriminante contemporanea tra i sindacati di Polizia non potrebbe essere ricercata nel valore aggiunto di una compagine rispetto ad un’altra: quando in un settore si concentrano molte sigle di organizzazioni di lavoratori non risulta possibile (nemmeno tecnicamente) differenziare le posizioni sulla base delle reali esigenze o delle idee condivise.
L’articolo 95 della legge 121 ha gettato le basi per la proliferazione dei sindacati: il momento contrattuale ha attirato l’attenzione di tutti a tal punto da divenire il fulcro dell’attivismo.
La mancanza di una cultura delle relazioni sindacali ed una forte tendenza alla conflittualità interna hanno contribuito a disgregare il fronte sindacale in mille rivoli. Nelle strutture organizzative sindacali si sono esportati modelli di riferimento antidemocratici che hanno reso ancor più complesso ed articolato lo scenario.
Gli “eredi” del Movimento dei poliziotti sono un gruppo trasversale, che approccia la realtà quotidiana con l’occhio curioso tipico di chi si interroga sulle cose di tutti i giorni; spesso c’è un impegno politico, religioso o laico che sottende la proiezione nel sindacato, ma non è un requisito indispensabile.
In questo gruppo di sconosciuti, del quale non conosciamo la consistenza numerica pur conoscendone personalmente molti, riponiamo le residue speranze di un recupero dei valori affermati durante l’assemblea di Empoli del febbraio 1975 e di un’attività sindacale basata su valori piuttosto che su schemi: altrimenti la legge 121/81 resterà una pagina storica da consultare negli archivi ma non da attuare.
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