Nonostante le assoluzioni eccellenti nei processi per collusione mafiosa (Andreotti, Dell’Utri, Contrada) permangono ancora dubbi e incertezze sugli effettivi legami fra le cosche e la politica
Il primo incontro con Franco Fedeli lo devo ad uno scontro, una polemica. Franco da qualche mese aveva abbandonato Ordine Pubblico, per non dover sottostare ad imposizioni dell’editore che riteneva, non a torto, inaccettabili, e aveva dato vita ad una nuova rivista, Nuova Polizia e Riforma dello Stato. Con lui, perché c’era lui, erano andati tutti i redattori e i collaboratori di Ordine Pubblico. La storia si ripeterà quando, anni dopo, la convivenza con l’editore di Nuova Polizia risulterà impossibile, e Franco si getterà in una nuova avventura editoriale, quella da cui poi è nata Polizia e Democrazia. E già questi due episodi la dicono lunga sul personaggio e sulle sue qualità e capacità.
L’incontro-scontro è legato al 12 maggio del 1977, una di quelle giornate il cui ricordo mi seguirà sempre. Era l’anniversario della grande vittoria dei “Si” al referendum sul divorzio, voluto dal Vaticano, dalla Dc di Amintore Fanfani e dai neofascisti di Giorgio Almirante. Il Partito Radicale inoltre stava raccogliendo le firme per altri referendum, con i quali si chiedeva tra l’altro di abrogare le norme fasciste allora contenute nel Codice penale, i Tribunali e i Codici militari. L’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga aveva pretestuosamente vietato, per motivi di ordine pubblico, tutte le manifestazioni, per un mese. Anche il concerto del 12 maggio a piazza Navona, per festeggiare la vittoria divorzista e raccogliere le firme per i referendum. Un divieto ingiusto, e i radicali annunciarono che avrebbero pubblicamente disobbedito.
Reparti di Carabinieri e Polizia furono mobilitati per impedire che si potesse accedere a piazza Navona. Ci furono violente cariche, aggressioni, fermi, arresti. Ricordo come fosse oggi il vice questore in borghese del primo distretto che mi massacrò di cazzotti, e poi mi fece rinchiudere in cella di sicurezza per ore. Al processo che ne seguì, il Tribunale riconobbe le mie buone ragioni, e non vi fu alcun seguito. Si era molto risentito, quel vice questore, per un epiteto che mi era uscito di bocca, dopo che a freddo mi aveva dato un pugno allo stomaco (come neppure Mike Tyson), che mi aveva letteralmente piegato in due. E quello fu il meno. Dalle tre del pomeriggio fino alle sei il centro storico di Roma, da piazza Navona fino a Trastevere, divenne terreno di battaglia. C’erano squadre di agenti di Polizia in borghese, travestiti da autonomi, che si incaricavano di provocare i manifestanti; in alcuni casi si sparò, anche ad altezza d’uomo. È tutto documentato, scritto, provato; in un libro bianco sono state raccolte decine di fotografie e di testimonianze di parlamentari e giornalisti del Messaggero, del Corriere della Sera, della Repubblica. Qualcuno quel pomeriggio cercava il morto; e alla fine il morto ci fu: una ragazza, Giorgiana Masi, colpita all’altezza del Ponte Garibaldi, stava andando al concerto con il suo fidanzato. Di quello solo era colpevole. Un’altra ragazza, Elena Ascione, fu ferita gravemente.
In televisione Marco Pannella denunciò l’accaduto, la provocazione, la sua regia, i “mandanti”. Usò parole di fuoco, come solo Pannella sa usare. Parlò, tra l’altro, di agenti di Polizia “travestiti da lupi, che qualcuno voleva fossero lupi”.
Su Nuova Polizia di giugno apparve una breve nota. Le accuse di Pannella erano definite “infami e generalizzate”, il leader radicale “abbaia una farsa d’avanguardia neo qualunquistica”. Non so se quella nota la scrisse di suo pugno Franco o qualche collaboratore della rivista. So che mi fece male leggere quelle cose: io quel pomeriggio avevo visto com’erano andate le cose; ero stato massacrato di botte, denunciato; non avevo neppure fatto il gesto di alzare un dito, eppure mi avevano strappato i vestiti, picchiato, sputato in viso…
Scrissi una nota molto lunga e molto dura, contestando punto per punto i giudizi dati. Franco non batté ciglio; la pubblicò nel numero successivo, accompagnando alla mia, una nota redazionale, in cui si ribadiva con minore durezza nei toni, ma eguale fermezza nei contenuti, la posizione assunta.
Qualche giorno dopo Franco mi telefonò, voleva conoscermi; concordammo un appuntamento; mi invitò a collaborare alla rivista. Accettai perplesso. Cosa mai potevo scrivere, io che da quel mondo ero lontano, non avevo mai indossato una divisa in vita mia? Non era presuntuoso e velleitario da parte mia? “Vedrai che gli argomenti non ti mancheranno”, rispose Franco sorridendo. Aveva ragione lui. Gli argomenti non mancavano, e potei trattarli in piena libertà come raramente accade in altri giornali.
È stata un’esperienza preziosa. Anni dopo Franco decise di raccogliere in volume parte delle lettere che da ogni parte d’Italia gli giungevano; Da sbirro a tutore della legge è il titolo di quel libro, che racconta l’emarginazione, i problemi personali, le tensioni e i pericoli di un mestiere difficile come quello del poliziotto. La prefazione è di Leonardo Sciascia: “Per quanto possa sembrare paradossale, sono stati i buoni cittadini a fare le cattive Polizie, più o meno consapevolmente operando come Bernard Shaw diceva facessero i bianchi nei confronti dei negri: prima li costringono a fare i lustrascarpe, poi dicono che sono soltanto capaci di fare i lustrascarpe. Prima i buoni cittadini li hanno fatti poliziotti in un dato modo, poi li hanno considerati incapaci di essere poliziotti in un modo diverso”.
Ecco: Franco non era, da questo punto di vista, un “buon cittadino”; lui sapeva perfettamente che i poliziotti qualcuno li voleva fatti in un certo modo, ma a lui quel “certo modo” non piaceva. E sapeva che potevano essere capaci di esserlo anche in un modo diverso. E oggi si può dire che molti lo sono, poliziotti in “modo diverso”; e provo amarezza: perché troppi mostrano di aver dimenticato l’impegno di Franco, e che a lui siamo un po’ tutti debitori.
“Tra le tante cose nostre di cui abbiamo poco o nulla da rallegrarci”, scriveva Sciascia, “questa è una delle poche che ci dà una certa fiducia nell’avvenire: che dalla scorza dello sbirro - di quello che i buoni cittadini chiamano lo sbirro - stia per venir fuori il tutore della legge, della legge che è uguale per tutti, della legge che a tutti garantisce libertà e giustizia”.
Se è così - e io credo che sia così - buona parte del merito va a Franco. Di cui sono onorato d’essere stato collaboratore e amico. E le parole riescono a esprimere solo in minima parte il sentimento di gratitudine che ho per una persona cui tanti, tanto devono.
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