Nonostante le assoluzioni eccellenti nei processi per collusione mafiosa (Andreotti, Dell’Utri, Contrada) permangono ancora dubbi e incertezze sugli effettivi legami fra le cosche e la politica
La candidatura alle elezioni regionali siciliane di giugno sotto il simbolo di Alleanza Nazionale è solamente l’ultimo passaggio di quella che tutti già immaginano come una “riscossa”. Per Bruno Contrada, l’ultimo degli assolti eccellenti dall’accusa di contiguità con Cosa Nostra, è iniziata subito la procedura di riabilitazione. Un attimo dopo la lettura del dispositivo della sentenza d’appello che il 4 maggio scorso lo rendeva nuovamente “innocente”. Una sentenza arrivata dopo nove anni dall’arresto (pochi mesi dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio nelle quali erano stati trucidati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e otto agenti di scorta) e tre anni dopo una condanna pesante in primo grado. Il suo arresto, avvenuto nella notte di natale del 1992, fu il primo degli arresti che diedero l’illusione di una caduta del muro di Berlino che aveva sino ad allora separato le indagini antimafia dalle contiguità interne ai palazzi delle istituzioni. Poi ci furono le indagini sul senatore a vita Giulio Andreotti, sull’ex ministro Calogero Mannino, sul presidente della corte di Cassazione Corrado Carnevale, sul braccio destro del neo Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, sul Presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto. Ed altri ancora. Indagini, arresti ed anche moltissime assoluzioni.
Le assoluzioni lasciano il nodo aperto: chi impersonò l’intreccio tra mafia e politica, mafia ed istituzioni? Chi dentro la politica e le istituzioni, perché una cosa è certa, i boss che fecero la loro parte per Cosa Nostra sono tutti individuati e la gran parte sono in cella, accusati dagli stessi collaboratori di giustizia che vengono ritenuti inattendibili per i “colletti bianchi”, condannati dagli stessi giudici che non sono riusciti a valutare colpevoli politici e pubblici funzionari. Ma dalle dichiarazioni che hanno accompagnato l’assoluzione di Contrada sembra che il nodo non sia più all’ordine del giorno né dell’opinione pubblica né del dibattito politico. Che il vero nodo da sciogliere sia quello di individuare i partecipanti ad un fantomatico “complotto” nazionale, uomini ombra che si sarebbero adoperati per imbrogliare le carte e distruggere con l’arma delle manette decine di imprenditori, investigatori, politici, magistrati che davano fastidio. Almeno così hanno deciso le principali testate giornalistiche subordinate alle strategie politiche di chi non vedeva l’ora di gustare la rivincita contro le procure antimafia. Il nodo dell’intreccio mafia e politica però rimane irrisolto e non è certamente fuori dall’agenda degli imprenditori che ancora oggi, se vogliono accedere ad un appalto pubblico, devono trovare il politico amico o fare i patti con il boss di turno. Né è fuori dalla lista di sospetti che accompagna nel suo lavoro quegli 007 adibiti alla cattura di latitanti, agenti e super investigatori che si chiedono ancora come siano riusciti a catturare decine di boss nascosti per decenni ed abbiano visto dileguarsi ogni volta il primo della lista, il superlatitante Bernardo Provenzano, quando sembrava che fossero ad un tiro di schioppo.
Anche Contrada gioca al ruolo della vittima del complotto senza dire mai esplicitamente che ce ne sia stato uno, di complotto. Ed anche lui usa le mezze frasi, le ipotesi ed i sospetti lasciati lì, messi a caso sul tavolo, ad indicare che il suo arresto fu utile a qualcuno per qualcosa. Ed una di queste ipotesi porta proprio il nome di Bernardo Provenzano. Contrada ne parla il giorno dopo la sua assoluzione, proprio alla vigilia dell’anniversario del 38esimo anno di latitanza del boss. Ne parla a corollario di una ricostruzione dello scontro fra apparati investigativi fra il 1991 e il 1992, mentre si stavano riconvertendo nel meridione gli uffici del Sisde in funzione “anti eversione criminale”, cioè di lotta a Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. “Allora si stava creando la Dia - ha detto Contrada - e poi altri gruppi investigativi, e tutti erano buttati sullo stesso osso”. Ed ha continuato: “i miei ragazzi avevano buone speranze di prendere, nel dicembre del 1992, il boss latitante Bernardo Provenzano, ma il mio gruppo venne sciolto pochi mesi prima che io fossi arrestato”. Che “zio Binu” si trovasse proprio nel trapanese lo hanno confermato, alcuni anni dopo il 1992, anche numerosi collaboratori di giustizia. Contrada era arrivato ad individuare la provincia siciliana sulla base di alcune inflessioni dialettali trapanesi che erano state notate nelle frasi dei figli del boss mentre parlavano al telefono con loro coetanei. Gli investigatori avevano compreso che i ragazzi, ritornati a Corleone dopo una lunga assenza insieme al padre, dovevano avere acquisito l’accento dialettale proprio nel trapanese. Vennero messe a soqquadro le scuole della provincia e da una foto dei ragazzi venne individuata quella che avevano frequentato. A differenza di quanto sostiene Contrada, però, le indagini che vennero bloccate dalla Criminalpool alla vigilia dell’arresto del funzionario del Sisde - a detta dei vertici della Criminalpool - ripresero proprio dopo quell’arresto, ma senza dare alcun esito. E poi, Contrada non è certamente l’unico investigatore che ad un passo da Provenzano vede sfumare la sua pista d’indagine. Insomma, un arresto ed un processo di queste proporzioni solo per bloccare la cattura di Provenzano sembra esagerato. E, bisogna ricordare, Contrada è l’unico investigatore è stato arrestato per un sospetto di contiguità con Cosa Nostra che i giudici d’appello hanno negato esistesse.
“Ma io ed i miei avvocati non abbiamo mai parlato di complotto” insiste lui. Ed in effetti subito dopo la sua assoluzione a fare intravedere l’ipotesi di un complotto erano state le dichiarazioni degli esponenti autorevoli di una parte politica in campo nella campagna elettorale, e cioè il Polo della Libertà, che avevano subito approfittato della sentenza per aprire una nuova polemica con il governo e la maggioranza dell’Ulivo. “Contrada è un uomo dello Stato, per il quale avevano garantito con testimonianze personali alcuni dei più fedeli servitori dello Stato” aveva affermato il leader del Polo, Silvio Berlusconi. Ed aveva aggiunto: “L’assoluzione è una notizia che rassicura, e che ci fa pensare che l’Italia, e la sua magistratura migliore, è andata molto più avanti di tutti coloro che, in patria e all’estero, fanno della giustizia penale l’uso e l’abuso che sappiamo. Non deve più succedere quello che è successo a Bruno Contrada: oltre due anni di carcere preventivo - conclude Berlusconi - una vita professionale e un’immagine umana distrutte, e tutto per le propalazioni calunniose di alcuni criminali”. Ed è più esplicito il Presidente della Provincia, e deputato di Forza Italia, Francesco Musotto, anche lui arrestato e poi assolto in via definitiva dall’accusa di contiguità con la mafia (con la particolarità che i collaboratori che vengono ritenuti attendibili per i suoi coimputati, come il fratello Cesare Musotto, tutti condannati, non vengono ritenuti attendibili per le dichiarazioni che lo riguardano). “È opportuno - afferma Musotto dopo l’assoluzione di Contrada - che si prenda atto di quanto in questi anni è successo a Palermo sotto il profilo giudiziario e se ne traggano le opportune conseguenze. Sono particolarmente contento perché posso, a ogni titolo, condividere la sua gioia dopo tante tribolazioni”.
Dal canto suo Contrada appena una settimana prima dell’assoluzione aveva partecipato ad un’assemblea pubblica in cui si contestava la decisione dei vertici di Forza Italia di non avere candidato in Sicilia la parlamentare Cristina Matranga per punire - a detta della stessa - il suo impegno antimafia. Un’assemblea in cui sul banco degli imputati c’era proprio Silvio Berlusconi ed il suo luogotenente nell’isola Gianfranco Miccichè. E non erano stati certamente abbassati i toni quando si era fatto notare che nelle liste “forzitaliote” ci fossero numerosi inquisiti per mafia. E sempre in quei giorni Bruno Contrada aveva espresso la sua adesione alla candidatura di Emma Bonino che in un collegio lombardo aveva tra i suoi avversari proprio Marcello Dell’Utri. Dell’Utri, uno dei dirigenti di Forza Italia che si trova ancora alla sbarra con l’accusa di contiguità mafiose e che negli interventi applauditissimi (anche da Contrada) della Matranga, era indicato come un’altra delle menti che aveva partorito la sua esclusione dalle liste dei candidati del movimento berlusconiano. E all’indomani dell’assoluzione, pur continuando verbalmente ad escludere che ci fosse stato un complotto, Contrada aveva precisato che anche se “indubbiamente nel complesso della vicenda giudiziaria sono accaduti fatti che hanno destato grossa inquietudine e forti perplessità: tutto lasciava pensare che ci fosse una regia occulta, per incastrarmi, per non lasciarmi vie di scampo”, tuttavia l’ex funzionario del Sisde non si sarebbe lasciato coinvolgere dalle accuse politiche contro la magistratura che lo aveva inquisito. “Non ho mai indossato alcuna casacca politica né mi presterò ad alcuna strumentalizzazione. In vita mia ho indossato solo due casacche: la divisa di ufficiale dei bersaglieri nell’esercito e quella di funzionario di Polizia”. Ora indosserà anche quella di Alleanza Nazionale ed è indubbio che la sua storia giudiziaria sarà uno dei volani principali per la carriera politica.
Alcuni anticipi si hanno già dalle prime dichiarazioni. “Quello che è accaduto a me – ha infatti aggiunto l’ex dirigente del Sisde - difficilmente sarebbe potuto accadere a qualcun altro, perché io racchiudevo tutte le qualità del simbolo di questa repressione giustizialista che cominciò in grande stile all’inizio degli anni Novanta. Quello fu il periodo - in cui l’onorevole Luciano Violante era presidente dell’Antimafia dell’ultima legislatura della prima repubblica, mentre pochi giorni dopo il mio arresto si insediava a Palermo Giancarlo Caselli. La Dia - conclude Contrada - fece le indagini contro di me. Io non ce l’ho con la Polizia di Stato cui mi onoro ancora di appartenere, né ho nulla contro Gianni De Gennaro. So che le mie disgrazie iniziano con le accuse del pentito Gaspare Mutolo, e quello era uno dei collaboratori gestiti da questa nuova Polizia”. “Ma non immaginiate che le assoluzioni, compresa quella di Contrada, significhino l’inesistenza del nodo mafia, politica ed istituzioni. Faremmo un passo indietro di secoli” avverte l’ultimo presidente della Commissione nazionale Antimafia Giuseppe Lumia. “D’altronde – aggiunge Antonino Ingroia - le prime dichiarazioni accusatorie contro Bruno Contrada le rese Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone nel 1984”. Ingroia, che fu anche Pubblico Ministero in primo grado, nel processo che si concluse con la condanna, ricorda che in quel caso “la decisione del tribunale, come è facile desumere dalla lettura della motivazione, non era fondata soltanto su dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ma anche su testimonianze di autorevoli esponenti delle istituzioni, alcuni dei quali stranieri, di familiari di vittime della mafia e risultanze documentali”. Insomma, basta con le polemiche, e si continui ad indagare perché venga fuori l’asse che ha consentito che si realizzasse a Palermo ciò che non si è riusciti a compiere in nessuna capitale neanche di un paese sudamericano. “Qui sono stati uccisi alti procuratori, magistrati, sindaci, presidenti della regione, giornalisti, sindacalisti e segretari di partito – ricorda Lumia – non è successo per caso e non è responsabile solamente il gotha di Cosa Nostra”. La palla ora passa alla nuova Commissione nazionale Antimafia ed alle nuove indagini giudiziarie. Riecheggia l’analisi fredda di Pier Paolo Pasolini del 1974, “Io so, ma non ho le prove e non ho nemmeno indizi. Perché so coordinare fatti anche lontani, mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, ristabilire la logica dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
|