Sono 850 le zone industriali d’esportazione sparse in 70 Paesi del Terzo Mondo per produrre con costi ridotti e salari di fame. Contro questa realtà la protesta del “popolo di Seattle” si allarga, senza però trovare un orientamento preciso
Il popolo di Seattle sembra ormai, a livello mondiale e nella cultura occidentale, l’unico protagonista di un antagonismo a 360 gradi. Ma cos’è il popolo di Seattle? Quali sono le forze che lo compongono? Può anch’esso, come le filiere senza volto che combatte e che animano il senso complessivo della globalizzazione, apparire vuoto di una precisa fisionomia, di una faccia, di un leader? C’è chi dice che, ormai, i cosiddetti grandi del mondo non possono neppure pranzare assieme senza che qualcuno organizzi un contro summit. Conseguenti altre due ulteriori domande, allora: è l'inizio di qualcosa di nuovo o sono le battute finali di qualcosa di molto vecchio? Sono scene di resistenze marginali o stiamo assistendo alla nascita di un movimento globale?
La questione risulta complessa e di difficile interpretazione. Le ragioni? Essenzialmente perché lo scenario sfugge ai canoni interpretativi sociali, politici, economici, così come maturati sino all’inizio del nuovo millennio. Ma ciò, in parte, contiene in sé anche una forte contraddizione. Il fatto, cioè, che il fenomeno dell’antagonismo alla globalizzazione venga formandosi secondo una percezione antica, quasi primitiva, almeno nella logica della coagulazione delle masse che convergono verso uno dei due poli catalizzatori i quali si combattono, strutturandosi però in una contrapposizione riflessa, a specchio; mostrando, dunque, tutti i limiti di una somiglianza che “esige” l’esistenza “dell’altro da sé” per rimanere in vita. E combatterlo.
Proprio a proposito di ordine pubblico, è interessante notare subito come i servizi di sicurezza classifichino la minaccia anti-globalizzazione. Ad esempio, in previsione dell’appuntamento del G8 di Genova, per gli 007 nostrani una particolare attenzione avrebbe meritato “l'anarchismo di matrice insurrezionalista”. “Sono stati raccolti – scrivono gli uomini dei servizi – segnali di un crescendo di iniziative di solidarietà nei confronti di compagni di militanza detenuti in Italia ed all'estero, specie in Grecia e in Spagna”. Ma non è tutto. In merito al settore antagonista, rappresentato da un movimento del dissenso globale scaturito dalle manifestazioni di Seattle “eterogeneo ed ancora molto articolato”, gli apparati di sicurezza ritengono che esso sia esposto “al pericolo sempre più frequente delle infiltrazioni di elementi interessati a fomentare un'accesa conflittualità e a strumentalizzare le rivendicazioni”. Particolare importanza, attribuivano i servizi al vertice G8 di luglio “contro il quale il settore antagonista ha avviato un’ampia mobilitazione propagandistica su tutto il territorio nazionale, che lascia intravedere segnali di forte determinazione nella pianificazione di turbative dell’ordine pubblico, con l’intendimento di ampliare il fronte della contestazione ad altri soggetti sociali”.
Ma se questa è, per linee molto generali, l’istantanea offerta dalla “sicurezza” sul variegato mondo dell’antagonismo, di più grande interesse risulta lo scenario raccolto da Naomi Klein, 31 anni, canadese, autrice del volume “No logo”. In quattro anni, impiegati a raccogliere materiali, Klein ha spulciato tutto quanto era di disponibile sull'informazione economica in materia di globalizzazione, contattando ogni sorta di antagonisti, da Greenpeace ai “guerriglieri dell'arte”, percorrendo il mondo da un capo all'altro per seguire il tragitto delle scarpe Nike dalle fabbriche lager in Vietnam ai templi newyorkesi della vendita, dai caffè Starbucks alle piantagioni in Guatemala. “Ho visto nascere – afferma l’autrice – un movimento che non ha precedenti”. E l’analisi, molto documentata, in effetti giunge ad indicare la seguente considerazione: che le grandi multinazionali sono i nuovi colonialisti. Un esempio? La descrizione di Cavite, 90 miglia a sud di Manila, una delle 850 zone industriali d’esportazione sparse in 70 paesi del sud del mondo, e non la peggiore: 680 acri circondati da filo spinato e controllati da guardie armate. Vi entrano solo gli uomini dell’import-export, non vi ha giurisdizione neppure la polizia o l’autorità sanitaria locale. Dentro, 207 fabbriche, tutte costruite con plastica e lamiera, senza finestre né sistemi di areazione, con macchinari rumorosissimi. Vi lavorano 50.000 persone, per lo più ragazze fatte affluire dalle campagne con la promessa di un buon salario. Lavorano 12 ore al giorno per un compenso insufficiente alla sussistenza, non hanno alcun diritto né alcuna forma di assistenza. Se si ammalano, vengono licenziate; se restano incinte, vengono licenziate; se protestano, vengono licenziate; se non arrivano nuove commesse, vengono licenziate. Qui, nascoste agli occhi del mondo, nascono scarpe Nike, tute Gap, schermi Ibm. Forse Cavite non sopravviverà a lungo e questa zona industriale d’esportazione prenderà il volo come tante altre (nella lingua locale si chiamano rondini). A Cavite, come nelle altre fabbriche volate via, infatti sta nascendo un sindacato. Non dentro la recinzione, naturalmente, dove è vietato riunirsi, ma fuori, nella vicina città di Rosario, in una baracca sulla cui porta c’è l’insegna Workers centre assistance. I “sovversivi” non fanno molto, avvicinano le ragazze di Cavite e gli fanno vedere i cartellini dei prezzi delle scarpe e delle magliette che loro producono. Una maglietta delle circa 100 che una ragazza fa in una giornata di lavoro costa come qualche mese di salario.
Cavite non è il peggio: in Cina l’orario di lavoro nelle zone industriali d’esportazione è di 16 ore al giorno; a Sumatra, a confezionare i vestitini per le Barbie, lavorano bambini di pochi anni; nel delta del fiume Niger, dove la Shell ha i suoi pozzi, per far tacere la protesta pacifica della popolazione Ogoni, l’esercito ha arrestato e ucciso. L’elenco di fabbriche bruciate con dentro i lavoratori, di molestie sessuali alle operaie, di materiali tossici in mano a bambini è interminabile. Afferma Hector Liang, presidente di United Biscuits, “i macchinari arrugginiscono, le persone muoiono, i marchi sopravvivono sempre”. Meglio, quindi, fare come ha fatto Adidas nel ‘93: chiudere le fabbriche in Germania, trasferire la produzione in Asia e, con il consistente risparmio, pagare Saatchi e Saatchi perché promuova l’immagine.
Insomma, l’elenco dei posti di lavoro tagliati in Usa, Europa, Canada è interminabile, sempre abbinato alla nascita di nuove fabbriche lager in Asia, Sudamerica, Africa e a nuovi contratti miliardari con le grandi società di marketing in gara tra loro per inventare una nuova campagna più aggressiva della precedente. In tutte le città – ricorda Naomi Klein – ormai gli autobus sono enormi barrette di cioccolata o chewingum con le ruote, le riviste somigliano sempre più a cataloghi di design ed i cataloghi sembrano riviste con le star del momento a far da modelli. La Pepsi sta studiando come proiettare il suo logo sulla luna, mentre è già vivo e vegeto il primo media-marchio, Mtv, macchina pubblicitaria per vari prodotti, compresi gli album promossi attraverso i video, che fa pubblicità a se stessa con concerti, premi, una linea d’abbigliamento. I ragazzi non dicono mai di star guardando questo o quel programma di Mtv. Guardano Mtv e basta. Il confine tra spettacolo, cultura e pubblicità è sempre più sfumato: il rapper Fat Boy Slim fa pubblicità a Nike e il marchio gli fa scalare l’hit parade; nella fortunata serie tv Dawson Creek, i personaggi indossano abiti J.Crew, il set ventoso e marinaresco come i cataloghi del marchio d’abbigliamento (e nel catalogo come modelli compaiono gli attori della serie tv). Al consumatore, di musica, cinema, tv, moda, resta il passaparola. O forse neppure quello. La Bmg assolda band di strada per promuovere i suoi album hip hop e a Los Angeles la Steven Rifkin si presenta così: “Specializzata nella diffusione del passaparola nelle aree urbane e nei centri storici”.
I marchi sono i nuovi padroni del mondo, controllano flussi di denaro che superano ampiamente i bilanci della maggior parte degli Stati. E ormai – sottolinea Klein – hanno conquistato anche scuole e università. Gli effetti? Spesso surreali. Come quel che è accaduto a Mike Cameron, 19 anni, studente della Greenbrier High School di Evans, in Georgia, reo di aver indossato una maglietta con il logo della Pepsi, nel giorno della sponsorizzazione della Coca Cola. O come quando, nel 1996, alla York University di Toronto, è intervenuta la polizia contro studenti che distribuivano volantini sui rischi del fumo. Ne era stato richiesto l’intervento perché il contratto di sponsorizzazione tra l’università e la Du Maurier, fabbrica di sigarette, prevedeva una clausola di non denigrazione. Ma non è solo il mondo Usa ad essere condizionato sino all’inverosimile. C’è stato un “silent cup” – dice l’autrice di “No Logo” – anche nei paesi che hanno governi laburisti o di centro sinistra, visto che le politiche economiche sono piegate agli interessi delle multinazionali. Perciò se i marchi contano più dei governi meglio prendersela con i marchi. C’è chi lo fa da tempo. E nei modi più vari.
Tra le modalità più creative che puntano all’antagonismo c’è l’arte da guerriglia. Un esempio? Le facce delle modelle anoressiche di Calvin Klein alle quali un pennarello ha scavato occhiaie nere e cucito le labbra. Quelle del sabotatore Jubel Brown sono esposte in una galleria d'arte di Toronto. Tra i sabotatori, o jammer, ci sono anche pubblicitari che nel tempo libero correggono i cartelloni per far “emergere – come spiega uno di loro – la parte nascosta sotto strati di eufemismo pubblicitario. Il famoso cammello delle sigarette è attaccato a una macchina per la chemio. Non è quello che l’aspetta davvero?”.
I jammer hanno una rivista Adbusters, rubriche su noti media (come “No comment” su Ms), siti web come Riotgrrrl. Persino sulle pasticche di Ecstasy si gioca con l’interferenza sul marchio: c’è Big Mac, Purple nike swirl… Il musicista Jeff Renton spiega: “…tu entri nella mia vita con pubblicità miliardarie e mi fai sentire a disagio; io mi prendo il tuo marchio e lo porto in posti che fanno sentire a disagio te”.
I “Reclaime the streets” hanno piantato alberi nel cemento di autostrade dal Canada all’Australia, da Israele alla Gran Bretagna, ed in occasione del G8 di Birmingham, nel maggio ‘98, hanno creato 30 eventi in 20 paesi diversi. Perché? Un manifesto on line di Rts Londra lo spiega così: ''La privatizzazione degli spazi pubblici, di cui l’automobile è simbolo, logora i quartieri e le comunità. I parcheggi e le aree shopping frantumano le comunità e appiattiscono tutto. Ogni posto è uguale a tutti gli altri”. Riprendiamoci le strade. In Belgio, ad esempio, c’è un gruppo che protesta a colpi di torte in faccia, colpendo uomini simbolo come Bill Gates e Robert Shapiro della Monsanto. Tanti i gruppi che indagano sui crimini delle multinazionali, o sullo sfruttamento di bambini e donne nella fabbriche come Cavite. Dal micro sindacato di Cavite, ad Amnesty international, fino al gruppo di hackers “Yellow pages” che fa la guerra (informatica) alle aziende che fanno soldi in Cina ignorando le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime.
Importa qualcosa – dopo quanto scritto – che il popolo di Seattle abbia o no un leader? Sì, perché tra i paladini dell’antagonismo totale c’è qualche nome che ormai viene definito storico. Ad esempio quello di José Bovè, il cavaliere della battaglia contro gli Ogm (organismi geneticamente modificati), un grande uomo baffuto di 47 anni, capo della Confederation paysanne, sindacato di contadini che in Francia è diventato potentissimo. Bovè, figlio di Josy, settantunenne biologo di fama planetaria, naturalmente sostenitore di tutto ciò è ottenibile attraverso gli Ogm, è ormai una star planetaria; ogni volta che compare in tribunale sul banco degli accusati, i suoi seguaci si mobilitano, seguaci innumerevoli visto che, traendo giovamento dal soggiorno americano con la famiglia, il ribelle José ha potuto arringare le folle di Seattle durante la prima grande rivolta anti-mondializzazione.
Il popolo di Seattle, dunque, appare più una massa di ragioni in movimento che un organismo strutturato. Ragioni tra cui è possibile trovare un po’ di tutto. In Italia, sono molti i movimenti, le organizzazioni, i gruppi, che aderiscono alla protesta, e l’ultimo G8 di Genova traduce, di certo, una nuova istantanea di questo genere di manifestazioni. Una foto che, senza dubbio, continuerà ad evidenziare tanti micro-protagonismi mischiati in una miscela che può rendere percorribile la strada della protesta: ma, tragicamente, sensibile anche quella di un vuoto di orientamento.
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Aria di Seattle in libreria
Sono molti i nuovi titoli italiani, le traduzioni di autori stranieri, le ristampe, che cercano di illustrare tutto il male della globalizzazione e quanto, nel mondo, si muove contro. Di seguito ne indichiamo alcuni, al di là di ogni giudizio sulla completezza e le linee di tendenza che essi evidenziano.
Editore Feltrinelli:
- Contro il capitale globale. Uno storico, Jeremy Brecher, ed un leader del sindacato dei camionisti americani, Tim Costello, spiegano come la globalizzazione provoca il livellamento verso il basso delle condizioni di lavoro e come si stia costruendo una rete transnazionale, lillipuziana, contro la new economy.
- L’uomo flessibile. Richard Sennet spiega le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita delle persone.
- Il mondo non è in vendita. Nuova edizione ampliata del libro-manifesto di José Bové e Francois Dufour.
- WTO. Ristampa del celebre libro di Lori Wallach e Michelle Sforza, ricercatrici di Public Citizen, organizzazione Usa di difesa dei consumatori, su ''tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale''.
Editore Mondadori:
- Mal di lavoro. Alessandro e Renato Giglioli, giornalista il primo, neuropsichiatra esperto di mobbing per l'Oms il secondo, raccontano le conseguenze psicologiche e fisiologiche della new economy.
Editore Il Mulino:
- Modernizzare stanca. Franco Cassano, docente di sociologia a Bari, rilancia il gusto della lentezza, il rispetto dei limiti, l'importanza dell'esperienza contro la velocità a tutti i costi, contro la modernizzazione panacea di tutti i mali.
- Globalizzazione e frammentazione. Ian Clark, docente di politica internazionale all'University of Wales, illustra le spinte centrifughe della globalizzazione nel corso del XX secolo, con attenzione particolare al mondo balcanico.
- Diventare persone. Martha Nussabaum, docente di legge ed etica a Chicago, parla della necessità di un'etica della globalizzazione.
Editore Bollati Boringhieri:
- Il lavoro che emerge. Di Pierpaolo Donati, docente di sociologia a Bologna, propone un approccio umanistico al lavoro, diventato, nell'epoca della globalizzazione, nuovamente una grande questione sociale.
Editore Carocci:
- Che cos’è la pubblicità. Vanni Codelupi docente di sociologia a Milano, vuole insegnare al lettore le tecniche del marketing e della comunicazione di massa per aiutarlo ad orientarsi ormai dominato dalla ''cultura promozionale''.
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Tre anni di proteste
18-20 MAGGIO 1998 - GINEVRA: per il 50/mo anniversario dell'Organizzazione del commercio mondiale (Wto), migliaia di giovani sfilano nelle strade di Ginevra. Ci sono disordini e scontri con la Polizia. I fermati sono 117.
18-20 GIUGNO 1999 - COLONIA: in occasione del G7-G8 circa 35 mila manifestanti circondano con una catena umana il centro della città, chiedono la remissione del debito dei paesi più poveri del Terzo mondo. Incidenti subito sedati dalla Polizia il primo giorno del vertice. In concomitanza, il 18,a Londra, migliaia di manifestanti mettono a soqquadro la city.
30 NOVEMBRE-4 DICEMBRE 1999 - SEATTLE: per cinque giorni i lavori della Conferenza ministeriale della Wto a Seattle (Usa) sono disturbati dalle proteste di oltre 50 mila manifestanti. La Polizia spara lacrimogeni e pallottole di gomma contro gruppi che attaccano e saccheggiano negozi. Il sindaco impone per quattro giorni il coprifuoco. Nel suo intervento il presidente Usa Bill Clinton condanna le violenze pur ammettendo che alcuni dei gruppi scesi in strada ''intendevano esprimere legittime preoccupazioni''. Oltre 500 gli arrestati.
29 GENNAIO 2000 - DAVOS: il 'popolo di Seattle' arriva a Davos (Svizzera) per il tradizionale appuntamento con il World Economic Forum. La manifestazione, alla quale partecipa anche uno dei leader di Seattle, il francese Josè Bovè, è in gran parte pacifica ma non mancano incidenti. Alcuni dimostranti rompono le vetrine dell'unico McDonald’s della città.
15-17 APRILE 2000 - WASHINGTON: in occasione della riunione del Fondo monetario internazionale, oltre 15mila manifestanti protestano contro l'economia globale. Il tentativo di impedire i lavori non riesce per il pugno duro della Polizia che blocca il centro della città. Circa mille gli arresti.
25 MAGGIO 2000 - GENOVA: oltre 6 mila manifestanti protestano pacificamente in occasione della mostra-convegno sulle biotecnologie Tebio. In coda al corteo un gruppo di anarchici rompe alcune vetrine e si scontra con la Polizia; 20 i feriti.
14 GIUGNO 2000 - BOLOGNA: manifestazioni si intrecciano per le strade della città in occasione del vertice Ocse. Incidenti tra manifestanti e Forze dell'ordine causano otto feriti.
26-28 SETTTEMBRE 2000 - PRAGA: sotto assedio la riunione di Fmi e Banca Mondiale. Mentre la maggioranza dei circa 15mila dimostranti protesta pacificamente, gruppi di manifestanti mandano in frantumi la vetrina di un Mc Donald's a Piazza San Venceslao e si scontrano con la Polizia. Al termine di due giorni di manifestazioni restano ferite 150 persone, quasi 500 i fermati. Il 27 i lavori del Fmi chiudono, con un giorno di anticipo.
7 DICEMBRE 2000 - NIZZA: per il vertice del Consiglio europeo, un migliaio dei circa seimila manifestanti antiglobalizzazione si scontra con la Polizia. Incendiata un'agenzia bancaria e distrutte alcune vetrine tra cui quelle di un Mc Donald's. Negli scontri 16 poliziotti sono feriti, 30 i manifestanti fermati.
27 GENNAIO 2001 - DAVOS: circa 200 dimostranti eludono i posti di blocco della Polizia, che interrompe anche i collegamenti ferroviari con la cittadina svizzera, e raggiungono Davos dove si svolge il Forum economico mondiale. Il grosso dei manifestanti è bloccato a Landquart e alla stazione ferroviaria di Zurigo, dove avvengono scontri con la Polizia.
17 MARZO 2001 - NAPOLI: almeno 20.000 persone protestano contro il Global Forum dell'Ocse, ma la manifestazione degenera quando gruppi di giovani tentano di raggiungere piazza del Plebiscito per chiedere la chiusura anticipata dei lavori del Global Forum. Scoppiano incidenti. Secondo la Polizia, oltre 100 persone sono ferite o contuse, mentre sono 16 le persone fermate.
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