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luglio / agosto/2001 - Interviste
Premio Franco Fedeli
Una pagina del libro vincitore
di Falco Accame

Ecco un brano, tratto dal Vº capitolo del libro di Alessandro Perissinotto, nel quale il giudice legge, durante il processo, una sorta di perizia medico-legale sulle morti avvenute nelle Thullies

«... Con movimenti studiatamente lenti, il giudice aprì l’involto e ne estrasse un foglio che esaminò con attenzione. Fu solo dopo aver teminato la lettura, mentre la curiosità montava intorno con un brusio sordo, che egli decise di dare al processo quella che riteneva essere l’impronta decisiva e definitiva.
“Quella che ho tra le mani” disse “è l’attestazione circa le vere cagioni della morte di Isoardo e della sua famiglia. Ne do pubblica lettura acciocché ognuno veda la futilità delle accuse mosse all’imputato”.
Tacque, si alzò e si dispose a tradurre ad alta voce dal latino a beneficio del pubblico presente.
Io, Ottavio Berry di Vizille, fisico e maestro d’arte medica nell’Università di Grenoble, esaminato il caso de li morti delle Thullies così come descrittomi dall’ecc.mo Ippolitus Berthe, giudice esecutore del rev.mo Prevosto di Oulx affermo che certissimamente dette morti debbesi imputare a velenifera ingestione di pane fatto con segale cornuta e certo non fisico, ma volgare medico o phlebotomator o barbitonsore sarebbe colui che affermasse che mancandosi i segni più comuni e manifesti del morbo dal quale il santo Antonio è chiamato a protezione s’abbia a ricercare altrove la causa di quanto occorso. È vero che nessun testimone riferisce di demenza e fissità nello sguardo delle vittime nei giorni che precedettero il nefasto evento, né puotesi riscontrare sui loro cadaveri manibus ed pedibus troncati o braccia e gambe color del carbone, così come leggersi nella Chronographia di Sigismondo di Gembloux, ma non sempre trattasi di ergotismus gangrenosus; chi lo crede mai ha letto ciò che Pietro d’Abano scrive a proposito della cornuis spicae, che manducata in forma di pane o di farina provoca accesi dolori al ventre non dissinili dal fuoco sacro che Sigismondo scorge nelle interiora dei suoi ardenti, ma senza nigricanza o caduta degli arti. La forma in cui il corpo si arrende alla malattia dipende dalla stagione e dal temperamento di ciascuno. Gli arti s’anneriscono e cadono quando il veleno della segale s’accompagna ad una abundantia di bile nera e ad una corruptio del sangue che scarseggiando lascia luogo agli altri umori. Ma, come Galeno ci spiega e come ognun sa, la bile nera è umore dell’inverno, mentre la stagione in cui siamo tempo d’umori chiari, di bile gialla e di sangue. E non era forse il sangue in gran copia sui cadaveri e sulle loro bocche? Ed altrettanto certo sono che le vittime fossero di temperamento sanguigno se persino l’ava, che per etate avrebbe dovuto esser pervasa di flegma, era, al pari degli altri, immersa in una rossa pozza. Di fronte a tanta cacocimia di prevalenza ematica, poteva dunque la cornuta segale prender la via scura e secca della bile nera e delle cancrene? O forse non le sarebbe stato più facile, com’ha fatto, l’imboccar la via umida del vomito e dell’emorragia? Chiedete a Montpellier, chiedete a Chartres, chiedete a San Gallo e ogni savio dottore, ogni fisico riconoscerà nei segni il passaggio della segale cornuta. Il veleno del cereale imputridito e divenuto immondo ha lasciato le sue tracce ovunque, e gli ovini morti ne fanno fede, ché, come Avicenna disse che le feci degli avvelenati da elleboro bianco uccidono le galline, noi qui affermiamo che le pecore, bestie che per la loro natura intima non disdegnano la coprofagia, nutrite agli escrementi degli umani affetti dal morbo ne sono morte esse stesse. Nulla di quanto è avvenuto alla Thullie è pertanto da imputarsi a mano d’uomo, bensì alla degenerazione maligna dell’alimento primo.
Il giudice Ippolitus Berthe socchiuse per un istante gli occhi, quasi avesse voluto armarli, così come si arma una balestra, di quegli strali che il giorno prima avevano colpito i suoi nemici. Li levò poi beffardi ad esplorare la disfatta altrui, ma nulla vide di ciò che s’attendeva. Leonardo Beaudia e Francesco Rostollan si sarebbero detti schierati in parata, orgogliosi, a petto gonfio, come se stessero per ricevere un encomio o un’onorificenza.
Cosa stava accadendo?
Ippolito avvertì la spiacevole sensazione di non riuscire a dominare gli eventi, di qualcosa che si lasciava osservare, ma non afferrare; quella stessa impressione d’impotenza che invade quando, sotto l’effetto di vini o di spiriti, s’ascoltano le parole fluire dalla propria bocca senza che la mente assuma su esse un preventivo dominio.
Cosa stava accadendo? Perdio! Perché in luogo di scoramento o di rabbia appariva su quei volti un sorriso vittorioso?
Sentì l’effimera natura del suo precedente successo: una borsa gonfia di monete false, di metallo corrotto. E la baldanza della sua giovane età lasciò il posto a quel timore e a quella cautela con le quali egli avrebbe dovuto temperarla fin da principio.
“Ed ora” esordì Ippolito senza tradire nella voce il suo turbamento “Folco Guy, è giunto il vostro turno di formulare le accuse. Volete ripetere davanti alla corte d’esser venuto a conoscenza certa che l’imputato Colombano Romean ha ucciso Isoardo Agnel, sua figlia Floretta, sua moglie Marta e la di lei madre Belletta di Morello Morelli, tramite” lesse “percussione causando magna sanguinis effusio dalla bocca delle vittime e allo stesso modo ha sterminato pecore, montoni e capre delle vittime?”
I balbettamenti del ricco fornaio furono un tonico per il giudice, così come lo fu lo smarrimento evidente della gente che lo contornava, di Costante del mulino, di Aimerico, di Martino e di molti altri.
“Qualcuno m’aveva detto che... qualcuno aveva visto Colombano... ma adesso che il dottore dice quelle cose...”
Era una pena sentirlo e molti pensarono che se Folco avesse avuto un eloquio e una saggezza anche minimamente commisurati ai suoi averi, in quel momento non si sarebbe trovato in acque così torbide. La gogna che di fuori stava tormentando ed umiliando il cognato mentitore era pronta ad accogliere anche lui e quanti lo avevano seguito nell’accusare lo scalpellino.
Il popolo presente sentì in quell’aria di berlina un anticipo di carnevale, con ricchi beffeggiati e irrisi e i villani a guidare le danze; Folco nella polvere e Gaudenzio lo storpio in vesti porporine di panno pregiato di Lione, e sopra a tutti, principe e custode di quel paese di cuccagna, lui, Ippolito. Subitamente la sala fu pervasa d’un’euforia appena macchiata, a tratti, dalle facce scure di quanti, da accusatori, si sentivano di necessità mutati in bersaglio: l’imminenza d’un carnevale del mondo capovolto fece perfino dimenticare il desiderio dell’altro carnevale, quello dell’impiccagione...»


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