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luglio / agosto/2001 - Interviste
Premio Franco Fedeli
Come è cambiato il “Giallo” italiano
di

Riportiamo il testo dell’intervento che il professor Giuseppe Petronio (storico della letteratura italiana) ha svolto nel corso della premiazione per il “Premio Franco Fedeli”

Ringrazio gli organizzatori di questa manifestazione per avermi invitato. A me è riservato un compito che è facile e difficile perché tante cose che volevo dire sono state qui già dette. E questo facilita ma mi rende più difficoltoso il trovare argomenti che non siano già stati esposti. Io, per far questo, vorrei partire da una immagine che è stata già ricordata da Loriano Macchiavelli. Qualche anno fa io ho realizzato una videocassetta sul giallo, intitolata “Il giallo a scuola”, come mezzo per introdurre, come credo che sia necessario, la lettura del giallo nelle scuole, per abituare i ragazzi, che oggi lo fanno poco, a leggere; perché se cominciano a leggere dei gialli, leggono con più piacere naturalmente e se l’insegnante intelligentemente li educa a leggere il giallo, possono poi appassionarsi alla lettura di genere diverso. In questa videocassetta, appariva, con me, un altro critico, Renzo Cremante, che tra i docenti universitari italiani è uno di quelli che più ha contribuito a chiarire, a spiegare seriamente, senza pregiudizi, il giallo; e poi c’erano dei giallisti che rappresentavano scuole diverse. Loriano Macchiavelli con tutta la sua scuola e il suo genere; c’era poi Cristina Giuliana Iaschi autrice invece di un altro tipo di romanzo giallo, quello psicologico, attento alle piccole cose, alle sfumature. Tutta questa videocassetta si regge su un’immagine: per un secolo, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, il giallo è uno sgabello a tre gambe, come quelli del pianoforte. E le tre gambe sono i tre elementi fondamentali perché si possa parlare tecnicamente di un romanzo poliziesco: ci vuole un delitto; ci deve essere un detective, o meglio ancora ci deve essere un’indagine, vale a dire la ricerca del colpevole che è sconosciuto; e ci vuole poi la detection come si dice all’americana o all’inglese, cioè la scoperta del delitto. Questi tre elementi possono essere di vari “modelli”: quello di Conan-Doyle, quello di Agatha Christie (prima con Poirot, poi con miss Marple); quello di Simenon e quello di Chandler. I modelli cambiano però lo schema generale del romanzo poliziesco, o giallo come diciamo noi italiani, resta sempre quello. Il cambiamento invece avviene negli anni Cinquanta: ci sono due romanzi, due serie di romanzi, i quali mutano radicalmente la struttura del giallo. C’è “Quel pasticciaccio brutto di via Merulana” di Gadda e c’è un romanzo di Dürremmatt, uno svizzero, grandissimo autore di tanti romanzi polizieschi ma soprattutto uno “La promessa”, che ha come sottotitolo “Un requiem per il romanzo poliziesco”. In tutti e due, in Gadda che aveva cominciato a pensare a un romanzo giallo già nel ’29 e in Dürremmatt, che non è solo un romanziere giallo, ma un filosofo e un drammaturgo, è quasi il più grande scrittore svizzero, del Novecento, c’è un’idea comune, che il commissario Ïngravallo, cioè il detective di Gadda, esprime molto chiaramente. Non si può scoprire un delitto, o è difficilissimo, perché a produrre un’azione, un fatto non è mai una causa ma è un “gomitolo” di cause. Ci sono mille e mille cause che concorrono a produrre questo fatto. E allora scoprirlo è difficilissimo. Una cosa simile, dice Dürremmatt, quando ne “La promessa”, immagina da principio un colloquio tra uno scrittore di gialli e un poliziotto, e il poliziotto spiega allo scrittore di gialli che lui e tutti gli scrittori di gialli dicono delle sciocchezze, perché, immaginano un delitto compiuto razionalmente e risolto razionalmente. E invece nella realtà questo non succede. Nella realtà non regna la razionalità, la logica. Regna, dice quel poliziotto, il caso. E allora se un delitto è compiuto quasi a caso, nonostante tutta la buona volontà di compierlo razionalmente, nessun uomo può andarlo a scoprire. Ed ecco allora il romanzo giallo. È da lì che avviene la rivoluzione strutturale del romanzo giallo perché lo sgabello a tre gambe perde una gamba. Il romanzo poliziesco non può più terminare, secondo Gadda e secondo Dürremmatt, con la scoperta del colpevole, in quanto essendoci o il “gomitolo” o il caso, come motore dei fatti umani, non può succedere più che si arrivi a qualcosa. Lo sgabello ha rotto le gambe. Infatti nella nostra videocassetta di cui ho accennato, abilmente la regista, prima presentava uno sgabello a tre gambe che si reggeva e poi aveva tagliato una gamba dello sgabello e lo sgabello era sbiego. Per reggersi all’impiedi la regista aveva trovato la bella soluzione: metterci un mucchio di romanzi gialli su cui poggiarlo. Questo cambia tutto. E allora viene da noi un autore, che apre veramente la strada al nuovo romanzo anche in Italia, che è “Il giorno della civetta” di Sciascia. Sciascia scrive all’editore Einaudi “questo mio romanzo ha la struttura del romanzo giallo però c’è un capitano dei carabinieri il quale ha scoperto lui, razionalmente, un delitto ma non riesce a dimostrare la colpevolezza del reo perché è avvenuto un fatto enorme: la collusione netta, precisa tra la delinquenza, la mafia e le autorità politiche. Cioè è una ragione non più filosofica, logica come quella di Gadda o come quella di Dürremmatt, ma una ragione sociale, politico-sociale. Un cambiamento è avvenuto nella società italiana per cui la mafia si è legata ormai con quello che dal ‘68 in poi siamo abituati a chiamare il potere, si è abituata a colludere con il potere. Da qui nasce tutta la trasformazione strutturale del romanzo giallo, perché deve avere una conclusione o non deve averla, ovvero deve presentare una indagine interrotta, perché a un certo momento interviene il Ministero e chiude l’indagine; oppure può avere mille soluzioni. È dagli anni ’60 in poi, o se volete dal ’50 in poi se pensiamo a Gadda o se pensiamo a Sciascia, che in Italia, come in tutto il mondo, cambia la struttura del giallo, il romanzo per eccellenza. Perché ormai il giallo non è più il giallo. Il giallo di Mondadori, il giallo di Agatha Christie, non è più il giallo, cioè non è più il delitto. Prima c’erano tanti sottogeneri del romanzo poliziesco: c’era il thriller, c’era quello dove già si sa chi è il colpevole, dove non è l’attesa della scoperta ma quella dell’arresto del colpevole. Oggi tutti questi sottogeneri sono racchiusi in uno solo che è il mistery. Tant’è vero che sto pensando a un saggio che vorrei scrivere, rubando o parafrasando il titolo a un bellissimo film di Sergio Leone, che diceva “C’era una volta il West”, io vorrei dire “C’era una volta il giallo”. Cioè il vecchio giallo è morto. Ma siccome niente muore tutto si trasforma: il vecchio giallo era fatto in quel modo, perché corrispondeva a una società e quindi a una mentalità dove il delitto era qualche cosa che offendeva la società e questa, ferita, doveva essere risarcita e veniva il poliziotto che con la ragione, con l’indagine, con la scienza, effettuava questo risarcimento; oggi siamo arrivati ad un’altra società, la quale è cosciente del suo disagio, del male che c’è in essa. Noi sappiamo tutte queste cose, ne siamo afflitti, siamo tutti malinconici, tristi per questo, ma non riusciamo a trovare rimedio per risarcire il male, la ferita non si può più sanare. E allora ci sono questi malinconici poliziotti contemporanei. Specialmente quelli che si vedono in televisione. Quelli che uniscono sempre il privato col pubblico, che sono tutti mezzi cornuti, traditi dalle mogli, traditi dalle amanti, hanno figli piccoli che debbono curare, hanno mille pasticci familiari che si portan sempre dietro, anche quando lavorano. Quando domando agli amici della Polizia di Stato, a quelli che conosco: “Ma voi veramente vi portate nel vostro lavoro tutti questi vostri patimenti, tutte queste vostre lacrime famigliari?” Essi mi rispondono: “No! Come potrebbe essere altrimenti? Non saremmo più in grado di svolgere il nostro lavoro, di indagare, di compiere insomma, il nostro dovere”.
Questo mio incontro con voi forse è servito a chiarire meglio le cose sul romanzo poliziesco. Io finora ho partecipato a tanti convegni, ne ho organizzati anch’io tanti, nei quali trovavo critici e scrittori di gialli, e allora il discorso era a due voci. C’erano gli scrittori, che come avete fatto voi oggi, dicevano i motivi per i quali avevano scritto i loro romanzi, come li avevano scritti, quale “ricetta” avevano seguito. Poi c’erano i critici, come me, che diventano un po’ come i medici i quali cercano di guardare le cose con un altro occhio, che è quello di chi legge un romanzo giallo (ne ho letti a centinaia, migliaia forse, ne ho una casa piena, in tutte le lingue); quando uno legge un romanzo giallo prima se lo legge, si siede in poltrona in pantofole e lo legge tranquillo, gustandoselo se merita o arrabbiandosi se non merita. Poi si pone una serie di domande: questa storia può essere veridica? È raccontata logicamente o è raccontata illogicamente? Cioè, ha saputo lo scrittore inventare una storia che tiene o no? E poi: ha trovato una figura di poliziotto e di delinquente che siano più o meno veridiche o non voleva farle veridiche? È partito per la tangente o voleva rappresentare un mondo reale e non c’è riuscito? E che linguaggio ha scelto e perché ha scelto questo linguaggio? E quindi con quale etichetta lo posso classificare? Queste sono le domande che ci poniamo come il medico che vede il malato, lo osculta, prescrive le analisi e poi fa la sua diagnosi: questo è il suo compito. Oggi invece mi è apparsa una nuova figura, interessantissima, che è quella di chi professionalmente si trova ad essere uno degli eroi del romanzo giallo; perché questo Premio non è come tanti altri ai quali ho partecipato e partecipo continuamente, dove siamo dei critici che giudichiamo; qui a giudicare c’erano i critici, c’erano anche dei lettori comuni, ma c’erano i poliziotti. Allora i poliziotti come si pongono quando leggono un romanzo giallo? Questa per me è stata una circostanza esaltante. Io ho letto i cinque lavori presentati al Premio. Ho fatto la mia diagnosi e sono curioso di vedere come invece voi poliziotti, che siete stati la maggioranza o quasi a mettere insieme questa cinquina, come avete scelto il vostro romanzo ideale, o per lo meno quello che a maggioranza è stato ritenuto più degno. Voi avete con questa vostra cinquina convalidato, quel che dicevamo noi critici, cioè lettori diciamo specializzati: voi avete messo insieme cinque libri che sono diversissimi l’uno dall’altro, avete praticamente convalidto la nostra tesi che oggi non esiste più un giallo unico, come nei primi venti anni del secolo con piccole differenze tra l’uno e l’altro scrittore, qualcuna forse anche grossa però c’era una maniera di pensare comune. Voi avete messo insieme dei modelli diversi che però hanno in comune qualche cosa. Ed è quello che io definirei, con un vocabolo a cui alcuni di voi hanno anche alluso oggi: il romanzo contenitore. Oggi il romanzo, specialmente il romanzo giallo o poliziesco o mistery, è un contenitore in cui ci si mette un po’ di tutto. Perché? Perché questo è reso necessario dalla nostra società di massa. La nostra società di massa non è omogenea, ha tanti gruppi di lettori e lo scrittore che ha l’orecchio attento al suo pubblico, deve tenere conto di ciò. Ci vuole del sentimentalismo, forse anche un po’ di erotismo, ci vuole l’intreccio, ci vogliono tante, tante cose che ormai, un po’ per istinto, un po’ per riflessione, un po’ per studio conoscete tutti. Naturalmente qualche volta le ciambelle riescono col buco, qualche volta no. Qualche volta la combinazione va bene, è tutto ben dosato, qualche volta è mal dosato e allora il libro non va. Ma qualche volta poi qualcuno arriva a mettere anche, in questo polpettone o in questa combinazione, qualche tocco suo personale e allora scrive il libro che potrà forse restare nella storia del romanzo giallo. Io la mia scelta l’ho fatta: sentiremo ora dal presidente della giuria se essa coincide con la vostra.

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