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giugno/2001 - Interviste
Osservatorio sulla Criminalità Economica
La nobile arte del riciclaggio
di Belphagor

È una sigla che pochi conoscono, una di quelle che bisogna imparare a memoria e poi ricordare che cosa significhi: Gafi, Gruppo di azione finanziaria sul riciclaggio di capitali. Un’istituzione importante, della quale fanno parte 29 Paesi: tutti quelli dell’Unione Europea, e altri tra cui gli Stati Uniti, il Canada, il Messico, la Turchia, il Giappone, la Nuova Zelanda, il Consiglio di cooperazione del Golfo. Scopo del Gafi, come dice il suo nome una volta decrittato, è denunciare i luoghi e le forme del lavaggio di denaro provenienti da varie fonti: evasione fiscale, traffici di droga, armi, esseri umani, attività criminali di vario tipo che vanno dal racket al contrabbando, alla falsificazione di valuta o di prodotti. Una quantità enorme di dollari, sterline, lire, marchi, franchi, yen, che una volta riciclati tornano sul mercato sotto forma di investimenti attraverso un sapiente giro di società offshore, domiciliate nei vari “paradisi” finanziari, società-scatola nate per rendere difficile il controllo sull’origine di quei capitali. Tutto questo, ovviamente, crea delle situazioni distorte, avvelena per così dire le regole della libera concorrenza, e consente a determinati gruppi, o individui, di disporre di fondi “facili” per condurre in posizione di egemonia operazioni finanziarie, economiche, imprenditoriali, politiche, fino alle guerre cosiddette locali e al terrorismo.
E il Gafi che cosa fa? Sia pure con le migliori intenzioni, non è in grado fare molto di più che indagare e rendere pubblici, ogni anno, i risultati delle sue indagini. Dei rapporti ben documentati e argomentati, ai quali si accompagnano giudizi e indicazioni che spesso finiscono col restare sulla carta. Comunque, nel suo rapporto 2000-2001 il Gafi indica i principali nodi da affrontare nell’azione di contrasto del riciclaggio, cominciando da quelle istituzioni che sono, da secoli, la spina dorsale del sistema-uomo: la banche. Certo, non è da oggi che negli istituti di credito circola con il denaro pulito quello sporco che più sporco non si può, ma le benemerite nuove tecnologie hanno reso il problema più difficile, o più facile a seconda del punto di vista. In effetti, con i pagamenti on line, ormai largamente diffusi, il rapporto tra la banca e il cliente può divenire puramente virtuale. Sia quando la banca ha conosciuto fisicamente la persona che ha aperto un conto, che in seguito però viene gestito telematicamente, sia nel caso che tutta l’operazione si sia svolta in rete. E la questione si fa maggiormente complessa passando ai servizi bancari transnazionali on line che operano da Paesi e territori a “regime libero”, come, ad esempio, le Isole Cayman, o Nauru, atollo dell’Oceania indipendente dal 1968, 11.000 abitanti e 550 banche. In questi casi non è solo arduo il controllo delle operazioni finanziarie, ammettendo che si abbiano i mezzi di indagine idonei – mezzi di cui il Gafi non dispone -, ma neppure si sa quale legislazione dovrebbe essere applicata, e da chi.
Del resto, Internet – sottolinea il rapporto del Gafi – si presta ad altre forme di riciclaggio, attraverso la fatturazione on line, che può essere autentica o falsa, il pagamento con carte di credito, la creazione di attività economiche sparse in diversi Paesi (a Nauru, per tornare al nostro atollo, si contano 3000 società delle quali non è possibile, né permesso, individuare i titolari), il tutto all’insegna di una “globalizzazione” che non sempre permette di separare il grano dal loglio. Anzi, ad essere seriamente sospettati di prestarsi ad attività di riciclaggio su scala internazionale sono anche i trust, nei quali (come nelle società in accomandita) il proprietario o il beneficiario non figura, e, dice il rapporto, “questo procedimento è tanto più efficace inquanto si svolge in un certo numero di Paesi, e con il tramite di giuristi che possono rivendicare un qualsiasi tipo di segreto professionale”.
Certo, perché in qualsiasi operazione di riciclaggio la figura dell’intermediario professionalmente qualificato – e sostanziosamente remunerato – è essenziale: avvocati, notai, esperti dei meccanismi giuridici e finanziari su scala internazionale, impostano e curano la messa in atto di quelle strutture, bancarie e societarie, indispensabili per dare una nuova identità, attraverso accorti passaggi, al denaro di cui si vuole nascondere l’origine. Si può persino supporre che a volte questi professionisti operino in buona fede, senza sapere chi siano veramente i loro clienti.
Dando per assodata la continua crescita di questa “economia sotterranea” – che in realtà alla fine emerge alla luce del sole indossando una nuova veste – il Gafi rileva la persistenza nelle operazioni di riciclaggio della pratica del trasferimento di fondi sotto forma di contanti: insomma, la famosa valigia piena di biglietti di banca, che passa da una mano all’altra e attraversa le frontiere a bordo di un aereo privato, di un motoscafo, o più semplicemente in treno. È vero che i controlli messi in atto nei Paesi membri del Gruppo di azione finanziaria per quanto riguarda i depositi di denaro contante sono diventati severi, e in buona misura efficaci, e questo ha reso possibile un aumento delle Dichiarazioni di operazioni sospette (Dos) in questi Paesi, ma al di fuori della zona del Gafi il denaro “sporco” può circolare con relativa facilità. Si deve ritenere però che questo metodo – che potremmo definire artigianale -, pur se pratico in determinate situazioni, è stato largamente soppiantato dalle operazioni “virtuali”, dai trasferimenti di fondi per via telematica. “È il progresso, baby!”.


Denaro sporco: pericolo globale

I capitali provenienti dalla criminalità organizzata non sono un elemento marginale dell’economia mondiale, ma una delle componenti del sistema economico-finanziario globale: lo dimostra, con l’appoggio di precisa documentazione, Philippe Broyer, uno dei maggiori esperti in questo campo, nel suo libro “L’argent sale” (Il denaro sporco), Ed. L’Harmattan. Broyer traccia un quadro impressionante ma veritiero dei grandi affari del riciclaggio, che coinvolgono, collegandoli alle organizzazioni criminali, sistemi finanziari e bancari, esperti giuridici ed economici; e mette in evidenza gli effetti geopolitici dell’intervento di questi capitali. Per quanto riguarda la lotta alla criminalità economica, se ne deve ancora rilevare spesso la scarsa efficacia, anche, in alcuni casi, per mancanza di volontà politica: “Si deve constatare l’attuale insuccesso della lotta contro il riciclaggio. I dispositivi realizzati per iniziativa dei Paesi occidentali si rivelano inadatti alla complessità che caratterizza sia il sistema finanziario ed economico globale, sia il sotto-sistema costituito dal riciclaggio. Il riciclaggio è ormai integrato dal sistema globale, che è irrigato in permanenza da flussi di capitali/informazioni… Vi sono due questioni essenziali, quella della sovranità degli Stati, e quella del segreto finanziario, che sono al centro delle contraddizioni che la comunità internazionale non riesce a superare”.


Iva europea: frodi e controlli

Il regime transitorio dell’Imposta Valore Aggiunto intracomunitario, in vigore dal 1° gennaio 1993, ha portato a un aumento della frode fiscale in tutti i Paesi europei: questo perché, malgrado le raccomandazioni della Commissione Europea, è mancata nel frattempo un’armonizzazione delle aliquote Iva dei diversi Paesi che avrebbe consentito dei sistemi di controllo unificati ed efficienti. Nel suo rapporto del 28 gennaio 2000, la Commissione sottolineava l’incapacità degli Stati membri ad affrontare i problemi fiscali posti dagli scambi intereuropei, e nello stesso tempo la loro resistenza ad accettare l’unificazione dell’imposta e dei controlli. Attualmente l’ammontare annuale dell’Iva riscossa nell’Ue è di 515 miliardi di euro, per un totale di 100 milioni di dichiarazioni. La Commissione calcola, sulla base di dati della Corte Europea dei Conti, che la frode all’Iva sia di 100 miliardi di euro. Su 24 milioni di soggetti all’Iva, il numero dei controlli è inferiore a 600.000, il che porta la probabilità di essere controllato a una volta ogni 40 anni. In Europa, l’Iva va dal 15% in Lussemburgo, al 16% in Germania e Spagna, 17,5% in Gran Bretagna e Olanda, 19,6% in Francia, 20% in Italia e Austria, 21% in Belgio e Irlanda, 25 in Svezia e Danimarca.

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