In un libro di piacevolissima lettura, il noto penalista Luciano Revel ripercorre la storia dei suoi cinque lustri di professione forense iniziata nell’estate del 1946
“Il Tribunale è un teatrino, la Giustizia una commedia e io ho interpretato un personaggio a volte drammatico, a volte squallido, sempre brutto. Dedico questo libro a tutti coloro che mi hanno insegnato qualcosa. E sono tanti”.
Così la dedica che l’avvocato Luciano Revel pone al suo gradevolissimo libretto dal titolo quanto mai singolare: “Leoni vegetariani, pecore inferocite, angeli senza ali”.
Si tratta di ricordi, narrati in maniera oltremodo sapida ma qualche volta anche drammatica, di un avvocato (oggi giunto alla soglia degli ottant’anni) che ha iniziato la sua rimarchevole carriera nell’estate del 1946. Cinquanta anni di professione, mezzo secolo di cause nel Palazzo di Giustizia (il “Palazzaccio”, prima; il nuovo edificio di piazzale Clodio poi).
E a proposito del “Palazzaccio”, ecco una sferzante pagina di Revel: “Il Casellario era collocato nel vecchio Palazzo di Giustizia, il Palazzaccio di piazza Cavour, opera del Calderini che aveva risposto con il suicidio alle critiche ricevute per una costruzione che si ritenne brutta e inadeguata. Mi chiedo ora cosa dovrebbero fare i progettisti, gli architetti, gli ingegneri e gli esecutori di quegli orrori costruiti a piazzale Clodio. Senza finestre e quindi senza poter ricevere la luce di Monte Mario, mura grattate a stalla, selciato sconnesso. Una punizione per i magistrati, avvocati, funzionari. Freud ne avrebbe tratto le ovvie conclusioni. Ogni riattamento successivo è stato come mettere il rossetto a un mostro.”
Le pagine di revel possono costituire, senza ombra di dubbio, motivo di riflessione, di interrogativi, di inquietudini e, nello stesso tempo, fonte feconda di stimolo, di coraggio e di un civile sentire per chi guarda all’avvocatura e pensi di indossare la toga con il proposito di farne degna ed onesta ragione della propria vita. Si potrà obiettare che questo volumetto di Revel non dovrebbe essere consigliato ai giovani perché essi potrebbero essere spaventati da talune pagine vagamente dissacranti e dalla impietosa rappresentazione di ciò che può essere la “giustizia”. Ma chi nel libro non sapesse cogliere altro senso che questo, non lo avrebbe compreso (come giustamente sostiene l’avvocato Francesco Coppi nella sua prefazione); se, invece, si spaventa e non diventerà avvocato o magistrato, poco male.
Sotto il velo dell’ironia e dell’autoironia, sotto la desolata constatazione delle miserie della giustizia, si coglie tuttavia il palpitante amore per una professione - quella dell’avvocato - che, come poche altre, pone l’uomo in toga a contatto con altri suoi simili e lo rende protagonista ed interprete dell’eterno conflitto esistenziale tra il bene e il male, tra libertà, autonomia, arbitrio, egoismo e volontà di indipendenza assoluta del singolo e le esigenze della collettività, la necessità dell’ordine, il governo della legge.
Non è certo per caso che l’autore cita nel suo discorso in occasione della cerimonia per i cinquanta anni di toga (riportato nel libro), le parole con le quali Enrico De Nicola chiedeva di essere nuovamente iscritto all’Albo degli avvocati dopo aver compiuto il mandato di Capo provvisorio dello Stato.
Ecco ancora una pagina di grande interesse ed umanità.
Accadde all’autore (moltissimi anni addietro) di assistere in Corte d’Appello ad una scena che, al momento, gli apparve solo buffa ma che in seguito la ritenne degna di attenzione; allora la Corte d’Appello era composta da cinque magistrati: un presidente e quattro consiglieri. Stava discutendo un giovane avvocato molto bravo. Ad un tratto il presidente, con un gesto, fermò il difensore e, rivolto ai componenti della Corte, disse testualmente: “Se i signori consiglieri che siedono alla mia destra, anziché parlottare fra loro, facessero come i consiglieri alla mia sinistra che dormono, non mi impedirebbero di ascoltare il difensore”.
Episodi come questo ce ne sono tanti nel libro di Revel. Ma come già accennato, non soltanto esilaranti. Ecco un’ultima citazione (non ne faremo altre per non privare il lettore di gustare appieno le pagine di Revel): “Le Mantellate, così si chiamava il Carcere femminile, erano situate dietro Regina Coeli. Un tempo convento di suore, dopo il 1870 venne destinato a reclusorio. c’era sulla porta un pulsante al centro di un disco di maiolica bianca. Veniva ad aprire una suora curva e scontrosa. La stanza dei colloqui era a pianoterra. Il solito odore di minestrone, il freddo pungente d’inverno, il caldo soffocante d’estate. Una cosa che mi è rimasta nella mente è il costante riferimento delle detenute che ho difeso, ladre, prostitute e un gran numero di omicide, alla Madonna. Non cercavano Dio, Padre o Figlio, Invocavano, credevano, speravano solo nella Madonna. Nessun Santo era raffigurato nei corridoi, in infermeria, nelle celle che mi fu dato di vedere. Solo la Madre di Dio. Forse perché Dio è giusto e quindi temibile e la Madonna comprensiva, misericordiosa, sofferente. Forse perché Dio è Uomo e la Madonna è madre. O forse, non ho capito il perché. Una volta una anziana prostituta ricoverata in infermeria mi disse: ‘Tu c’hai ancora tu’ madre?’. Esitai a rispondere di sì. Quasi un pudore a far entrare in quel luogo la figura di mia madre. ‘Beato te. Quanno sarà morta saranno cazzi tuoi’. Guardai quella povera creatura e sentii l’impulso di abbracciarla. Lei mi fissò negli occhi e comprese. Mia madre mi lasciò circa trenta anni dopo questo episodio. Nel quardarla per l’ultima volta mi ricordai quel mattino alle Mantellate. Cominciavo a capire”.
Il libro di Luciano Revel non è in vendita. Chi volesse leggerlo può richiederlo gratuitamente scrivendo all’autore: Luciano Revel - Via degli Scipioni, 268/A - 00192 Roma.
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