Giuseppe Neri, nel suo ultimo libro, inventa uno scrittore in piena crisi esistenziale, costretto a fare un triste bilancio della sua vita
Bolero è il titolo dell’ultimo libro di Giuseppe Neri, uno scrittore raffinato che ha già pubblicato un romanzo, L’Uccello di Chagall nel 1983, un’inchiesta giornalistica Verso il terzo Millennio nel 1987, il libro di racconti L’ultima dogana nel 1990.
Neri, che ha esordito giovanissimo sulle pagine del Mondo di Mario Pannunzio, racconta la vicenda di uno scrittore affermato che entra in crisi dopo aver visto franare inesorabilmente intorno a se tutti gli ideali in cui aveva creduto. La crisi letteraria che attraversa il personaggio, è bene precisarlo non coincide con quella di Giuseppe Neri, finisce per essere la crisi esistenziale dello stesso: “Volevamo cambiare il mondo e non ci accorgevamo che il mondo stava cambiando senza di noi, contro di noi”confessa il protagonista a Elisa, la donna che gli sta accanto nella stagione del disagio, nell’epoca del disincanto. La colonna sonora che scandisce la crisi è il Bolero di Ravel che segna l’inizio dell’afasia di Bruzio (questo il nome dello scrittore). Il Bolero cessa di essere la musica gradevole e lieta dell’oboe, la melodia serena del flauto traverso e diventa una frenesia di note ipnotizzanti, assillanti, incantatorie e ossessive. La musica, che dovrebbe alleviare il dolore, diventa invece una spina lancinante nella mente di Ettore Bruzio e spinge lo scrittore a fare impietosi bilanci: non riesce più a credere in ciò in cui aveva creduto da ragazzo, si sente, ormai vecchio, estraneo a quello che ha fatto da giovane. Alle sue spalle solo macerie: l’adolescenza e l’educazione sentimentale consumata in provincia, i fatti di Ungheria del ’56, la morte della moglie.
La narrazione della storia è articolata su due tempi: quello del presente, che è il tempo in cui si svolge la vicenda, e quello del passato che è il tempo dei ricordi cui torna di tanto in tanto Bruzio. Un va e vieni tra presente e passato sapientemente costruito, un flashback della memoria che si inserisce sulla lineare andatura del presente e che ricorda il cinema di Michelangelo Antonioni. Ne deriva una narrazione volutamente sincopata, che quasi procede a singhiozzi richiamando il ritmo ossessivo del bolero. Una delle pagine più belle è quella in cui Ettore, dialogando con Elisa, confessa alla donna di non tornare volentieri nei luoghi delle proprie origini: “…non ritorno spesso e neppure con piacere nei luoghi delle mie origini. No, non è un rifiuto delle radici. E come si potrebbe vivere e scrivere senza la coscienza delle proprie radici? Eppure, ogni volta che scendo laggiù, sono preso da una smania, da un’impazienza, da una malinconia cupa che mi spingono a ripartire in fretta, a compiere insomma delle vere e proprie fughe, di cui poi mi vergogno. Il fatto è che l’immagine che ti porti dentro coincide sempre meno con la realtà dei luoghi, delle cose… Ma c’è anche un’altra ragione che mi trattiene dal ritornare laggiù, nel paese delle cave…ed è che a ogni nuovo ritorno manca sempre qualcuno all’appello. L’elenco delle assenze si allunga implacabilmente: e un paese ti appartiene per le facce che ci incontri, per gli uomini che lo camminano, e sparendo quelle facce e quegli uomini anche i luoghi ti si sottraggono, ti diventano estranei”.
La narrazione di Bolero, rispetto allo sperimentalismo espressionistico de L’Uccello di Chagall e dei racconti dell’Ultima Dogana, è più fluida, più distesa, con un intreccio più articolato. Le tecniche stilistiche che ricorrono maggiormente sono quella dell’allitterazione e quella dell’accumulo.
Bolero insomma è il racconto di un’esistenza, quella di Bruzio, paradigmatica di una generazione: quella di chi, disilluso molto presto da eventi come la guerra e la resistenza, non ha rinunciato alla speranza di un futuro migliore: “Appartengo a una generazione - dice a un certo punto Bruzio - che pur diventando adulta molto presto, svezzata per tempo da eventi come la guerra e la resistenza, coltivò a lungo speranze e illusioni, si nutrì di grandi ideali e anche lo scrivere fu un atto di fiducia nell’avvenire. Certo c’era del candore o…dell’incoscienza in questo bisogno di futuro. Ma per noi che eravamo defraudati del passato e il presente si presentava ispido d’incertezze e minato dalla precarietà, l’investimento sulla speranza, sottraendoci all’angoscia, dilazionava i nostri desideri, procrastinava le nostre aspettative e ci aiutava a vivere. Credevamo che il mondo lo si potesse cambiare anche con un romanzo o una poesia e molti di noi concepivano, allora, la letteratura come un’arma e non come un fatto estetico. Sbagliavamo? Certo che sbagliavamo ma a quell’epoca eravamo tutti contagiati dalla febbre dell'entusiasmo, da una ingenua fiducia nell’utopia. Usciti dal tunnel avevamo il diritto di credere, come uomini e come aspiranti scrittori, in un’alba di resurrezione”.
La delusione, il disincanto di Bruzio non corrisponde al disincanto di un bel personaggio che una lettura attenta del romanzo restituisce al lettore: quello di Saverio, il filosofo ciabattino che non si rassegna neppure davanti all’evidenza: “Del filosofo possedeva, per innata attitudine, la sottigliezza del ragionamento, la perspicacia e la lucidità dell’argomentare. Indossava con eleganza camicie arabescate di rattoppi e pantaloni incotechiti dall’uso… Ragazzo all’alba del secolo, aveva sentito parlare, chissà mai attraverso quali canali, di socialismo umanitario e di un uomo tozzo e irsuto come un orso, un certo Filippo Turati e della sua avventurosa compagna russa, aveva sentito parlare di certe idee strane, stravaganti, che facevano sghignazzare i galantuomini del circolo, aveva sentito parlare di sfruttamento e di riscatto, di uguaglianza e del sole dell'avvenire... Ci aveva creduto fino alla fine, Saverio, nel sogno di quell’utopia, bello e misterioso come un ippogrifo e quella chimera gli era servita a vivere con intransigenza e a sopportare con dignità la lunga povertà della sua vita. Neppure certi eventi dolorosi della storia erano riusciti a scalfire le sue speranze, a strinare le sue aspettative. E come avrebbero potuto? Se si fosse lasciato prendere dal dubbio, con quali certezze avrebbe riempito quel vuoto? E che sarebbe stato della sua esistenza, se avesse dovuto ammettere che quel sole si era eclissato? E cosa avrebbe detto ai galantuomini del circolo, che erano stati crispini e poi fascisti e poi democristiani, sempre coerenti nel loro trasformismo, cosa gli avrebbe urlato durante quelle accese, violente discussioni che spesso si trasformavano in veri e propri alterchi, che cosa gli avrebbe gridato: “Si, avete ragione voi, il dio ha fallito?”
N. F.
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