Sono quelli di cui si parla in un libro scritto da un chirurgo impegnato, con altri colleghi, sul fronte delle guerre in Medio Oriente
Arriva quando tutti scappano, cerca di restituire dignità ai corpi di adulti e bambini sfigurati dalle guerre, piccole e grandi, conosciute e sconosciute. Riattacca gli arti e ricuce le pance di quegli uomini e di quelle donne che, dopo i conflitti armati, saltano sulle mine antiuomo disseminate in posti imprevedibili. Cerca di riportare la vita dove regna la morte. Si chiama Gino Strada, professione chirurgo, chirurgo di guerra per l’esattezza. Un mestiere insolito che ti costringe non solo a fare i conti con realtà terribili ma che ogni volta che stai per ricreare artificialmente mani o piedi spappolati ti mette alla prova. Ogni volta, ogni intervento, ogni operazione, ogni ricucitura è una nuova sfida e accettarla vuol dire non solo misurarsi con le difficoltà ma, ogni volta, cercare di vincerla, la sfida. Gino Strada di sfide ne ha accettate molte e ne ha vinte altrettante.
Alcune ha deciso di raccontarle in un libro, Pappagalli Verdi, Cronache di un chirurgo di guerra, (Universale Economica Feltrinelli, lire 11.000).
Un libro appassionato e appassionante di una persona che ha fatto una scelta di vita: fare qualcosa di utile in luoghi di disperazione: le zone delle guerre mediorientali. Un libro che raccoglie storie terribili di bambini mutilati e storie straordinarie di uomini che, con mezzi quasi inesistenti, fanno del loro meglio per rendere meno difficile la vita a chi dalla guerra è stato sfigurato. Sono le mine antiuomo, definite poco realisticamente “mine giocattolo” e studiate appositamente per mutilare i bambini, la causa di tanto orrore. Vengono chiamate dai vecchi afgani “pappagalli verdi”: hanno un corpo che non supera i dieci centimetri, due ali con al centro un piccolo cilindro. Sembrano farfalle più che pappagalli. Gli elicotteri, passando a bassa quota sui villaggi, ne lasciano cadere migliaia. “Per i contadini del Pakistan - racconta Strada - i pappagalli simboleggiano la violenza dei militari, hanno lo stesso colore delle loro uniformi. Arrivano, si prendono il raccolto… e se ne vanno via”. La forma della mina, con due ali laterali, serve a farla volteggiare meglio. Quando vengono lanciate dagli elicotteri non cadono a picco. Si comportano come i volantini di carta che ondeggiano, sparpagliandosi qua e là su un territorio molto vasto. La mina non scoppia subito, spesso non si attiva se la si calpesta. Funziona, come sta scritto sui manuali, per accumulo successivo di pressione. Bisogna prenderla, maneggiarla ripetutamente, schiacciarne le ali. Chi la raccoglie, insomma, non muore subito. Non sapendo cos’è può portarla a casa, mostrarla nel cortile agli amici incuriositi. Poi esploderà. E qualcuno perderà mani o piedi.
Le condizioni in cui si trovano ad operare i medici di Emergency sono estreme e spesso il dramma del chirurgo non è solo quello di una persona che deve aggiustare corpi ma è anche quello di una persona che deve scegliere, davanti ad una schiera di feriti, chi portare per primo in sala operatoria. Ben sapendo che l’attesa, per quelli che rimangono fuori, potrebbe essere fatale. “Lì, in un ospedale da campo - scive Gino Strada - non scegli consultando una lista di nomi o di numeri sul computer, lì ti trovi davanti a tante facce sofferenti, a gente che piange o implora, e che ti guarda fisso mentre con il pennarello gli scrivi sul braccio un ‘due’ che nel nostro gergo significa: ‘deve aspettare’. Sei tu che decidi in prima persona che qualcuno dovrà morire, anzi chi dovrà morire. Sai che è necessario, ma fa male lo stesso”.
Nelle zone di guerra non si può far valere il principio “prima il più grave”: non ci si può permettere di spendere tre ore per operare qualcuno che ha poche probabilità di sopravvivere. Si consumano inutilmente tempo e materiali. In più altre persone moriranno nel frattempo, mentre si sarebbero salvate se operate prima.
Per questi motivi è ancora più difficile, più drammatico, decidere chi verrà operato per primo. Al dramma del sangue, della follia della guerra si aggiunge quello del triage, della scelta, appunto, di chi mandare sotto i ferri e di chi lasciare fuori. “Devi cercare di fare il meglio per la maggioranza dei feriti” scrive Strada, ma non è facile. Spesso arrivano i dubbi, i rimorsi, il senso di impotenza. Decidere chi operare per primo è molto difficile perché sai che l’attesa, per molti feriti, può essere fatale. E dunque, chi operare per primo? La scelta è traumatica. È la stessa situazione in cui si trovano i medici di tutto il mondo quando hanno un cuore da trapiantare e tanti possibili candidati.
Il dramma certe volte diventa persino paradosso: “Mi è capitato anni fa – racconta Gino Strada – che Margaret, la nostra capo infermiera australiana a Kabul, mi prese sottobraccio. Vieni ci sono già un centinaio di feriti nel cortile, devi fare il triage”. Molte delle persone che dovevano essere operate erano combattenti che avevano tenuto sotto tiro con le armi i medici di Emergency con le loro struttute da campo, senza alcun rispetto per i feriti. “Il triage è fatto, Margaret – scrive Strada – prima i bambini poi le donne… Perché avrei dovuto dare la precedenza a chi mi stava sparando addosso fino a mezz’ora prima? Ci ho messo un po’ di tempo a trovare la forza di dire a me stesso che quella, in fondo, era solo una specie di vendetta, il trasformarsi da medico in giudice spietato e inappellabile… Mi sono dato delle attenuanti ma alla fine il verdetto è rimasto lo stesso: come si chiamerebbe da noi, complicità in omicidio plurimo e omissione di soccorso?” La guerra non è fatta solo di sangue e di corpi sfigurati. È fatta anche di questi paradossi che, da un punto di vista morale, ti condannano senza appello.
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