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giugno/2001 - Interviste
Schiavi
Cioccolato extra bitter
di Paolo Pozzesi

In tempi passati (per intenderci, prima della Seconda guerra mondiale) nelle parrocchie bambini e ragazzi erano invitati a raccogliere e a consegnare la carta stagnola delle confezioni dolciarie (all’epoca molto meno numerose di oggi, e di consumo più limitato) per “riscattare i negretti schiavi”. Non era ben chiaro chi fossero questi piccoli africani, né perché fossero schiavi, e di chi, e dove. Si doveva comunque ritenere che i proprietari di questi schiavi bambini (coetanei di quelli che in Europa mangiavano cioccolatini e caramelle, conservandone virtuosamente gli involucri) amassero molto la carta stagnola, tanto da accettarla come merce di scambio. O forse l’operazione, condotta dai Padri missionari, seguiva altri passaggi. Un altro aspetto restava oscuro, pur senza laceranti interrogativi nell’opinione pubblica: dato che tutta l’Africa (a parte l’Egitto, la Liberia, il Sudafrica, e l’Etiopia fino al 1936) era costituita da colonie europee, perché i civilizzatori di pelle bianca permettevano che nei loro territori esistesse e si perpetuasse la schiavitù? Poi, dopo la guerra, le colonie erano state via via smantellate, erano nati tanti Stati africani indipendenti, di schiavitù non si era più parlato, e tantomeno di quella carta stagnola con la quale ora i nostri bambini potevano senza rimorsi imbrattare i marciapiedi.
Ed ecco che, all’alba del Terzo millennio apportatore di nuovi Lumi all’insegna del Libero Mercato, scopriamo che la parola “schiavitù” è ancora attuale, come prima, e magari peggio di prima. A vivacizzare questa presa di conoscenza (forse anche di coscienza, ma non è proprio sicuro) è venuto, come spesso accade, un episodio orrendo ma in fondo minore, le peripezie della Etireno, nave battente bandiera nigeriana, con a bordo qualche centinaio di emigranti provenienti dal Benin, tra cui un numero imprecisato di bambini dai 6 ai 14 anni destinati a lavorare nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio. La coincidenza con le festività della Pasqua ha suggerito un abbastanza ovvio, ma non trascurabile, parallelo tra le uova di cioccolata con sorpresa consumate nelle nostre contrade, e la mano d’opera infantile utilizzata per la raccolta della materia prima necessaria alla loro confezione. Mano d’opera infantile tenuta in condizioni di autentica schiavitù, poiché i bambini vengono comprati nei Paesi più poveri, come il Benin, il Mali, il Togo, la Repubblica Centrafricana, da emissari che li pagano alle famiglie l’equivalente di trentamila lire a testa, rivenduti a più del triplo a degli intermediari che a loro volta li cedono, naturalmente guadagnandoci, ai proprietari o ai gerenti delle piantagioni di cacao, di preferenza in Costa d’Avorio, il più grande produttore ed esportatore mondiale di materia prima.
L’Unicef, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa dei problemi dell’infanzia (e fra questi problemi al primo posto si colloca lo sfruttamento a fini di lucro), calcola che nelle piantagioni di cacao della Costa d’Avorio lavorano circa 15.000 bambini; è praticamente impossibile fare una stima precisa, dato che le inchieste in proposito non possono, logicamente, contare sulla collaborazione dei proprietari, e quando avvengono si riesce sempre in qualche modo a mascherare la realtà. Ad esempio, lo scorso anno, in seguito a un documentario mandato in onda dalla Bbc, la britannica Biscuit, Cake, Chocolate and Confectionery Alliance, associazione di industriali del settore dolciario, incaricò un istituto di ricerca di indagare sull’uso di schiavi nelle piantagioni ivoriane: la relazione dell’istituto certificò che non aveva avuto prove dirette su questo uso, pur ammettendo che le condizioni riscontrate lo rendevano possibile. Chissà perché, tornano alla memoria le visite, rarissime, compiute da osservatori neutrali della Croce Rossa in alcuni lager che i collaboratori di Himmler sceglievano per mascherare le orrende condizioni dei campi nazisti. Beninteso, non si tratta di fare confronti. E qualcuno potrebbe obiettare (possiamo persino immaginare chi) che lo schiavismo africano si allaccia in qualche modo a una tradizione locale (vogliamo dire al folklore?), visto che di schiavi neri ve ne sono stati nei secoli milioni e milioni; del resto, aggiungerebbe un musicologo appena appena razzista, senza la tratta nelle Americhe, non avremmo avuto il jazz. Peccato che gli schiavi bambini del cacao siano del tutto digiuni di musica, non cantino e non ballino, e anche se ne avessero voglia gliene mancherebbero le forze e il tempo dopo aver lavorato dodici ore alla raccolta dei frutti, e aver mangiato come unico pasto un piatto di mais. Peccato, inoltre, che questa forma di schiavismo infantile (come altre forme di sfruttamento, in altri continenti) non sia legato ad alcuna “tradizione”, bensì a leggi di mercato stabilite da quattro cinque multinazionali che producono cioccolata e altri prodotti dolciari, ma anche confezioni alimentari, derivati del latte, oli vegetali, margarine, carne in scatola, cibi per animali, cosmetici, eccetera.
Il controllo quasi assoluto del mercato consente alle multinazionali di decidere il prezzo d’acquisto della materia prima all’ingrosso, passato da 2220 dollari la tonnellata nel 1985, a 1080 dollari. Un colpo decisivo al prezzo del cacao è stato inferito dalla decisione del Parlamento europeo di consentire nell’UE la vendita di cioccolato nel quale il 5% del burro di cacao è sostituito da altri grassi vegetali, in particolare olio di palma. Una misura chiesta dai Paesi che già ammettevano questa adulterazione (Gran Bretagna, Irlanda, Austria, Portogallo, Svezia, Danimarca, Finlandia), e bene accetta sia alle multinazionali del settore, sia a quelle che producono olio di palma. Da parte loro i coltivatori, per resistere senza troppo danno al calo dei prezzi, si rifanno servendosi di una mano d’opera a costo bassissimo, quale appunto i bambini forniti da intermediari che sono di fatto autentici mercanti di schiavi.
Un traffico illegale ma diffuso, sostenuto dall’estrema miseria di famiglie che cedono i loro figli credendo, o fingendo di credere, che saranno destinati a un lavoro più o meno “normale”, e dalle richieste del mercato. Alla fine dei conti, senza i bambini schiavi le multinazionali dovrebbero pagare a prezzi più alti il cacao, e i loro guadagni sarebbero ridotti. Per finire, merita di essere citata una dichiarazione di Brian Wilson, ministro per il Commercio britannico, ripresa da The Daily Telegraph e pubblicata nel numero di aprile della rivista Internazionale: ”Sembra che in alcuni Paesi il ricorso agli schiavi bambini nelle piantagioni di cacao sia comune… Sono sinceramente convinto che i grandi e rispettabili produttori britannici usino cacao che proviene da Paesi con piantagioni in cui vigono condizioni di lavoro relativamente buone. Ma mi chiedo se davvero tutti gli operatori del settore sono assolutamente certi di non usare materie prime prodotte grazie al lavoro infantile. Abbiamo il diritto di chiedere a tutte le industrie dolciarie e a tutti i fabbricanti di cacao di verificare che la loro merce sia prodotta eticamente”. Un appello venato da una buona dose di scetticismo. Uno scetticismo legittimo. I piccoli schiavi del cacao sono solo un aspetto del colonialismo del profitto, del quale tutti noi siamo sudditi e pur senza volerlo o nemmeno saperlo, complici.


I 10 maggiori produttori di fave di cacao
(dati FAO 2000, in tonnellate)

Produzione totale ’99 2.993.588

Costa d’Avorio 1.153.000
Ghana 409.360
Indonesia 350.000
Brasile 285,119
Cameroun 150.000
Nigeria 145.000
Malesia 118.000
Ecuador 83.000
Colombia 51.558
Papua Nuova Guinea 40.000



I maggiori produttori di olio di palma
(dati FAO 1999, in tonnellate)

Produzione totale 19.072.449

Malesia 8.800.000
Indonesia 6.200.000
Nigeria 847.000
Colombia 523.980
Thailandia 475.042
Papua Nuova Guinea 299.000
Ecuador 270.453
Costa d’Avorio 242.000
Cina 205.000
Cameroun 160.000



Le multinazionali del cioccolato

Cadbury Schweppes
Di origine inglese, nata nel 1969 dalla fusione della Cadbury (cioccolato e prodotti dolciari) e della Schweppes (bevande analcoliche).

Ferrero
Di origine italiana, è attiva in 29 Paesi. Il gruppo è proprietà della famiglia Ferrero, e opera attraverso Intercandy N.V. con sede nelle Antille Olandesi.

Mars
Di origine statunitense, ha filiali in oltre cento Paesi. Il gruppo è proprietà della famiglia Mars.

Nestlé
Di origine svizzera. Presente in 81 Paesi, è la maggiore società agroalimentare del mondo (principale produttore di latte in polvere).

Philip Morris
Di origine inglese, nel 1847, poi statunitense, prima produttrice mondiale di sigarette, produce cioccolato e caffè, tramite la Jacobs Suchard.


Il Paese del cacao

La Costa d’Avorio (capitale Abidjan) è il più grande produttore mondiale di cacao, che è la principale risorsa del Paese, seguita da caffè, mais, cotone. Il reddito pro capite è di circa 700 dollari l’anno.
Nel 1600 divenne un emporio francese per la tratta degli schiavi, e dal 1899 colonia dell’Africa Occidentale Francese. Dal 7 agosto 1960 è divenuta indipendente (repubblica presidenziale) nel quadro della decolonizzazione promossa da Charles de Gaulle. Dei 15 milioni di abitanti 4 milioni sono immigrati da altri Paesi africani. Dopo un colpo di stato militare del dicembre 1999, dopo le elezioni dell’ottobre 2000 – svoltesi tra violenze e accuse di brogli – presidente è Laurent Gbagbo.



Verso un commercio equo

“Lo sfruttamento prospera quando si crea una separazione fra chi produce e chi consuma”, scriveva Francesco Gesualdi nel numero del maggio 2000 di ALTREconomie, commentando la decisione del Parlamento europeo sull’aggiunta di altri olii vegetali nel cioccolato. E indicava la scelta del commercio equo :”Se paghiamo i prodotti del Sud a prezzi più alti, inevitabilmente ne consumiamo di meno, e ciò libererà terre e risorse che potranno essere orientate verso il mercato interno. Equità, programmazione e cooperazione, ecco le tre parole magiche che possono rivoluzionare il mondo”. Il commercio equo esiste, e anche per il cioccolato offre a prezzi più alti prodotti di migliore qualità, che garantiscono il consumatore e offrono ai coltivatori maggiori guadagni (pagando in anticipo il 50% delle ordinazioni), e condizioni di lavoro corrette. Nel campo del commercio equo del cioccolato in Italia sono attivi Ctm Altromercato (Mascao, Crema alle nocciole, Companera), Commercio Alternativo (Ciokaraibi), Equoland (Perlita), Quetzal-La Bottega Solidale (Quetzal).

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