Per una fortuita coincidenza, mentre l’Istituto di ricerca e formazione “Progetto Uomo” ha varato il Master sulla devianza e delinquenza adolescenziale e giovanile, la cronaca ci ha informato abbondantemente di un’ennesima tragedia consumata all’interno di una famiglia, a Novi Ligure. E la memoria ci rimanda ad un lontano fatto di sangue che vide protagonista Doretta Graneris.
Se lo sgomento e il cordoglio ci accomunano alla società ferita da tale evento, nel contempo colpisce lo stupore di chi è convinto che oggi tali fatti non dovrebbero accadere perché il progresso dovrebbe comportare il tramonto di scenari dipinti dalla brutalità. Quasi che Caino fosse relegato ormai in un'antica iconografia biblica.
L’implacabile esame di realtà ci richiama, invece, al fatto che le dinamiche intrinseche alla persona non camminano al passo col tempo, né dipendono unicamente dal grado di sviluppo della civiltà, soprattutto se tale sviluppo è orfano di cultura educativa, di crescita a misura d’uomo, di etica.
Il malessere è nato con l’uomo, non muore grazie a certo benessere, anzi può essere conseguenza delle dinamiche intrinseche alla persona o al suo stile di vita o all’ambiente di vita, causa impossibilità-incapacità di cambiamento, a fronte di mancanza di educazione alle scelte o di scelte alternative. Con questo non si vuole suffragare né una tesi apodittica, né una diagnosi psicosociale, né, tantomeno, perdersi nel circuito autoperpetuantesi dello scarico delle responsabilità, a carico di un capro espiatorio.
Al contrario si desidera far emergere la mancanza di premesse educative che, di solito, cede il posto al malessere e ai suoi sviluppi, quali la devianza e la delinquenza.
Spicca, a tale proposito, per assenza, la norma, cioè la proposizione di criteri di giudizio e di valutazione oggettiva, favorenti un orizzonte assiologico. Di fatto, il nostro tempo è caratterizzato da un fronte relativizzante - più volte osannato o stigmatizzato e definito da studi filosofici quali il relativismo culturale - che ha cristallizzato la capacità di formulare sistemi di valori, chiari e definiti, capaci di anticipare gli eventi e di orientare i comportamenti, in chiave metaindividuale e finalistica, come se l’uomo contemporaneo avesse ormai raggiunto una maturità tale da rendere la norma accessoria.
L’icona di questa impasse è rintracciabile nella cronaca quotidiana che vede interventi sempre più capillari della Magistratura in ogni connessione sociale e il nascere di “telefoni azzurri, rosa...” quali linfociti di un sistema immunitario sociale continuamente sollecitato a contenere emergenze, richiedendo misure prescrittive.
La prescrizione, però, quando arriva denuncia, nel contempo, il fallimento dell’aspetto sostanziale della norma quello costitutivo, cui desidero riferirmi, intrinseco ai bisogni della natura umana perciò condivisibile e fondante. Altrimenti, si interviene, si prescrive, si censura in deroga ad una normatività costitutiva che avrebbe di per se stessa non solo potuto evitare la prescrizione ma fungere anche da agente preventivo.
La normatività costitutiva è, infatti, l’opposto del relativismo, dell’appiattimento dei ruoli e dell’identità personale e sociale, del laissez-faire educativo, del garantismo senza confini. Non per questo va assimilata al dominio, alla legge come strumento di potere, all’educazione come travaso di precetti e alla religione quale tribunale delle coscienze. Non è nemmeno surrogato dell’integralismo, dell’intolleranza o della dittatura. È scelta consapevole e ponderata di una società che, pena la propria sopravvivenza, si dà e osserva dei valori e ne assicura la trasmissione attraverso l’educazione. Valori che devono attraversare diagonalmente le razze, le religioni, il credo politico per essere riconosciuti e accettati indistintamente da coloro che formano tale società.
La nostra società, invece, rappresenta una babele in cui è difficile trovare punti comuni, a fronte di incapacità di mediazione o dell’accavallarsi di smentite. Le convinzioni, poi, di chi o professa scetticismo nei confronti di un processo di cambiamento o ricerca una società perfetta, con il comune risultato di stigmatizzare sempre e solamente le percentuali raggiunte dalla devianza nel tessuto sociale, offrono alibi per appellarsi alla scorciatoia della norma prescrittiva, come nel caso del genitore che sanziona il figlio senza curarsi che lo stesso abbia interiorizzato parametri normativi.
Il rimando naturale della norma è il concetto di “normalità”. Quello che sconcerta i più, sono, appunto, gli scenari di “normalità” sui quali si stagliano le ombre della devianza e della delinquenza.
Si impone, dunque, una riflessione non tanto sulla trasgressione quanto sulla “normalità”. In un’epoca di relativismo culturale la normalità esiste se non virtualmente; anche psicologicamente risulta difficile una definizione che non cada nell’errare di far coincidere normalità con adattamento. Se tale concetto rimane virtuale non dobbiamo stupirci degli accadimenti devianti perché se non si definisce la normalità, non c’è rimando alla norma e la trasgressione è ritenuta plausibile.
Ricostruire la normalità, sulla scia della norma costitutiva, implica rimettere in gioco non la sanzione bensì lo spartiacque dei valori, delle valenze positive e negative, per agevolare l’individuo nel processo d’identificazione delle finalità intrinseche alla realizzazione e allo sviluppo del proprio stile di vita.
La responsabilità è qui propria dell’adulto, in quanto si suppone soggetto maturo, capace di rifondare la norma e di trasmetterla nei suoi significati: “ubi jus, ivi societas”, per garantire la dimensione sociale.
Non per questo si delinea un adulto particolarmente saggio e perfetto, quindi ideale, bensì un adulto in grado di conoscersi e di progettarsi, in dimensione interrelazionale; capace di assumersi le proprie responsabilità in merito alle scelte operate, cioè di darsi uno stile di vita.
Ciò ché manca nella società degli adulti sono proprio coloro che testimoniano la pienezza di una vita alla quale si è dato senso e nella quale si sono tenuti fermi determinati valori, pur con il beneficio dell’errore.
Dal punto di vista educativo ciò è fondamentale rispetto al mandato che l’adulto ha nei confronti del bambino e dell’adolescente, in quanto i soggetti in crescita esigono testimoni, non ipotetici modelli di perfezione, che mostrino la necessità e la possibilità della costruzione di una cornice esistenziale etica nella quale inscrivere il proprio progetto di vita. Nel contempo, gli educandi si aspettano, almeno implicitamente, adulti autorevoli che sappiano rispondere alle loro aspettative profonde e non dei meri allevatori/addestratori.
Lo scenario mondiale, a tale proposito, presenta quadri opposti: culture scosse dal relativismo e culture castrate dal fondamentalismo causano, in ambo i casi, l’inconfessata fragilità della società adulta che ha perso o ciecamente delegato ad altri sistemi la capacità di testimoniare i valori e di mediare le norme.
La psicoanalisi, nel trattare la normalità, rimanda ai concetti di libertà dai conflitti e d’integrazione: dinamiche psichiche che possono renderci armonici o dissonanti.
Attraverso il lavoro educativo, l’adulto, conscio di queste possibilità, deve allenare il minore alla presa di coscienza e alla gestione del conflitto - variabile onnipresente nella personalità - quindi alla mediazione del contrasto fra istanze escludentesi, fra principio del piacere e principio di realtà, fra vita e morte, fra libertà e condizionamenti o dipendenze.
L’azione educativa deve agevolare lo sviluppo della personalità in tutte le sue componenti, contro l’alienazione, e stimolare la disponibilità degli individui a coordinare i propri comportamenti, a favore della coesione sociale e dell’interdipendenza, permettendo agli stessi di interiorizzare e fruire di modelli valoriali comuni.
Eppure, educare significa anche nutrire.
Al contrario della contro-educazione svolta dal consumismo massmediale, che punta sul rinforzo del polo attrattivo, dove tutto deve accattivare, meglio se in forma spettacolare o trasgressiva, ed eludere qualsiasi censura o revisione critica, pena la caduta di “audience”, d’interesse per soddisfare più che nutrire.
Per rompere tale catena, chi educa detiene il compito di demistificare immagini enfatizzate, incapaci di tratteggiare i veri contorni dei sentimenti, dei rapporti umani, delle scelte di vita, dei diritti e dei doveri, dei traguardi e delle sconfitte.
Se il mondo degli adulti continua a difendere tesi minimaliste e i propri personali interessi, a devitalizzare la norma, a proibire negli assunti ma a concedere nei fatti, a disimpegnare gli educatori dai loro compiti precipui per ridurli a longa manus delle aspettative dei genitori, fino a giungere a relativizzare le conseguenze per chi commette volontariamente atti ad alta valenza trasgressiva, deve, altresì, considerare che ciò facendo rinforzerà la trasgressione soprattutto in coloro che, per età e opportunità, provocano con tali azioni l’adulto stesso per “chiedere giustizia” di una realtà che pare essere tutta finzione.
Un figlio che uccide un genitore simbolicamente uccide un adulto che non ha né saputo proporsi come testimone di valori capaci di garantire la propria e l’altrui esistenza; né è riuscito a mediare istanze conflittuali e affettive del sistema familiare.
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