All’assemblea nazionale di “Antigone” si è fatto un bilancio di fine legislatura e si è accennato a quanto resta ancora da fare. Pubblichiamo la prolusione di Stefano Anastasia al convegno
Il fatto che l’Assemblea nazionale di Antigone cada a ridosso di una importante scadenza politica come il rinnovo delle Camere, ci ha indotti a programmare, nella sua parte pubblica, un confronto sulle politiche della giustizia penale in senso lato, sia con l’ambizione di trarre un bilancio della legislatura che va a chiudersi che di prospettare linee di intervento per la prossima. Se da una parte abbiamo colto l’opportunità offertaci dalla successione degli eventi, dall’altra - non vogliamo nasconderlo - abbiamo avvertito il peso di una responsabilità.
Questa responsabilità nasce da una analoga occasione, forse più fortuita di questa, che fece sì che un impegnativo convegno promosso da “Antigone” si svolgesse negli stessi giorni in cui andava formandosi il governo Prodi. Questa circostanza, e la sua correlata (l’impegno dell’allora ministro Flick - in occasione della presentazione degli atti di quel convegno - alla costituzione di una Commissione ministeriale per la riforma del Codice penale) hanno fatto sì che i materiali e le idee che circolarono allora da molti furono interpretati come una sorta di manifesto programmatico del Centro-Sinistra al governo sulla pena e sul carcere. Certamente così lo intese quel mondo che più ci è vicino e che, come noi, si trova costretto a guardare alla giustizia penale dal fondo della bottiglia, il mondo della esecuzione penale, dell’Amministrazione e del volontariato penitenziario, degli stessi detenuti.
Le molte polemiche che hanno accompagnato questo mondo nell’ultimo anno, a partire dai drammatici fatti di Sassari, e la delusione che vi serpeggia, ci obbligano a fare il punto e a valutare quanto di quel che si disse ha avuto corso in questi anni, cosa avrebbe potuto essere fatto e cosa non avrebbe dovuto essere fatto, per quale bandolo tirare la matassa del nostro sistema penale.
Mano mano che va a chiudersi il carico pendente del lavoro legislativo e amministrativo in materia di giustizia penale, ci pare di poter confermare la nostra valutazione che vede nella riforma della “macchina della giustizia” lo sforzo maggiore e più maturo del Centro-Sinistra al governo. Nel documento ricordiamo il giudice unico di primo grado, la competenza penale del giudice penale, la depenalizzazione dei reati minori interpretata in chiave efficientista, di sfrondamento delle pendenze inutili, la riorganizzazione del ministero della Giustizia e delle sue articolazioni. Tutti questi provvedimenti, insieme con i corrispettivi nella giustizia civile, primo tra i quali quello relativo alla istituzione delle sezioni-stralcio per i procedimenti arretrati, hanno dato il segno all’avvio della legislatura. Al di là del giudizio di merito su ciascuno e su ogni loro articolazione, sotteso ad essi si scorgevano un disegno di politica giudiziaria e un accorgimento politico-politico: da una parte si sceglieva la politica dei piccoli passi, della efficienza come pre-condizione delle riforme e dall’altra si tentava di sottrarre la politica della giustizia allo scontro tra le coalizioni sulle ceneri di Tangentopoli, scontro costitutivo del nuovo sistema politico italiano perché, malgrado tutto, ne ha segnato l’impriting nella prima metà degli anni Novanta.
Nel definire quindi l’indirizzo politico prospettato dal ministero Flick come un indirizzo di “basso profilo”, come abbiamo fatto nel documento preparatorio a questa assemblea, non vi era quindi da parte nostra un giudizio di valore sulla scelta governativa, quanto piuttosto la rilevazione di una linea d’onda su cui si attestava la maggioranza, i cui frutti certo non hanno mancato di manifestarsi.
Gli osservatori più attenti, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario, hanno teso a mettere in luce il maggior numero di procedimenti arrivati a definizione e l’inversione di tendenza nell’accumulo degli arretrati. Di tutto questo siamo consapevoli, come siamo consapevoli - viceversa - della molta strada che resta ancora da fare su questo versante, per ottemperare a quell’obbligo di ragionevole durata dei procedimenti che con il giusto processo è stato costituzionalizzato.
Ma prendendo in parola la promessa di ogni buona politica dei due tempi che si rispetti, il punto è - a nostro modo di vedere – qual è il passaggio ulteriore che avrebbe dovuto e dovrebbe seguire alla definizione delle migliori condizioni di efficienza nel lavoro degli uffici giudiziari.
Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, nella sua relazione alla inaugurazione dell’anno giudiziario, che già registrava i primi effetti positivi delle riforme “di macchina” sulla efficienza della giustizia, ha puntato il dito sul processo penale, indicandolo come il grande malato dell’intero sistema. Non saremo noi a contestare la sofferenza del processo penale nella sua capacità di definire in tempi ragionevoli le responsabilità penali nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie degli indagati e degli imputati.
“È finito il tempo delle norme scolpite nel marmo” scriveva Franco Cordero nel 1992, quando già il codice accusatorio sembrava volgersi al passato. A queste incertezze risalenti nel tempo della sua breve vita, si sono aggiunte negli ultimi anni quelle indotte dal percorso di riforma messo in opera in questa legislatura.
La riforma del giudice unico di primo grado ha comportato una complessa azione di revisione delle relative norme processuali, mentre il ristabilimento del fondamentale principio del contraddittorio nell’acquisizione delle prove in dibattimento si è solo da pochi giorni compiuto, a conclusione di un iter fatto di leggi ordinarie, sentenze e leggi costituzionali. Ancora in attesa di approvazione definitiva sono quelle misure, di riforma del gratuito patrocinio e della difesa d’ufficio, finalizzate a rendere il giusto processo qualcosa di più di uno slogan di successo per la generalità dei principali destinatari delle attenzioni del sistema penale. Misure tanto più urgenti quanto più complessa e costosa diventa la difesa tecnica dopo l’approvazione della legge sulle cosiddette “indagini difensive”.
Nutriamo qualche perplessità sul fatto che la riforma del gratuito patrocinio e della difesa d’ufficio siano sufficienti e più volte, e ancora nel documento preparatorio a questa Assemblea, abbiamo proposto la istituzione di un Ufficio pubblico della difesa, che garantisca il pieno ed effettivo diritto alla difesa di ogni persona sottoposta a procedimento penale, ma saremo lieti di essere smentiti dall’applicazione delle leggi in corso di approvazione e alla cui approvazione occorre senz’altro subordinare lo scioglimento anticipato della legislatura.
Detto questo, detto tutto questo riguardo alla sofferenza del processo penale, ci pare che l’attenzione del procuratore Favara sia stata attratta da quella solita luce fissa da cui origina la instabilità delle norme procedurali. Intendo dire che sulla procedura penale si scarica una parte rilevante delle risposte d’emergenza alla crisi del sistema penale. Se il diritto penale sostanziale continua ad essere percepito come un totem immodificabile - salvo il proliferare di quella legislazione simbolica che fa da contraltare alle modifiche d’occasione delle regole processuali - è evidente che ogni tensione di un sistema in crisi peserà inevitabilmente sulla fisarmonica processuale, buona ad essere compressa e liberata a seconda delle contingenti necessità.
Viceversa noi pensiamo che il problema principale del processo penale è nel suo partecipare, con il diritto penale ipertrofico e con il giudizio sull’autore in sede d’esecuzione, a quel modello di giustizia negoziata che ha scardinato ogni possibilità di affidamento nella legge penale. L’espansione della giustizia penale si accompagna ad un suo uso flessibile, intento ad aderire alle necessità del momento e a misurare su di esse la propria efficacia. È così che l’obbligatorietà dell’azione penale lascia spazio ad una discrezionalità nei fatti, aprendo gravi interrogativi in ordine alla legittimazione di chi è costretto a compiere le scelte di merito su quali reati perseguire con maggiore sollecitudine e quali affidare al binario morto dell’archiviazione. È così che il processo accusatorio, per reggere la sfida di un sistema penale ipertrofico, non può che confidare nella composizione tra le parti, in un sistema di negoziazione delle responsabilità penali che rischia di allontanare la verità processuale dai fatti di cui essa intende essere interprete. È così che il mastodontico sistema di esecuzione penale ha bisogno di un costante giudizio sull’autore che decida in concreto le modalità e il quantum di sofferenza da attribuire a ciascuno dei destinatari di controllo penale. Ne deriva in ogni stato e momento del funzionamento del sistema una costante negoziazione tra l’autorità statale e i reali o potenziali destinatari del suo potere repressivo. Negoziazione che rende flessibile, ma incerto il sistema di attribuzione della responsabilità penale così come la stessa esecuzione penale, dando l’immagine di un sistema largamente indulgente, entro cui il rischio dell’arbitrio e della diseguaglianza negativa è viceversa fortissimo.
Se questa ipotesi interpretativa della crisi del sistema penale ha un fondamento, e se in essa non vi sono solo i segni di una disgregazione del modello di legalità penale, ma anche quelli di un riassestamento intorno ad una concezione del diritto penale come strumento flessibile di governo della società, il secondo tempo del percorso di riforma apertosi con la razionalizzazione dell’esistente avrebbe dovuto misurarsi con questi problemi. Ci si misura Berlusconi quando chiede di superare il vincolo della obbligatorietà dell’azione penale ed esplicita la necessità di trasferire alla politica la responsabilità dell’uso flessibile della giustizia penale. Ci si misura per quello che è: ne vede i vantaggi e tende a dargli ordine. Non ha il problema del contenimento della dimensione simbolica del diritto penale, della piena garanzia del diritto alla difesa per tutti e del contenimento del controllo e della afflizione penale. Le tendenze che abbiamo descritto si confanno ad un modello sociale competitivo, fondato sulla diseguaglianza, sia essa prodotta dal merito o da barriere sociali invalicabili. Legittimamente, Berlusconi, che se ne vuole fare interprete, nuota nella corrente. Il problema allora è di altri, di chi non condivida quel modello sociale e voglia sottrargli la possibilità di un uso arbitrario della giustizia penale.
L’alternativa ad una simile tendenza è viceversa il contenimento della giustizia penale entro i confini che le sono irrinunciabili e la restituzione alla società, al territorio, alle politiche di coesione e integrazione sociale di quella sua grande parte che ne è la surroga. Un indirizzo in tale direzione, beninteso solo sul piano normativo, c’era sembrato di intravedere nella decisione del ministro Flick di avviare un lavoro per la riforma Codice penale. Sappiamo bene, come ci ripete puntualmente Massimo Pavarini, che la penalità va contenuta nei fatti e non solo nei Codici o nelle leggi, ma ciò non cancella il valore di una scelta di indirizzo: il diritto penale minimo non sarà solo il prodotto di un legislatore illuminato, ma non potrà non essere anche il prodotto di un legislatore illuminato.
In altre occasioni abbiamo avuto modo di discutere con Carlo Federico Grosso degli esiti successivi del lavoro della Commissione da lui presieduta. Come è naturale che sia, essi si prestano a valutazioni diverse, ma ciò che più ci interessa sottolineare in questa sede è lo smottamento progressivo del contesto entro cui quel lavoro si è inserito.
Nel primo rapporto del nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione, lo abbiamo registrato sul delicato terreno del carcere e della esecuzione penale: c’è stata in questa legislatura una soluzione di continuità nel processo di riforma della giustizia penale. Il sovraffollamento penitenziario che ha portato le presenze in carcere a circa 54mila giornaliere non è figlio di nessuno, ma è viceversa il portato di un clima sociale troppo facilmente assecondato dai titolari di responsabilità pubbliche e istituzionali.
Ricordiamo la escalation del 1999: la sequenza di omicidi a Milano, la campagna di stampa, le manifestazioni del Polo e il cedimento del governo, che alle pur necessarie misure di coordinamento delle Forze dell’ordine accompagna il varo di un pacchetto-sicurezza di chiaro stampo emergenziale, al solo fine di rassicurare l’opinione pubblica e le organizzazioni di categoria più solerti nel cavalcare l’allarme sicurezza. Placati gli animi con la promessa del giro di vite su scippi e furti in appartamento torna la quiete fino al succedersi di nuovi tragici fatti di cronaca che alimentano nuovamente la vis polemica degli imprenditori della sicurezza. L’attacco si sposta ora sulle misure alternative alla detenzione: pare che i 35mila condannati in esecuzione penale esterna siano tutti liberi, privi di alcun controllo e intenti a proseguire la propria attività criminale. La popolazione detenuta comincia a crescere, di circa mille unità al mese. Chi si assume la responsabilità di un mancato arresto, di una revoca della custodia cautelare, di una alternativa alla detenzione?
In questo clima la Commissione Grosso produce la sua prima relazione. È chiaro che non vi sono più le condizioni politiche per una riforma non meramente ordinatoria del Codice penale, in quel clima e mentre, alla faccia del diritto penale minimo, il Parlamento continua ad inventarsi fattispecie penali o loro aggravamenti ad ogni pie’ sospinto e su ogni questione, dalla procreazione assistita ai sassi del cavalcavia, dalle duplicazioni di nastri e cd agli incendi boschivi: non c’è emergenza o questione etica di qualche rilevanza che non imponga il ricorso alla rassicurazione simbolica offerta dal diritto penale, dalla previsione di un reato e di una pena o, se già esistente, più dura di quanto non sia.
Si dovrà arrivare fino ai giorni scorsi per poter finalmente sentire snocciolare dal Ministro dell’Interno dati rassicuranti sul contenimento dei fenomeni criminali che tanto allarmerebbero l’opinione pubblica. Sono dati di tendenza, che durano dall’inizio del decennio e dovrebbero indurre il governo e la maggioranza più che a vantare facili successi a ripensare alle proprie politiche su questo tema e ad accantonare un disegno di legge inutile, se non pericoloso come quel pacchetto-sicurezza che fu varato sotto la pressione di una campagna di stampa allarmistica e che, viceversa, la Commissione giustizia del Senato sta esaminando in sede deliberante. Si dice: “ma i sentimenti di insicurezza non si governano con le statistiche”. Vero, ma neanche con la minaccia di una pena più dura la cui inefficacia non farà altro che alimentare un circolo vizioso di sentimenti di insicurezza e grida manzoniane. Se si riconosce che i sentimenti di insicurezza trovano ragioni al di fuori dell’effettivo rischio di vittimizzazione, non è né sul terreno della repressione penale, né su quello meramente preventivo degli atti criminali (come ci si propone di fare con lo schieramento più ampio sul territorio delle Forze dell’ordine) che si risponde loro. Governare i sentimenti di insicurezza significa decodificarne le ragioni e decostruirne la riduzione a maggiore domanda di controllo penale. Certo è più difficile che scrivere un nuovo reato o innalzare una pena esistente, ma è l’unico modo per governarli e non esserne governati.
Quel che proponiamo, in conclusione, è che si cambi l’ordine del discorso. Per fuggire all’assedio razzista di chi gli immigrati li vuole in carcere o ributtati in mare, se non si vuole lasciare in un pietismo sociologico la constatazione che il carcere è una discarica sociale, se non si vuole restare vittime degli imprenditori della sicurezza e governati da un fenomeno che si dovrebbe avere l’ambizione di governare, occorre uno scarto che ci consenta di riprendere un discorso riformatore complesso entro cui la riforma del diritto penale nel senso della sua minimizzazione è una parte, minima ma non ultima parte, di un progetto più ampio di politica dell’integrazione e della coesione sociale, di politica della sicurezza e di politica criminale.
Solo entro un progetto di questo genere sarà possibile ridurre il carcere, la pena detentiva e il loro carico di sofferenza. Solo in questo modo le alternative potranno essere alternative alla detenzione e non alternative alla libertà, strumenti di riduzione della coazione carceraria piuttosto che di un controllo penale che si estende a dismisura sul territorio. Altrimenti, viceversa, il carcere e l’esecuzione penale esterna continueranno a crescere sotto il peso di una domanda sociale fortissima a cui non sono proposte alternative reali nel soddisfacimento dei bisogni che la originano. Altrimenti l’ambizione di differenziare i regimi per attenuare le sofferenze della detenzione si rivolgerà nel suo contrario, nella costruzione di gironi danteschi in cui siano progressivamente limitati diritti che legge e regolamento dovrebbero riconoscere alla generalità dei detenuti.
A qualcuno sarà sembrato eccessivo il paragone con il modello americano che abbiamo proposto nel documento. Ma anche a guardarlo da qui, dal fondo della bottiglia, il rischio c’è. In dieci anni il tasso di detenzione in Italia è raddoppiato e ha quasi raggiunto quello dei Paesi più “coercitivi” d’Europa: 100 detenuti ogni centomila abitanti. 100 detenuti ogni centomila abitanti era il tasso di detenzione degli Stati Uniti d’America a metà degli anni Settanta, prima che partisse il grande internamento che ha portato quel Paese ai vertici della classifica mondiale con 700 detenuti ogni centomila abitanti, cui si aggiungono - senza ridurli di una virgola - quasi il doppio di persone in esecuzione penale esterna, tre milioni e mezzo circa. È una prospettiva probabile questa per l’Italia? Non lo so. È una prospettiva possibile? Credo proprio di sì.
Alle nostre obiezioni sul braccialetto elettronico (amplierà l’area del controllo penale, ridurrà le alternative meno contenitive come l’affidamento in prova, non certo la detenzione) ci è stato contro-obiettato che “quando ci vuole ci vuole” e se uno ha i titoli per essere sottoposto a controllo penale è giusto che lo sia. Potremmo a nostra volta replicare che, contestandone l’ipertrofia e l’orizzonte limitato alla sanzione detentiva, contestiamo la stessa legittimità dell’ordinamento penale per come esso si configura, e quindi riteniamo che la mera previsione legale di un reato non ne costituisce ragione di legittimazione da un punto di vista esterno al sistema, da un punto di vista di giustizia sostanziale. Ma voglio tornare al Rapporto sullo stato della sicurezza in Italia e chiedermi se l’espansione dell’area del controllo penale in presenza di indici di delittuosità stabili o in diminuzione deve essere motivo di vanto per l’efficienza degli apparati repressivi o non piuttosto ragione di allarme, testimonianza di una sofferenza sociale che scarica sul sistema penale le sue domande di rassicurazione simbolica? Se è così, come credo che sia, non è poco il lavoro che resta da fare per liberare il sistema penale dalla morsa che lo attanaglia e ricondurlo ai confini che ne legittimano l’azione.
Noi continueremo a fare il nostro mestiere, che è quello di osservare, discutere, proporre soluzioni. Metteremo nero su bianco le nostre proposte e le sottoporremo ad ogni singolo candidato, chiedendogli un’adesione e un impegno. Intanto ha ripreso a macinare lavoro il nostro Osservatorio permanente sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione; ad esso vorremmo affiancare un Osservatorio sulla produzione di norme penali e sulla loro rispondenza ai principi del diritto penale minimo; fino a quando non sarà posta fine allo scandalo sancito dalla Corte Costituzionale della mancata tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti e fino a quando non sarà discussa la nostra proposta di un difensore civico per le persone private della libertà personale, ne istituiremo uno informale, per la promozione e la tutela dei diritti dei detenuti. Queste e altre ancora sono le cose su cui stiamo lavorando e vorremmo lavorare, con il sostegno di quanti vogliano offrircelo e nella speranza di contribuire per parte nostra a quella titanica impresa di riforma della giustizia e della politica di cui vorremmo che qualcuno si assumesse l’onere nel governo della cosa pubblica.
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