Grazie al sindaco di Venezia Paolo Costa per essere qui con noi a ricordare, attraverso un libro di un poliziotto, curato da un gruppo di amici e pubblicato in modo assolutamente volontario. È un libro che raccoglie gli scritti di Riccardo Ambrosini, a lungo dirigente del commissariato di S. Marco, a lungo dirigente del distretto di Mestre, uomo a cui io personalmente fui legato da una amicizia nata per motivi professionali che poi è andata avanti col tempo. Parlare di Riccardo in pubblico è una cosa che mi emoziona. La nostra amicizia e il nostro legame fortissimo nacque in un momento particolare e proprio qui a Venezia; un momento particolare che fu anche il momento forse più forte dell’impegno politico in senso lato di Riccardo. Fu quando Riccardo si assunse insieme a Gianni Trifirò e al maresciallo Fabbri, che è qui a questo tavolo, la responsabilità di confermare quello che era accaduto nel distretto di Mestre cioè le torture nei confronti dei brigatisti. In quel momento Riccardo si assunse una grossissima responsabilità perché era un momento particolarissimo, diciannove anni fa, la Riforma della Polizia era stata approvata da poco più di un anno e si stava per celebrare il primo congresso del Siulp. Alla vigilia di questo primo congresso Ambrosini si assunse questa responsabilità come segretario regionale del Siulp del Veneto e confermò l’esistenza delle torture. Questo provocò ovviamente una lacerazione, una frattura tra Riccardo e il sindacato che non lo seguì; seguì un periodo professionale molto duro per lui. In questo libro abbiamo raccolto, grazie anche al paziente lavoro di Alberto Matricardo – che era legato a Riccardo da un sodalizio più che ventennale – gli scritti che abbiamo ritenuto più importanti. Il ricavato della vendita sarà finalizzato a un qualcosa che dobbiamo ancora definire, ma immaginavamo con Paolo Andruccioli – che è il direttore di Polizia e Democrazia – di dedicare una borsa di studio o qualcosa di simile, intestata a Riccardo Ambrosini.
ALBERTO MATRICARDO
Vorrei manifestare la mia emozione e la mia particolare difficoltà di parlare di un amico che è stato per me molto caro. Voglio parlare di quello che ho imparato a conoscere nei lunghi anni di sodalizio, di rapporto intenso sul piano politico, civile, spirituale e umano che ho avuto con Riccardo Ambrosini; dal quale ho imparato molte cose, soprattutto quanto riguarda la questione dell’impegno civile e la concezione originale, veramente originale e straordinariamente anticipatrice, che lui aveva dello Stato, del rapporto tra Stato e cittadini, dell’etica che deve sempre, comunque ispirare la politica. La sua concezione dello Stato è maturata dalla pratica, a partire da un impegno immediato, civile che egli come poliziotto aveva. Fu uno degli iniziatori dell’esperienza del Movimento che poi diede vita al sindacato della Polizia, nato con la Riforma. Prendeva l’avvio da una pratica, da una esigenza profonda, che si definisce sempre di più e si articola in una concezione che io trovo organica e completa, che cercherò di rappresentare. Una concezione che vede essenzialmente il rapporto tra Stato e cittadini in chiave non conflittuale ma addirittura che concepisce l’urgenza storica di questo nostro Paese di rifondare lo Stato a partire da un coinvolgimento capillare, singolare di ogni individuo, nel rapporto sociale e nel rapporto con lo Stato. La Polizia, inizialmente vista come ostacolo e come contrapposizione da molti settori sociali rispetto ai movimenti sociali, viene vista, dai primi anni del suo impegno da Riccardo, come uno strumento non di contrapposizione, ma di riorganizzazione, di armonizzazione delle diverse tendenze e delle diverse esigenze che emergono dalla nostra comunità nazionale. Questo è un aspetto veramente essenziale del suo pensiero che egli ha coerentemente sviluppato nel corso degli anni. Il problema che egli affronta è quello di impedire che avvengano delle cristallizzazioni, anche burocratiche, all’interno della Polizia proprio perché egli ritiene che ogni cristallizzazione, ogni chiusura sia un elemento di indebolimento della comunità, e quindi si impegna contro le visioni corporative, le chiusure settarie, le paure di aprirsi. Devo dire che in Riccardo non c’è alcuna prevalenza, ma nemmeno presenza ideologica. La sua concezione, in anni in cui tutti eravamo presi da concezioni ideologiche e da spirito di parte, era assolutamente aperta. La sua intuizione era molto semplice: passare dall’indivuale al generale senza momenti di strozzatura, senza momenti di rottura, di interruzione di questo rapporto, riuscire costantemente a mantenere aperto il flusso che dall’individuo conduce alla decisione politica complessiva. Questa era la sua intuizione di fondo, ed era un’intuizione tanto più valida in quanto la sua posizione era davvero quella del servitore dello Stato, cioè ragionava sempre in termini che non si identificavano in uno schieramento. Per esempio per quanto riguarda la concezione dell’ordine pubblico e della lotta alla criminalità aveva delle posizioni che non erano affatto quelle della sinistra, a volte potevano essere fraintese o addirittura potevano anche scandalizzare. Egli teorizzava qualcosa di assolutamente originale che va ancora oggi meditato e su cui dobbiamo ancora sviluppare delle pratiche, delle esperienze: considerare - contrariamente a quello che è il luogo comune – che non c’è una preminenza del grande crimine rispetto al piccolo crimine, non è più importante arrestare il grande criminale piuttosto che il piccolo criminale. Il crimine è crimine e va perseguito nello stesso modo, con lo stesso impegno giacché il grande crimine trae alimento dal piccolo. Questa è la sua concezione che non si appaga soltanto del risultato, cioè l’arresto del criminale, ma deve avere sempre anche un momento pedagogico, di conquista di consenso nei confronti dei cittadini per cui è più importante forse – così diceva Ambrosini – arrestare 10 piccoli spacciatori in un quartiere piuttosto che un grande criminale perché dal punto di vista dell’educazione e della partecipazione, del coinvolgimento delle masse nel rapporto con lo Stato è più importante che i risultati siano visibili davanti agli occhi dei cittadini; che si possa vedere che davanti alla mia porta non c’è più lo spacciatore. [...] Diceva ancora Riccardo che le azioni anticrimine vanno condotte sempre davanti ai cittadini in modo che questi siano consapevoli di quanto accade. Certo non escludeva anche la possibilità di azioni che potessero essere in un certo modo speciali, però lo riteneva sempre come un aspetto secondario rispetto all’obiettivo di lottare contro la criminalità per l’ordine pubblico in una condizione di condivisione e di riconoscimento sociale. [...] C’è stato anche un tragico equivoco, a volte accade. L’atteggiamento di Riccardo è stato interpretato quasi unanimemente come una sorta di salto in avanti, di fuga in avanti che non teneva conto delle condizioni politiche e quindi si collocava su un terreno o di ingenuità o di estremismo moralegiante; in realtà io ricordo che Riccardo era consapevole del fatto che si stava giocando uno scontro tra due diverse concezioni della politica. Una concezione che si presentava come realistica, capace di trovare le mediazioni e di essere quella vincente, rappresentata dal sindacato nella sua maggioranza e anche dal segretario di allora del sindacato Bruno Trentin. La politica che considera realistico privilegiare l’aspetto della mediazione in ogni momento e un’altra concezione che ritiene invece che la mediazione politica debba essere fatta in riferimento ai fatti. Non è possibile subordinare i fatti alla mediazione. È il contrario. [...] La riflessione di Riccardo e la coerenza della sua vita personale sono inscindibili, le sue posizioni sull’ordine pubblico, sul terrorismo e sugli altri aspetti sui quali ha riflettuto a lungo e ha scritto, sono ancora attuali. La politica è mediazione a partire dai fatti. I fatti non vanno ingigantiti o sminuiti, i fatti devono essere accettati nella loro gradevolezza o nella loro sgradevolezza, la politica si rafforza proprio nell’affrontare le cose sgradevoli. Questo è il senso dell’ispirazione di una vita che in Ambrosini è stata esemplare da questo punto di vista e che credo anche nel suo messaggio, nelle sue elaborazioni vada ripensata proprio alla luce dei compiti, delle prospettive che si aprono a tutta la politica nazionale.
PAOLO ANDRUCCIOLI
Debbo dire, prima d’ogni altra cosa, che ho raccolto, da Franco Fedeli, una eredità piuttosto pesante. Non è agevole continuare una gara quando è cambiato lo stadio, quando è cambiato il campo di gioco. Rispetto a quando Franco Fedeli e Riccardo Ambrosini facevano quelle battaglie e quelle lotte che hanno portato poi alla riforma nel 1981, è cambiato il campo di gioco, è cambiata la nostra società, è cambiato il rapporto fra Stato e cittadino. Franco Fedeli, come molti di voi sapranno aveva una rete di rapporti nella società, nella Polizia che gli dava e ci dava il polso della situazione sia politica che sindacale. In questo momento invece la situazione è un pochino diversa e gli amici sindacalisti lo spiegheranno meglio. Oggi quando si parla di Polizia e di sicurezza ci sono meno interlocutori di una volta. Matricardo ci ha esposto il pensiero di un poliziotto e quando parlava pensavo: ma questo non è il pensiero di un poliziotto, questo è quasi il pensiero di un teorico di questi argomenti, cioè fa impressione sentire certe concezioni, certe teorie che oggi addirittura sono molto confuse. Oggi c’è molta improvvisazione su questi argomenti, sia quando si parla di sicurezza che quando si parla in particolare di Polizia. C’è un sociologo, Salvatore Palidda, che estremizza addirittura il discorso dicendo che in Italia di Polizia non se ne parla e non ne parlano neanche quelli che dovrebbero parlarne, cioè i giuristi o gli studiosi o i sociologi, perché in fondo è considerata sempre una questione di serie B, perché quando parli di Polizia parli di criminalità, parli di cose brutte, di cui in fondo noi non vorremmo sentir parlare. Per rimanere nell’ambito della Polizia, vorrei sottolineare un elemento di cui tanto si è occupato Ambrosini: oggi abbiamo, nella Polizia di Stato, oltre venti sindacati. Il maggiore sindacato, che è quello che ha fatto la storia del sindacato di Polizia, il Siulp si è rotto, si è rotto come un giocattolo. Non credo che ci sia una categoria di lavoratori paragonabile a quella dei poliziotti quando c’è la trattativa con la controparte, cioè lo Stato. Quindi abbiamo oltre venti interlocutori e lo Stato. L’altro elemento che cambia e che ci dà difficoltà ad affrontare la questione oggi è la recente riforma che ha attribuito all’Arma dei Carabinieri il carattere di Quarta Forza Armata e che ha cambiato i rapporti tra Carabinieri e Polizia di Stato. Riccardo, su questo specifico punto, avrebbe riflettuto. Perché questo elemento ci porta alla contrapposizione non solo all’interno della Polizia ma soprattutto tra Polizia e Carabinieri. L’ultimo caso quello del cosiddetto mancato arresto del boss mafioso che un rappresentante dei Carabinieri ha attribuito alla Polizia: ecco un altro elemento che oggi manca cioè una rete di contatti fra Forze di polizia. Questa, per citare un solo esempio, una realtà dei fatti. Spero che questo dialogo sia migliore, tra Polizia e Carabinieri, sia tra categorie interne alla Polizia. La generazione di Riccardo Ambrosini forse è la più delusa. È una generazione delusa da quello che c’è stato dopo quelle grandi aspettative che hanno cambiato la Polizia, l’hanno smilitarizzata, hanno introdotto il sindacato, hanno fatto entrare le donne in Polizia, insomma tutti quegli ideali che hanno cambiato con la Polizia anche la politica italiana e quindi anche l’Italia. È una generazione che in questo momento, mi appare abbastanza delusa perché le cose stanno andando diversamente rispetto a quello che pensavano sia Ambrosini che Fedeli che tanti altri che hanno lottato per cambiare la Polizia. Forse sarebbe il momento di fare un bilancio della Riforma, soprattutto per quanto attiene il rapporto fra la Polizia e i cittadini. Questo rapporto tra Polizia e cittadini oggi a che punto è?
PIER VITTORIO BUFFA
Andruccioli ha parlato di delusione della generazione di Ambrosini; qui c’è Augusto Fabbri, già della Polizia, che diciannove anni fa, insieme ad Ambrosini e Trifirò, confermò la vicenda delle violenze ai terroristi arrestati per il caso Dozier.
AUGUSTO FABBRI
Cos’è cambiato nella Polizia con la battaglia per la smilitarizzazione e la democratizzazione? E se le cose, come è stato detto qui, non sono andate come si sperava, a me non sorprende perché delusioni ne avevo avute anche prima. Io ho fatto la guerra di Liberazione e durante quell’evento tanta gente è morta, ha messo a disposizione la propria vita convinta che una volta finita la guerra le cose sarebbero cambiate, avremmo trovato una società giusta. Sono cambiate le cose? No, non sono cambiate come speravano quelli che hanno combattuto. Quindi non mi sorprende che dopo la battaglia per la Riforma della Polizia non si sia realizzato quello che noi carbonari speravamo. Ma è una cosa che secondo me accade in ogni fase storica. Riescono sempre a inserirsi delle persone che bloccano la spinta innovatrice delle cose. Ambrosini secondo me è stato un poliziotto e un cittadino onesto, coerente con le proprie idee. Lui riteneva che tutto ciò che è lesivo dei diritti della persona andava combattuto. Quindi era coerente. Anche nei momenti critici. Si può essere o non essere d’accordo sul come e quando certe cose si debbono dire però lui è stato coerente. È stato contestato, ma contestato relativamente al tempo, non per quello che ha detto. Dissi ad un generale che venne a fare un’ispezione, a un dato momento: “Senta generale, lei pensa che Ambrosini sia pazzo?” Rispose: “No”. Ed io: “E allora se ha detto quello che ha detto, vero o non vero, qualcuno glielo ha riferito”. Mi spiego: Riccardo Ambrosini voleva bene alla Polizia, sono convinto, però lui vedeva le cose in un determinato modo che secondo me è giusto perché la Polizia è una struttura al servizio dei cittadini. E per essere al servizio dei cittadini bisognava acquistare la fiducia dei cittadini, perché se la Polizia non ha la fiducia dei cittadini le viene a mancare la collaborazione e da sola non riesce a dare sicurezza ai cittadini. Io ricordo la prima volta che ho conosciuto Ambrosini: ricevetti una telefonata da Roma da un amico e paesano, Raffuzzi vecchio carbonaro, mi disse: “Fabbri è stato trasferito a Venezia un capitano della Polizia. È un democratico, uno che crede nel rinnovamento della Polizia, se vuoi puoi avvicinarlo, puoi contattarlo”. Mi ricordo che andai a Santa Chiara e l’incontrai; aveva una facilità di convinzione fuori dal comune; mi fece capire che era una persona di cui ci si poteva fidare e che aveva delle grandi idee e difatti tutti quelli che sono in pensione, vecchi carbonari, sanno che la stragrande maggioranza dei poliziotti a Venezia aderirono al Movimento. E mi ricordo anche quando Riccardo interveniva nei comizi organizzati dalle Confederazioni e che parlava del terrorismo, della sicurezza, e i dirigenti nostri erano li col fiato sospeso che non sapevano che posizione prendere, aspettavano ordini dal Ministero che non arrivavano, non sapevano, dicevano: “Senti adesso sta parlando il biondino”, temevano chissà che dicesse, invece diceva quello che pensava, cioè sulla funzione che doveva avere la Polizia, sulla necessità di stringere dei legami con i lavoratori, con tutte le classi sociali e con tutti i ceti della nostra società per far sì che la Polizia diventasse più efficiente e garantisse la sicurezza. Io credo che non solo la Polizia ma anche tutto il Paese debba molto a Riccardo Ambrosini, egli ha affrontato con coraggio la situazione che gli si poneva davanti, ha saputo affrontare anche con dignità le critiche che gli sono state mosse, senza mai allontanarsi da quelle che erano le sue idee, i suoi principi. A Riccardo Ambrosini gli dobbiamo tutti molto. Grazie
PAOLO COSTA (Sindaco di Venezia)
Ringrazio Pier Vittorio Buffa per avermi dato non soltanto l’occasione di essere qui e di soffermarmi su un libro che difficilmente avrei immaginato di dover leggere. Ho accettato per il tributo che va sicuramente pagato a una persona che ha avuto un ruolo (forse per ingenuità) nella lotta per cambiare la vita del Paese lavorando sul microcosmo in cui operava. E ho accettato anche se non ho nessun particolare titolo per dire qualcosa in più su quanto Ambrosini ha detto e ha fatto. [...] Ho letto con attenzione uno dei capitoli dove si riportava la lettera aperta di Ambrosini al ministro Napolitano. È una lettera in cui io immaginavo che un poliziotto che si rivolge al ministro degli Interni parlasse di Polizia; invece parla di tutto fuorché di Polizia. E forse gli pone il problema fondamentale. Il problema che si pone chi ha dentro di sé questa tensione a rigenerare moralmente il nostro Paese. Io, quella lettera, l’ho letta in questa chiave. Ambrosini si rivolge al ministro Napolitano, ministro di quel governo 95/96/97 novembre 98 non molto di più, che io credo un piccolo segno lo ha lasciato e comunque aveva sollecitato una speranza, una possibilità che si ritornasse a che cosa? Il tema che io posso soltanto ribadire e cioè quello che il nostro è un Paese che in ogni momento, sempre di più, probabilmente lo sta facendo nel lungo periodo ma è difficile per noi percepirlo tutti i giorni, diventa un Paese in cui lo stato di diritto e la democrazia si affermano in maniera compiuta e che in qualche momento ci sembra che questo non sia, che ha bisogno di rafforzare le sue istituzioni, che ha bisogno di rafforzare il suo modo di farci sentire tutti un po’ meno sudditi e un po’ più cittadini. Se voi la rileggete troverete una tesi fondamentale: in un Paese che si sta rigenerando questo deve avvenire sul filo della rettitudine, della giustizia, di un rigore che il potere deve chiedere prima a se stesso che agli altri. [...] È evidente che un potere che voglia esercitarsi nella rettitudine, nella giustizia e nel rigore, è un potere che deve dotarsi di strumenti, che siano capaci di imporre rettitudine, giustizia e rigore a se stesso. E questo può essere fatto soltanto se lo strumento non è uno strumento che dipende dal potere, ma è controbilanciato dal controllo democratico. Da questo mi sembra che il processo che la Polizia ha fatto, in tutti gli anni, segnati anche dall’esperienza umana di Ambrosini, sono tributi pagati non certo alla demagogia. Questa idea che la Polizia si doveva aprire, doveva contattare di più i lavoratori, gli studenti e così via, in quanto aperta al controllo democratico, diventa effettivo strumento perché il potere faccia il suo mestiere, si eserciti, scelga, cerchi di imporre il suo progetto di verità, ma lo faccia sul filo della rettitudine, della giustizia e del rigore. [...] Il nostro Paese, anche grazie agli eroi oscuri come Ambrosini, fa un passo in avanti uscendo da una società che in qualche misura idealizzava la furbizia ad una società che idealizzando il rigore consente a tutti noi di guardare in avanti con un po’ più di ottimismo e di immaginare appunto che anche esperienze di vita così intense come queste siano parte di una trama necessaria, di una trama utile, alla quale noi dovremmo pagare un tributo cercando, per il proprio specifico, per le cose che deve fare, di dare il proprio contributo di rettitudine, di giustizia e di rigore.
PAOLO CARLOTTO (Segretario regionale Silp-Cgil)
Sono entrato in Polizia dopo che era stata emanata la Riforma, quindi dopo il 1981, e ho iniziato molto tardi la mia attività sindacale, cioè solo all’inizio degli anni 90, più o meno quando Ambrosini scriveva le ultime riflessioni sul sindacato. Io Ambrosini come sindacalista l’ho conosciuto solamente per quello che scriveva, per quello che ha scritto su Nuova Polizia e su Polizia e Democrazia. Non sono quindi nato sindacalmente con le aspettative che aveva Fabbri e che avevano tutti quelli che si sono impegnati per la Riforma della Polizia, che, tra l’altro, ha tolto alla struttura quella specie di recinto in cui si trovava, una sorta di organismo dello Stato, fuori dallo Stato, non un antistato ma comunque con una caratteristica di separatezza accentuata anche dal fatto di avere un ordinamento militare. Su questo avevo certezze, nel senso che davo per assodato che io ero entrato in una agenzia di sicurezza che era già democratica, già sindacalizzata, già smilitarizzata. Nel corso degli anni però, mi sono reso conto che la spinta iniziale andava lentamente scemando, finiva l’onda lunga della democrazia all’interno della Polizia, l’onda lunga della voglia della Polizia di essere parte attiva della società, e piano piano si andava evidenziando quella che molti di noi poliziotti chiamano una deriva corporativa. Deriva corporativa della Polizia, dei poliziotti e anche del sindacalismo. Mi spiego: il sindacalismo in Polizia è nato sulla spinta delle Confederazioni, di un sindacato confederale. I poliziotti non volevano solo il diritto di poter discutere delle proprie caserme o dei propri orari, ma di discutere del loro essere poliziotti e del loro essere cittadini. E questo attraverso una forma di rappresentanza e di tutela che non sia esclusivamente tutela di una categoria, ma tutela della persona nel senso più pieno del termine. Quello che invece è successo e sta tuttora succedendo è stato un aumento di questa corporatività all’interno della Polizia. Questo comporta sempre di più un distacco dagli altri soggetti sociali e forse in qualche modo può a mio avviso spiegare quello che Andruccioli diceva prima, e cioè questo ritornare della Polizia come braccio armato. Non credo che questo sia vero, è vero però quello che diceva Andruccioli, cioè che si ricomincia a parlare in questi termini, il ricominciare a parlare in questi termini è dato proprio da questo aumento della distanza, questo ritornare indietro e quindi ricreare una distanza tra quella che è la Polizia, quello che sono i poliziotti e quello che è la società fuori. Il sindacato deve avere la capacità di guardare quello che c’è fuori dalle caserme, di immaginare la propria attività anche al di fuori delle caserme e quindi non guardare esclusivamente ai diritti dei poliziotti dentro le caserme ma guardare i diritti dei poliziotti in quanto poliziotti ma anche in quanto cittadini. Diversamente, questo essere corporativi non farà altro che aumentare la distanza, il distacco con la società. [...] Ha detto bene Fabbri: Ambrosini prima di tutto si sentiva orgoglioso di essere un poliziotto ed è vero che, come lui stesso scriveva, sia al piccolo crimine che al grande crimine bisogna dare la stessa importanza, anche quando, purtroppo, i crimini vengono commessi da poliziotti (mi riferisco al caso Dozier e ai terroristi torturati). Non credo che Ambrosini avesse pensato alle conseguenze politiche o al fatto se era meglio aspettare due mesi piuttosto che sei mesi a denunciarlo, credo che sia stata una cosa che ha sentito dentro e ha dovuto denunciare senza alcun tipo di valutazione opportunistica o di accondiscendenza ad una real politic. Ho conosciuto tre Ambrosini diversi a dire il vero. Il primo è quello che scriveva e che tutti potete leggere per cui non mi dilungo. Il secondo era quello raccontato e anche qui c’erano varie sfaccettature, varie sfumature di Ambrosini, c’erano quelli che lo raccontavano bene, c’erano quelli che lo vedevano come un sovversivo; poi ho conosciuto un terzo Ambrosini che è stato il mio dirigente quando sono arrivato, allora ero un giovane agente, al commissariato di San Marco e incuteva più timore ai suoi superiori che ai suoi sottoposti, e che io ricordo con particolare affetto perché il giorno in cui arrivai a Venezia trasferito, ho avuto la fortuna di trovare Ambrosini che passava esattamente da dove stavo uscendo io e che mi disse: “Vieni, ti accompagno io”.E la cosa che più mi ha fatto piacere è che quest’uomo ha perso non la mezz’ora che bastava per andare da Santa Chiara all’allora commissariato di San Marco, ma ha perso un’ora e mezza per girare con me e raccontarmi come vedeva la sua Venezia
PIER VITTORIO BUFFA
Adesso tocca a Luigi Notari, si è messo qua al mio fianco, segretario nazionale del Siulp, che cosa chiedere a lui? Io rifaccio la stessa domanda perché mi piacerebbe andare un po’ nel fondo, capire, riuscire a fare veramente un bilancio, cioè dire ma allora quanto è stato fatto e quanto non è stato fatto? Perché non siamo riusciti a fare quello? È colpa nostra, dei poliziotti, è colpa dei politici, di chi è colpa se un tot percento, adesso banalizzo e mi scuso, non è stato fatto? Compitino da niente!
LUIGI NOTARI (Segretario nazionale del Siulp)
Ambrosini rimane un esempio di educatore. Lui è stato un cittadino che ha avuto il privilegio di essere visibile, per il suo proprio ruolo, per quel che rappresentava, la sua storia così intensa, però ripeto è stato un educatore. È importante che un periodico come Polizia e Democrazia e dei giornalisti abbiano ritenuto opportuno pubblicare questa raccolta dei suoi discorsi, di alcune pagine della sua vita molto importanti, perché Ambrosini rappresenta proprio il fulcro della discussione che stiamo facendo Quindi una pagina di cultura democratica ma in particolare di cultura della trasparenza. Io ho vissuto quel periodo, sono stato anch’io iniziato all’attività sindacale, ho avuto anche una cultura mia personale, delle esigenze personali, proprio da alcune di queste persone che cresciute all’interno dell’organizzazione di Polizia hanno cercato di dare un contributo di cambiamento. Queste persone sono Eroi senza medaglia, come le definiva Franco Fedeli, però ci sono alcuni che per la loro visibilità e per l’operare nella struttura gerarchica, io parlo di chi era un dirigente di Polizia, chiaramente hanno avuto la possibilità di essere più visibili dagli altri, dai lavoratori, dai cittadini, perché in una società come la nostra chi ha uno stato di un certo tipo nel bene e nel male è più visibile. Ambrosini, come hanno detto in tanti, era un grande educatore che in un certo momento è diventato però un corpo estraneo. Come tanti altri corpi estranei, lui era venuto in una situazione drammatica su un fatto in cui il Paese aveva traguardato per certi aspetti la sconfitta militare del terrorismo, quindi in un momento di grande euforia delle Istituzioni e del Paese, e lui aveva avuto il coraggio, in questo traguardare, di trovare dei passaggi che non erano in sintonia con la storia, il progetto di Riforma in Polizia. Io stesso, che provengo dai reparti antiterrorismo, non ho mai avuto sentore di torture o atti come denunciati da Ambrosini. Sono avvenute proprio in quel periodo, sono avvenute direi proprio a gennaio di quegli anni, sono avvenute con la Riforma di Polizia in atto, cosa strana, quando la Polizia raggiunge, traguarda un appuntamento così importante al proprio interno avvengono questi fatti che proprio io sinceramente non ho mai visto, cioè il grande criminale, il grande terrorista non l’ho mai visto toccare io personalmente, Magari il debole e l’ubriacone sì, mai il forte, il criminale politico a quel livello che è una persona che fa paura, il grande criminale non l’ho mai visto toccare in una questura, a tutt’oggi, io non ho mai visto toccare un alto criminale in una stazione di Polizia. Vi dirò di più. Martedì grasso è stato pestato un poliziotto all’interno della caserma dei Carabinieri. La cosa è uscita grazie al fatto che ad andare a ritirare questo poliziotto, diciamo a ritirare perché era un pacco, è andato un altro poliziotto in divisa. Ci sono diverse versioni, sta di fatto che è stata picchiata una persona dentro un posto di Polizia, poteva essere dei Carabinieri o della Polizia di Stato, è avvenuto all’interno di una caserma dei Carabinieri, forse all’inizio non si sapeva chi era. È accaduto ad un ispettore della Polizia di Stato, non se ne sono accorti, non si capisce bene. La cosa ad ogni modo è venuta fuori grazie al fatto che a prendere questo poliziotto c’è andato un delegato del sindacato. Se non ci andava un delegato sindacale la cosa non veniva fuori. Perché il poliziotto pestato si vergogna, forse ha commesso qualche fatto antecedente il pestaggio in un luogo pubblico, in una discoteca, quindi ha paura delle conseguenze, diciamo disciplinari. Eppure è una persona estremamente corretta, direi proprio uno dei figlioli più prediletti dell’organizzazione, iscritto pure al sindacato quindi diciamo conservatore, molto attento alle questioni interne della Polizia, ligio alle regole interne. Questa cosa è venuta fuori perché noi siamo riusciti, grazie a questo sindacalista che mi ha telefonato a Roma, a venirne a conoscenza. Io ho preso il mio trenino, pancia a terra sono arrivato sul posto, la mattina dopo siamo riusciti bene o male a sentire le persone, io ho visto le foto del pestaggio, mi sono state date poi ritirate perché le volevo fare vedere a qualche giornalista, non le potevo dare perché è un atto giuridico. Però farle vedere lo avrei fatto, perché solo guardando le foto uno si rende conto di quello che è avvenuto in una caserma dello Stato, delle Istituzioni, la notte di martedì grasso. Vi racconto queste esperienze mie personali perché, nonostante il poliziotto sia vittima, l’ambiente che lo circonda ha cercato di mantenere il riservo, pur essendo vittima, quindi il suo capo ufficio diceva no non dirla perché poi gli crei problemi disciplinari, mi raccomando non facciamo nulla. Insomma non siamo riusciti a creare qualcosa, a fare un documento sindacale, non siamo riusciti perché il collega non l’ha voluto, non hanno voluto i suoi amici del posto di Polizia, è un piccolo posto di Polizia con 10/15 persone quindi è una famiglia, ecco la famosa famiglia. Qui torniamo ad Ambrosini, quindi al suo grande esempio. La cultura della trasparenza che progressi ha fatto? Ambrosini si è battuto per uno degli elementi più forti, cioè la trasparenza. Un’istituzione deve essere trasparente. Ci sono anche dei segnali positivi in questo senso. Tempo fa il vice capo della Polizia è venuto a un convegno nostro e si è parlato del potere, quest’argomento trattato da chi mi ha preceduto, ha detto una cosa che non avevo mai sentito, quindi in senso positivo, diceva “invece dell’esercizio del potere ci dobbiamo preparare a un altro percorso, l’esercizio del dovere”. Mi sembra che qualche cosa si è seminato in questi anni, se a quei livelli li c’è qualcuno che ragiona in questi termini. È importante che vengano dette queste cose ai giovani poliziotti, chi ascolta, che invece dell’esercizio del potere dobbiamo fare l’esercizio del dovere, mi sembra già che qualche cosa di positivo sia stato seminato. Però il problema torna ancora indietro, mi permetto di dire.Torniamo al problema del rapporto con la gerarchia, qui parliamo sempre di Riccardo Ambrosini. Riccardo Ambrosini, diversamente da molti di noi, apparteneva all’élite della Polizia. Questo è il grande dilemma. Noi abbiamo ad esempio associazioni di dirigenti, tutte associazioni che se vai a vedere poi alla fine più che a loro stessi cercano di non far prendere ad altri i privilegi, non so se mi spiego. Cioè noi stiamo passando una stagione corporativa. Anzi non siamo neppure corporativi perché il corporativo porta qualcosa a casa per se, di solito. Noi delle volte abbiamo delle forme tali di separatezza culturale che non siamo neanche capaci di portare a casa qualcosa per noi. Torniamo all’Ambrosini educatore. Le scuole di Polizia, che non se ne parla, è li il dilemma, la cultura della trasparenza dove deve essere, dove se ne deve parlare. C’è un problema di formazione del ruolo sociale del poliziotto. Ecco il ruolo sociale, un ruolo che spesso e volentieri appartiene sempre più allo “spazzino sociale”, più che all’operatore sociale. C’è sempre il ruolo di chi fa un po’ tutto, tuttologo, quello che ha la mano per escludere gli altri, non integrarli. Quindi tutti questi ragionamenti della politica portano in particolare al problema dell’esclusione sociale. Il poliziotto è capace di reggere questo fenomeno, quello che avviene. Ora però ci sono anche forze che vogliono restringere certe leggi e magari andare contro i principi della Repubblica. E speriamo che questo non avvenga.
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