Nella città lagunare un interessante dibattito sul volume che raccoglie gli scritti di uno dei più appassionati sostenitori del Movimento per la riforma della Polizia.
Pubblichiamo stralci degli interventi
Il 9 marzo, a Venezia, in una sala dell’Ateneo Veneto, c’eravamo dati appuntamento per parlare di Riccardo Ambrosini, di quello che aveva fatto e scritto, del libro che raccoglie i suoi saggi e i suoi interventi pubblici. C’erano il sindacato di oggi e il sindacato di ieri, poliziotti in pensione e poliziotti nel pieno della loro attività.
Diciannove anni prima, in quegli stessi giorni di marzo, quando mancavano poche settimane al primo congresso del Siulp, Ambrosini, Gianni Trifirò e Augusto Fabbri salivano le scale della procura della Repubblica di Venezia per confermare al magistrato che brigatisti arrestati erano stati sottoposti a sevizie, a torture, in un distretto di Polizia. Si limitarono a confermare "l’esistenza di voci", ma il loro esporsi in prima persona fu così coraggioso e inaspettato che ebbe un effetto dirompente. La marcia trionfale verso il congresso si trasformò in giorni di durissima polemica. Davvero essere poliziotti democratici voleva dire essere capaci di denunciare anche i propri compagni? Oppure Ambrosini e gli altri avevano semplicemente dirazzato rompendo l’omertà di sempre?
"Al congresso - ha raccontato all’Ateneo Veneto Luigi Notari - Ambrosini era solo. Nessuno gli si avvicinava, nessuno gli parlava. La mattina dopo mi sedetti accanto a lui, facemmo colazione insieme".
Fu questa la risposta del primo sindacato di Polizia della storia d’Italia a chi aveva cercato di dare il via a una stagione di trasparenza e coraggio. L’isolamento più duro, la messa in un angolo, la riconferma dell’autodifesa di casta.
Eppure i tre poliziotti che erano andati dal magistrato veneziano avevano interpretato alla lettera lo spirito che aveva dominato la lunga battaglia per la Riforma. Perché gli uomini che si incontravano in segreto rischiando ogni giorno il carcere militare volevano una Polizia efficiente e trasparente, capace di stare davvero dalla parte dei cittadini. Volevano che la gente entrasse con fiducia in commissariati e distretti, che l’uso delle armi fosse ridotto al minimo, che violenza e repressione lasciassero sempre più posto alla prevenzione e al dialogo.
Si è tutto perso per strada? L’animo carbonaro, come amano dire i poliziotti che diedero vita al Movimento, è stato ucciso dal proliferare dei sindacati e dal corporativismo esasperato?
Verrebbe da rispondere che sì, tutto è andato perduto nel momento stesso in cui parte del sindacato che doveva guidare il rinnovamento è diventato strumento di potere e di contrattazione. Anche perché chi ha vissuto quegli anni da protagonista o da testimone viene colto facilmente dalla nostalgia per un sogno chiaro e affascinante che non si è mai visto compiutamente realizzato.
Ma sarebbe ingiusto e semplicistico chiudere così la questione. Le grandi riforme, quelle profonde, destinate a intaccare tessuti connettivi saldi e vivi, non possono essere considerate bacchette magiche che ottengono risultati in un batter d’occhio oppure falliscono.
Negli anni Settanta la Pubblica Sicurezza era un Corpo militare con alle spalle la violenza dei reparti celere, gli scontri di piazza, gli episodi bui, le pistole troppo facili. I primi tentativi di organizzazione efficiente, come il servizio di sicurezza di Emilio Santillo, mettevano in discussione rapporti di forza consolidatisi nei decenni e l’unica Polizia che sembrava capace di contrastare il terrorismo era l’Arma dei Carabinieri. Da qui parte il Movimento e su questo humus mette le radici la Polizia di Stato. Radici che hanno trovato subito grandi difficoltà a svilupparsi, ma che alla fine hanno potuto ancorarsi saldamente al terreno.
Questo ci siamo detti nel pomeriggio del 9 marzo all’Ateneo Veneto. Non c’era euforia o gioia nelle parole di chi si è succeduto al microfono. Ma due diversi stati d’animo.
I movimentisti, quelli che si considerano padri della Polizia di oggi, hanno, con pudore, lasciato intuire l’intima soddisfazione di essere stati protagonisti di quel cambiamento.
I giovani, quelli che le stellette sul bavero non le hanno mai avute, hanno detto che la loro Polizia è questa, quella costruita da chi è venuto prima di loro, e che questa è la Polizia che vogliono difendere e migliorare.
È il più sincero bilancio di vent’anni di Riforma, la coscienza del testimone che passa di mano per raggiungere sempre lo stesso obiettivo.
Certo, ci sono i tanti sindacati e sindacatini, persino il Siulp non è più il Siulp. E c’è la difesa dei mille interessi, il corporativismo che in questi vent’anni ha preso troppo spesso il sopravvento sul resto.
Un poliziotto, uno dei tre che nel 1982 salì le scale della procura della Repubblica di Venezia, ha interpretato nel modo più estremo l’attaccamento ai propri ideali. Quando la sua pistola ha ucciso, Gianni Trifirò ha rivolto la stessa arma contro se stesso perché la Polizia che lui aveva sognato non era quella che uccideva un uomo inseguito. Bisogna ricordarsi di lui per non arrendersi di fronte all’intreccio paralizzante di poteri e contropoteri. La Polizia di Stato non è più la Pubblica Sicurezza, ma non è ancora la Polizia che Trifirò aveva nel cuore. I ragazzi che hanno raccolto il testimone devono averlo ben chiaro perché nessuno voleva togliersi le stellette per avere davanti decine di sindacati. Come nessuno voleva la tessera sindacale per fare carriera o difendere privilegi.
All’Ateneo Veneto, verso la fine del dibattito, un poliziotto in pensione si è chiesto ad alta voce se vent’anni prima, denunciando le torture non si fosse dimenticato chi era morto per mano di terroristi. Se insomma, le torture fossero, in fondo, ben poca cosa. Nessuno l’ha seguito, la sua voce è rimasta isolata, è stato lasciato in un angolo come accadde ad Ambrosini al primo congresso del Siulp.
Questo è quello che è cambiato nella Polizia e da qui bisogna ripartire per continuare il lungo cammino verso la Polizia "trasparente ed efficiente".
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