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maggio/2001 - Interviste
1981-2001
Atteggiamento sbagliato
di Francesco Forleo

“Noi, quelli di allora, non siamo più gli stessi / eppure restiamo uguali”. Sono i versi di una bellissima poesia che molto si attaglia al processo di riforma della Polizia, avviato con la legge 1º aprile del 1981.

Parlo di avvio con il senno del poi e con l’esperienza di questi ultimi vent’anni trascorsi tra il sindacato, il Parlamento e il servizio attivo in Polizia.

Lo dico con senso anche autocritico perché una legge detta norme, criteri, soluzioni. Ma la legge deve anche modificare mentalità, consuetudini, procedure. Deve insomma entrare nella testa della gente.

Misurarsi con le nostre aspettative, con i nostri egoismi.

L’essere partiti con la convinzione che il dettato legislativo potesse immediatamente dispiegare i suoi effetti fu un errore da parte del sindacato.

Parlo di errore, assumendomene per primo la responsabilità, perché si aprì con l’Amministrazione della Ps e con i vertici governativi, dopo il varo della Riforma, un confronto caratterizzato spesso da pesanti proteste sulle vere o presunte inadempienze.

Fu un atteggiamento sbagliato che indusse il sindacato a sostenere una linea di preconcetta contestazione che offuscò la grande carica di innovazione, di proposta e di mediazione che ci avevano visti vincenti nella fase precedente il varo della Riforma.

Abbandonammo per essere chiari l’unica strada per avviare il processo riformatore.

Sarebbe interessante, perché è sempre più necessario capire, quali furono le cause che ci portarono ad assumere quelle posizioni intransigenti.

Così come fu un errore di valutazione politica non comprendere che il rapimento e l’uccisione di Moro da parte delle Br avevano profondamente modificato il quadro politico e messo in crisi i due principali partiti italiani: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano.

Se il Paese usciva comunque vincitore dalla lunga stagione dell’eversione, i prezzi pagati dallo Stato furono altissimi.

Molto si è letto e molto si è scritto sulle vicende del terrorismo. Sugli intrighi, sulle deviazioni.

Neanche una parola è stata spesa per i molti servitori dello Stato, primi tra tutti magistrati e Forze dell’ordine, che in quegli anni avevano pagato un alto tributo di sangue.

Voglio ricordare in particolare il funzionario di Polizia, dott. Antonio Esposito, assassinato dalle Br, a Genova, il 21 giugno nel 1978, su un autobus cittadino mentre si recava in ufficio.

Tra i lunghi elenchi delle vittime del terrorismo il suo nome spesso non compare.

Ancora una volta più della legge valse la forza dei fatti. La realtà di ogni giorno.

E fu il terrorismo che ci costrinse a compiere un salto di qualità sul piano umano culturale e professionale.

Su questo fronte il sindacato può onestamente vantare di aver dato un contributo senza uguali in termini di crescita democratica e nella difesa della democrazia nel nostro Paese. In quegli anni maturò nella coscienza dei poliziotti la consapevolezza dell’alta funzione che il Paese ci aveva assegnato.

L’attuazione della legge di riforma procedeva stancamente fra decreti e circolari senza riuscire a cogliere il salto qualitativo compiuto dalle donne e dagli uomini della Polizia italiana.

Non era, come più volte ho ribadito, solo e soltanto, risolvere il riordino delle carriere, incrementare le retribuzioni, modernizzare le strutture. Si trattava soprattutto di cogliere e dare atto della complessiva crescita delle nostre Forze di polizia, riconoscendo in particolare la dignità acquisita dai poliziotti nel lungo percorso tra la divisa grigioverde con le stellette e l’acquisito stato civile, nella peculiare e convinta funzione di rappresentante dello Stato e della Polizia.

Liberare i colleghi dai vecchi schemi gerarchici, assegnando loro, a ciascuno di loro, le responsabilità proprie della rinnovata funzione. Renderli insomma consapevoli che la condizione di separatezza nei confronti del cittadino era un retaggio del passato.

Spettava loro, cittadini fra cittadini, garantire la serena e pacifica convivenza, indipendentemente dalla qualifica rivestita e dalle mansioni esercitate.

La Polizia, come l’Arma dei Carabinieri, ma anche la stessa Polizia Penitenziaria, non poteva più essere considerata truppa o peggio un aggregato di numeri.

In questa incompiuta evoluzione i mali vecchi quali la mafia, la camorra e la ’ndrangheta, rinvigoriti dagli ingenti flussi di danaro provenienti dal traffico delle sostanze stupefacenti e dagli aumentati finanziamenti pubblici, ci indussero a subire una linea di incremento degli organici.

In un decennio la Polizia passò da circa 70.000 a 100.000 appartenenti e lo stesso dicasi, in termini percentuali, per le altre Forze dell’ordine.

E la crescita continua ancora!

È vero, ogni giorno sorgono nuove emergenze. Fenomeni fino a poco fa sconosciuti, quale l’immigrazione, richiedono un impegno assiduo e assillante con l’impiego di moltissimo personale.

Eppure io credo, fuori da ricette miracolistiche, che la strada non possa essere solo quella dell’incremento degli organici. Non c’è città, grande o piccola, che non lamenti carenze di organico.

Il rischio di una spirale senza fine che punti solo sulla quantità a scapito magari della qualità.

Occorre por mano alle questioni strategiche che sappiano ridurre le dispersioni, le sovrapposizioni.

Occorre rivedere le questioni connesse al coordinamento, sia nella sede nazionale che in quella provinciale, senza mortificare nessuna Forza di polizia, esaltandone le peculiarità e le naturali vocazioni.

Occorre ancora una rivisitazione interna ai Corpi. Troppi uomini sono impiegati in compiti non d’Istituto, che già la legge 121 aveva ridimensionato, ma per la sola Polizia di Stato.

Tutta l’Amministrazione statale disperde eccessive risorse, umane e finanziarie, nel gestire se stessa.

Non si tratta di opinioni personali, ma di convinzioni che si fanno strada fra quanti, nella Pubblica amministrazione, rivestono alte responsabilità.

E in questo senso è onesto segnalare comportamenti che lasciano ben sperare.

Certo, venti anni non sono poca cosa, ma resto ancora convinto che la legge di riforma sia stata, e lo sia tuttora, una ottima legge.

Per quel che mi riguarda sono consapevole degli errori compiuti, ma sono altrettanto conscio che il lavoro di ciascuno di noi debba sempre fare i conti con le condizioni esterne che possono favorire o rallentare i processi di ammodernamento.

In questa consapevolezza, pur amara, ritengo che il nostro agire di allora, le nostre idealità, ma anche gli errori compiuti, ci abbiano cambiati. E, sia detto con umiltà, siamo cambiati in meglio, proprio perché, come dice il poeta, restiamo uguali nella ferma convinzione che si possa e si debba fare di più.

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