Si è aperto, e concluso, ad Atene un processo del quale si attende la sentenza, per giudicare il ricorso di alcuni abitanti dell’isola di Lesbo, resa famosa dalla poetessa Saffo (VII a.C.), che chiedono di vietare l’uso della parola “lesbiche” nella sigla dell’Associazione omosessuali e lesbiche Olke. I querelanti sostengono che l’uso di quel termine nel nome dell’associazione danneggia la reputazione degli abitanti di Lesbo, e in particolare della sua popolazione femminile; in realtà questo dovrebbe essere il primo passo per riservare il termine (derivato dalle supposte preferenze sessuali di Saffo) esclusivamente agli abitanti dell’isola, che peraltro vede da tempo un notevole flusso turistico alimentato, oltre che dalle bellezze naturali, proprio dalla suggestiva reputazione della grande letterata greca.
“La parola ‘lesbica per indicare l’omosessualità femminile è usata da centinaia di anni, non siamo stati noi a inventarla – ha dichiarato all’Ansa Mario Eliakis, vicepresidente dell’Olke – Del resto, vietare in Grecia quel termine usato anche negli altri Paesi non servirebbe a nulla. Vogliono forse proibirlo in tutto il mondo? Il caso è assurdo. E si tratta dell’iniziativa di poche persone, la maggioranza degli abitanti di Lesbo è dalla nostra parte, compreso il sindaco di Eressos”. E’ questa la località dove nacque Saffo.
Sperando forse di solleticare l’orgoglio nazionale dei giudici, i querelanti hanno paragonato il caso da loro esposto alla disputa fra Atene e Skopje sull’uso del nome “Macedonia”.
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