La causa è il surriscaldamento provocato dalla diffusione di sostanze inquinanti: i grandi ghiacciai tibetani, le masse innevate che coprono vette che superano gli ottomila metri, si stanno riducendo. Negli ultimi vent’anni la riduzione è stata dell’8%, mentre cresce la temperatura, e calano le piogge fino all’80%. L’allarme viene dall’amministrazione meteorologica di Pechino, in un rapporto sul clima nella regione himalayana: negli ultimi cinquant’anni la temperatura media in Tibet si è alzata di quasi 1,5 gradi, provocando il ritiro di circa il 90% della massa ghiacciata, la più grande del pianeta dopo quelle polari.
Si calcola che mantenendosi l’attuale ritmo di scioglimento i ghiacciai himalayani potrebbero scomparire nei prossimi trent’anni. Qui Dahe, direttore dell’Accademia cinese delle Scienze, ha dichiarato che “il maggiore assorbimento di radiazioni solari in Tibet sta modificando intensità e durata dei monsoni estivi nell’intera Asia. La conseguenza, come vediamo, sono la siccità nell’India settentrionale e le alluvioni nella Cina meridionale”. La costante riduzione dei ghiacciai tibetani provocherebbe il prosciugamento di fiumi indiani (Gange, Indo) e cinesi. Già ora le mandrie di yak stentano a trovare pascoli sufficienti, e cercano di spostarsi verso la Mongolia, ma la desertificazione di quelle montagne obbligherebbe milioni di persone ad emigrare.
Affrontando questa minaccia climatica, per la Cina si pone il problema di fissare un limite alle emissioni provocate da uno sviluppo industriale che la colloca nelle posizioni di testa fra le nazioni inquinanti. Si calcola che per i prossimi dieci anni il 70% dell’energia cinese sarà fornita dal carbone, e certamente la crisi economica globale non favorisce gli investimenti per la riconversione a energie “pulite”.
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