In Italia, la crisi del sistema politico degli anni Novanta ha favorito la rottura del tradizionale equilibrio di reciproca legittimazione tra le forze politiche che è il fondamento di ogni assetto costituzionale democratico basato sulla rappresentanza parlamentare.
Questa rottura ha determinato la nascita e il consolidamento di un contesto di contraddizioni e criticità sociali all’interno del quale la gestione della sicurezza moltiplica ogni giorno di più i suoi caratteri di problematicità.
Una delle caratteristiche di questo contesto è il mutamento qualitativo della percezione dell’autorità e della presenza dello Stato nella società, sia nella componente che osserva le regole che in quella incline a violarle e a perpetrare reati.
Oggi, la presenza di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio ha una valenza diversa, rispetto al passato, in riferimento alla possibilità di scoraggiare la reiterazione di comportamenti illeciti e infondere un senso di rassicurante protezione al cittadino onesto.
Del resto, sotto questo specifico aspetto sono emblematici i ricorrenti episodi di violenza posti in essere in danno di insegnanti, medici e addetti ai pronto soccorso, autisti di mezzi pubblici, nonché gli accerchiamenti subiti dalle forze di Polizia nel corso di interventi effettuati nei territori metropolitani o nelle periferie sub urbane.
In siffatto contesto, le carenze, di equipaggiamento e di mezzi, generate dalla scarsità di risorse e dalle lunghe e defatiganti procedure di approvvigionamento (non è un segreto il fatto che la divisa operativa non sia ancora, a distanza di anni, in dotazione e nella disponibilità di molti uffici e reparti territoriali), moltiplicano esponenzialmente le difficoltà operative di chi deve assicurare il controllo del territorio e gli interventi a tutela di cose e persone.
Ma oggi, fondamentalmente, chi opera nelle help profession, nei pubblici servizi e rappresenta lo Stato, avverte la mancanza di un sistema di efficaci tutele a garanzia della propria attività. Avanza e si fa strada, negli operatori della sicurezza, un senso di solitudine unitamente all’amara consapevolezza del capovolgimento della presunzione di legittimità delle azioni e dei comportamenti connessi alla propria mission istituzionale.
Forse non si comprende che il problema non è la persona che indossa un’uniforme o svolge un pubblico servizio ma ciò che quella persona rappresenta.
Probabilmente un ruolo decisivo lo ha giocato, anche, un certo atteggiamento della politica consistente nell’incapacità di distinguere e separare la delegittimazione dell’avversario dalla delegittimazione del sistema.
Ed è proprio la delegittimazione del sistema che ha armato la mano del folle che ha sparato al carabiniere Giuseppe Giangrande, davanti a Palazzo Chigi, il 28 aprile 2013. In quell’uniforme egli ha individuato il simbolo e il rappresentante del sistema nei confronti del quale era montata la sua folle e sconsiderata collera sociale.
Chi esercita una pubblica funzione non è solo un mero servitore della Stato ma è anche lo Stato stesso, nell’esercizio di vitali funzioni che ad esso sono demandate in via esclusiva o concorrente e che rappresentano la conditio sine qua non per ogni democrazia avanzata e moderna.
Tollerare le violenze nei confronti di insegnanti, sanitari, conducenti di mezzi pubblici e operatori di Polizia, oltre ad incrinare la fiducia dei cittadini nello Stato, rischia di provocare una cesura non indolore tra lo Stato e chi lo rappresenta, in forza della quale nessuno, domani, sarà disposto a farsi carico dell’esigenza di far rispettare la legge e le regole della convivenza civile. Il rischio concreto è quello di una infinita catena di deresponsabilizzazione che manderebbe in corto circuito il sistema democratico.
L’insicurezza deriva anche e soprattutto dalla preoccupazione per il tipo di risposta pubblica all’emergere di nuove minacce e alcuni studi sociologici hanno evidenziato come di fronte alla difficoltà di rapportare le strategie della sicurezza ai bisogni sociali, emerga in Europa e in Italia una pluralità di proposte di autodifesa dal basso che oltre a mettere in crisi il ruolo dello Stato come garante della la sicurezza, producono rimedi e soluzioni parziali, estemporanei e soprattutto pericolosi.
Il sistema tiene ancora perché molti cosiddetti servitori dello Stato credono nel loro ruolo e nel loro lavoro. Delegittimare la loro attività e ridimensionarne il valore simbolico non fa bene a nessuno e rappresenta un pericolo per la democrazia.
Alla domanda di tutela si deve rispondere modificando le strategie della sicurezza in direzione di una operosità e di una cura istituzionale capaci di diffondere certezze in tutti coloro che sono chiamati ad espletare funzioni pubbliche, con particolare riguardo alle professioni sociali e a coloro che sono chiamati a garantire l’ordine e la sicurezza pubblica.
Solo così sarà possibile restituire a tutti i cittadini la percezione dell’efficacia di una risposta pubblica all’illegalità, capace di tutelare, garantire e rinnovare un impegno di cui la società civile non può fare a meno.
Coloro che sono ai vertici degli apparati deputati alla sicurezza, anche per convenienza personale e non dell’istituzione che rappresentano ovvero perché colpiti da revanscismo contro tutti coloro che in questi anni hanno lavorato per affermare un concetto di sicurezza intesa come legalità e quindi come emancipazione culturale oltre che sociale della nostra comunità in contrapposizione di quello securitario che privilegia la costruzione delle “fabbriche delle paure”, non è che abbiano sinora dimostrato tanta attenzione e sensibilità rispetto a questa esigenza.
Ma questa è un altra storia e la racconteremo in seguito.
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