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Maggio-Giugno/2006 - La 'nera' al microscopio
L'opinione dell'avv. Nino Marazzita
Un processo che fece epoca
di a cura di Ettore Gerardi

I cronisti erano attratti dalla personalità
e dal fascino prorompente
dell’imputata Claire. La grande
competenza del presidente La Bua


Nel primo processo per l’uccisione di Farouk Chourbagi, i coniugi imputati furono assolti “per insufficienza di prove”: fu dovuto al fatto che si accusarono a vicenda del delitto o anche per altri motivi?

Prima di rispondere alla tua domanda, voglio dirti che con questa domanda mi riporti indietro nel tempo. Ricordo che all’epoca ero appena entrato nello studio di Sotgiu, collaboravo con dei contributi fattivi e ricordo che all’epoca c’era un’attrice, che ora è morta, che era una delle attrici di Ingamar Bergam, favolosa, bellissima e quando era in Italia viveva in una villa al Circeo, aveva degli occhi bellissimi, particolari. Ecco, ricordo che lei veniva e seguiva il processo, spesso insieme a me. Si chiamava Ingrid Thulin, era una donna meravigliosa. Su di lei aveva scritto un libro, mi sembra Tullio Kezich, o qualche critico di questo livello e questo libro era arrivato in edicola. Io sapendo di questo il libro lo acquistai. Il giorno dopo, siccome c’era una descrizione favolosa di lei, feci mie quelle espressioni alla Thulin che però capì benissimo che mi ero vestito con le penne del pavone di altri.
Ora rispondo alla tua domanda.
La scelta dei coniugi Bebawi, che erano imputati di omicidio per la morte di Farouk Chourbagi, fu l’autodifesa immediata, cioè quella di scambiarsi reciprocamente le accuse. Voglio fare un passo indietro. I coniugi dopo l’omicidio scapparono in Grecia. Proprio in Grecia, dicevano fonti giornalistiche, si erano consultati con un avvocato. Ora non so se l’avvocato greco gli aveva suggerito questo, non so se era stata una scelta dei due. Comunque si parlò di scelta strategica, cioè l’unica possibilità per poter uscire da questa vicenda, per loro, era quella di accusarsi a vicenda.
Cioè a dire: il delitto lo ha commesso mio marito; non l’ho commesso io, lo ha commesso mia moglie.
Parliamo di autodifesa, perché la difesa tecnica la facciamo noi avvocati.
Era una scelta molto sottile ed acuta, perché in realtà c’era un movente valido sia per l’uno che per l’altro. Uno per gelosia e l’altra per gelosia nei confronti di altre donne.
Dunque, furono assolti certamente per la scelta fondamentale di autodifesa, di seguire questa strategia, ma furono assolti per l’abilità con cui questa scelta fu portata avanti su un piano processuale da una parte dall’avvocato Giuliano Vassalli, grande avvocato e grande personaggio della storia d’Italia (purtroppo questo non viene detto abbastanza) e dall’avvocato Sotgiu, che era una volpe, di un’astuzia incredibile. Io allora facevo parte dell’èquipe dello studio Sotgiu, nel senso che ero entrato da una settimana. Quindi mi trovai questa bufera di giornalisti. Naturalmente mi appassionai al processo, il mio ruolo nel processo era quello di portare le carte a Sotgiu, di andare in studio per andare a prendere qualche carta dimenticata. La cosa che ricorderò sempre nella mia vita è che fu chiesto allo studio Sotgiu di dare una specie di guida per capire il processo, a una attrice più bella e più brava che siano mai esistite, proproprio Ingrid Thulin a cui ho accennato all’inizio.
Il processo fu di grande interesse per un giovane avvocato come me, perché osservando sia Vassalli che Sotgiu, in quel processo ho capito quanto deve essere attenta ed acuta la difesa e soprattutto che la difesa deve essere capace di sfruttare le atmosfere che si creano all’interno del processo. E devo dire che di questo erano maestri questi due grandi avvocati, erano insuperabili in assoluto.

In quel processo tu eri nella èquipe dell’avvocato Sotgiu: che ricordi hai di quelle giornate?

Il processo fu per me un momento di insegnamento pratico, perché per me fu una grande scuola. Quando esci dall’Università, puoi essere stato un genio ma se tutto quello che hai appreso sui libri devi tradurlo in pratica processuale perché solo così puoi gestire la strategia difensiva.
Dopo aver scelto una strategia difensiva, la devi saper portare avanti, perché la strategia difensiva si adatta alle situazioni. Quando entri in un’aula non sai mai quello che accade: la difficoltà che trovi, il livello di difficoltà che trovi. Mi ricordo che la cosa che mi stupiva, quando ho iniziato a fare i primi processi con Sotgiu che magari in primo grado gli imputati avevano avuto l’ergastolo, poi però, in Corte d’Assise d’Appello c’era un rapporto più stretto tra presidenti ed avvocati. I giudici ci chiamavano e dicevano che la pena era spropositata, d’accordo con il procuratore generale, che rappresentava l’accusa, e la difesa; magari il presidente ci proponeva attenuanti generiche, si arrivava a 28 anni.
Viceversa, qualche volta capitava esattamente l’inverso. Un processo che si era concluso con l’assoluzione in primo grado, si drammatizzava in Corte d’Assise d’Appello e si rischiava l’ergastolo, magari 30 anni.
Io come giovane avvocato avevo imparato a capire che l’atmosfera era importante e vedevo come gli avvocati sfruttavano questa atmosfera, l’incertezza soprattutto che avevano, i giudici popolari della Corte d’Assise. Vassalli e Sotgiu erano abilissimi a sfruttare questi dubbi.
In realtà, sulla carta, quella di primo grado fu una sentenza di grandissima civiltà, che stabilisce il principio secondo cui un uomo è stato ucciso da uno o dall’altro, ma se non abbiamo la certezza assoluta, come dicono gli americani, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che sia stato lui o lei, non si possono condannare.
L’appello fu fatto con la stessa abilità della tesi difensiva del processo di primo grado, perché si unirono i due moventi. La Procura generale riuscì a creare un movente unico per tutti e due. Quindi con il movente unico furono condannati tutti e due. Però nel senso che dopo la sentenza di primo grado sparirono e da allora non si ebbero più notizie.
Devo dire che la sentenza di secondo grado ci preoccupò molto per l’atmosfera un po’ forcaiola: c’era un presidente che era chiaramente determinato a condannare.

Puoi tracciare un ritratto del presidente del Tribunale Antonio La Bua?

In questo scenario il presidente La Bua era un magistrato che faceva assolutamente eccezione, intanto perché era un grande signore e poi perché, in quei tempi, non seguiva la prassi della “incomunicabilità” fra giudici e avvocati. Magari i magistrati di alto livello comunicavano con i cinque, sei avvocati, ricordo Ungaro, Sotgiu, De Marsico, Vassalli, con questi naturalmente c’era comunicazione. Questi magistrati, parlo di La Bua in particolare, avevano invece una grande considerazione per tutti gli avvocati. Ricordo che La Bua non tanto mi dava ascolto perché ero un rappresentate dello Studio Sotgiu, quanto perché lui rispettava tutti; giovani e meno giovani. Lui era molto cortese e qualche volta mi trovavo in difficoltà perché andavo a chiedere sempre rinvii, poiché Sotgiu, essendo uno degli avvocati che lavorava di più in Italia, naturalmente aveva sempre bisogno di rinvii. La Bua mi intratteneva, era cordiale. Intanto ascoltava attentamente tutte le voci processuali, seguiva attentamente i processi, li sapeva dirigere con autorevolezza, era attento alle domande. Allora erano i presidenti che interrogavano, non c’era la “cross examination”, e le domande che faceva in genere il presidente, erano tutte in chiave accusatoria, mentre quelle di La Bua erano domande equilibrate, molto attente, acute. Di La Bua ho un grande ricordo.

L’avvocato della difesa, Giuseppe Sorgiu, era uno dei principi del Foro dell’epoca. Come ricordi la sua figura, tenendo conto del fatto che Sotgiu fu anche un personaggio politico e, per certi aspetti, mondano?

Sotgiu. Sotgiu era una persona che, naturalmente, per me rappresenta una specie di riferimento di come si fa l’avvocato, per l’astuzia, per la capacità di insinuarsi in qualunque errore dell’accusa. Queste erano le grandi doti di Sotgiu. Poi la dialettica. Lui aveva una voce non molto gradevole. Dopo tre minuti che Sotgiu parlava ci si dimenticava il tono della voce perché si restava affascinati dagli argomenti che proponeva a fiume, una spietata logica di consequenzialità di argomenti. Insomma, affascinava. Io in quel processo cominciai anche a conoscere la bravura di Giuliano Vassalli che era stato mio professore all’Università. Però lo avevo conosciuto in veste di professore, sempre gran signore, gentile. Poi cominciai ad ammirarlo come avvocato. Nel destino della vita di noi uomini si inseriscono le cose più impensabili.
Quando Vassalli si cancellò dall’Albo degli Avvocati, essendo in quel momento patrocinante della moglie di Aldo Moro, lui passò a me l’incarico, suggerì alla signora Eleonora Moro di farsi sostituire con me. Proprio con Vassalli ho parlato alcuni giorni fa, aveva letto il mio libro, “L’avvocato dei diavoli”, e si congratulava per il contenuto. E’ stato molto gentile. E’ sempre affettuoso con me.

E’ vero che la “protagonista” del processo fu l’affascinante imputata Claire Bebawi? Per lei qualcuno disse che, prima ancora della mancanza di prove, fu la sua bellezza a valerle la libertà.

Claire Bebawi era una donna di grandissimo fascino. Questo fascino lo faceva pesare sulla bilancia delle sue chanches, e naturalmente gli uomini ne erano attratti. Però, dicevano i giornali dell’epoca, che solo sulle donne della giuria poteva pesare. Ora non ricordo di quante donne fosse composta la giuria perché allora c’era una legge, che poi fu dichiarata incostituzionale, secondo cui il numero delle donne non potevano essere superiore a quello degli uomini.
I giornali dicevano che l’impatto sulle donne poteva essere negativo per questa bellezza un po’ ostentata. Claire veniva al processo con una pelliccia color miele. Certamente fu un processo che sconvolse l’opinione pubblica perché all’epoca le cause venivano molto seguite. Ora si seguono in televisione.


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