Oltre trent’anni addietro, nella città
versiliana, viene ucciso un tredicenne,
Ermanno Lavorini. Un gruppo
di ragazzi è incriminato per quel delitto
che costò la vita anche a due innocenti
coinvolti ingiustamente nelle indagini
Viareggio. E’ venerdì 31 gennaio 1969. Un ragazzino di tredici anni, Ermanno Lavorini, esce di casa e inforca la sua bicicletta. Alle 16 di quello stesso pomeriggio Ermanno non è ancora rientrato; aveva assicurato la mamma che sarebbe tornato presto per fare i compiti. Alle 17.40 il telefono nel negozio della famiglia Lavorini (abbigliamento e confezioni) squilla; risponde la sorella di Ermanno. Un urlo: al telefono s’è fatto vivo il rapitore del fratellino. Vuole quindici milioni di riscatto.
Per tre lunghissimi mesi non si sa più nulla nè dei rapitori, nè tanto meno di Ermanno. Da Roma, il Viminale ha inviato alti funzionari di Polizia per far luce su quello che è diventato un caso nazionale. Ma anche questi si trovano impigliati in una ragnatela di voci, di mitomani, di maniaci, di profittatori.
Lo scoglio su cui si infrangono le indagini è la famosa telefonata del 31 gennaio, giorno della scomparsa di Ermanno, con la quale i presunti rapitori chiedevano il riscatto. Quella telefonata teneva inchiodati gli investigatori sulla ipotesi di “rapimento a scopo di riscatto”. Un delitto da adulti, da esperti professionisti. Ipotesi che era un passaggio obbligato ma che non approdava ad alcun risultato.
Poi la scoperta del corpo di Ermanno, sepolto sulla spiaggia di Marina di Vecchiano, che porta solo ad una ovvia certezza: il ragazzo rapito era stato ucciso probabilmente subito dopo il rapimento.
A quel punto le indagini, senza più timore di nuocere alla piccola vittima, prendono una diversa strada. E si riesce finalmente a trovare il bandolo della matassa, giungendo fino all’autore materiale dell’omicidio, Marco Baldisseri, ad Andrea Benedetti, testimone chiave, e ad un gruppo di “ragazzi terribili”.
Già, i ragazzi terribili; un gruppo (un “branco” si direbbe oggi) dai dodici ai sedici anni, dediti al vizio, al gioco e al furto. Astuti, intelligenti, bugiardi fino all’inverosimile, spregiudicati, legati da una sorta di codice d’onore al quale si attengono con fermezza.
Rubano di tutto: borsette, biciclette, scooter; si passano le ragazzette disponibili che incontrano. Sono quasi sempre in strada, pronti ad afferrare l’occasione propizia per arraffare qualcosa, dividersela. Giocano a flipper, ma anche a poker. Qualcuno di loro frequenta la scuola (con scarso profitto), altri si adattano a fare qualche lavoretto.
In questo squallido scenario di ragazzi di vita si è consumato il delitto di Ermanno Lavorini, conservato in segreto per tre mesi, nonostante l’accanimento nelle indagini di Polizia e Carabinieri.
Di certo, come accennato, c’è un solo fatto: l’autore (reo confesso) Marco Baldisseri e il testimone Benedetti. E il resto? Chi ha fatto la telefonata per chiedere il riscatto? A chi è venuta l’idea? Chi ha seppellito il corpo di Ermanno?
Ad un certo punto si scatenò una campagna di stampa, tendente a far apparire il delitto Lavorini come “maturato nel torbido mondo degli omosessuali” (come taluni giornali amavano scrivere). La Polizia iniziò un’azione di controllo sugli omosessuali della zona convocando in caserma quelli noti: era prassi schedare e tenere pronti gli elenchi degli “invertiti”. “Ce ne sono di giovanissimi, di anziani. Circa una cinquantina”, recita un libretto diffuso in quei mesi.
Ma torniamo ai protagonisti della vicenda. E’ chiaro che dopo l’uccisione del piccolo Ermanno è sopravvenuto un disegno astuto, perfettamente organizzato e realizzato. Opera anche questa dei ragazzi, oppure - dopo il delitto - si è inserita l’esperienza di un adulto? Baldisseri, intanto, dopo essersi accusato del delitto, rigetta il secondo atto della tragedia (il seppellimento del corpo) su tale Adolfo Meciani e poi, successivamente, su Dino Vanni. Anche Benedetti chiama in causa Meciani.
Chi è Adolfo Meciani, l’uomo accusato dai due ragazzi terribili di aver fatto la telefonata alla famiglia Lavorini e di aver seppellito il corpo della vittima? E perché si sarebbe lasciato invischiare in questa vicenda, a quale scopo, con quale obiettivo? L’uomo è un quarantenne, alto, elegante. Appartiene a quella schiera di viareggini che, d’inverno, si godono i “frutti” dell’estate versiliana; è proprietario di uno stabilimento balneare e di un negozio. Ha sposato una venticinquenne, ha avuto una bambina. Ha fama di impenitente don giovanni. Ma si dice che recentemente i suoi gusti sono... cambiati e, per questo, si sarebbe deciso ad aiutare Baldisseri che lo avrebbe ricattato per i loro passati rapporti.
Il Meciani viene arrestato ma nel mese di maggio si uccide nel carcere. Nemmeno il processo riuscirà a stabilire se il gesto di Meciani è il gesto di un colpevole colto da rimorso o quello di un innocente che non ha più la forza di combattere.
A Viareggio l’opinione pubblica è convinta della sua innocenza anche se, nei giorni precedenti, tutti lo consideravano colpevole e lo avrebbero volentieri linciato per aver gettato una cattiva fama sulla città versiliana, tanto da far soffrire il bilancio turistico della zona. E non c’entrava neanche un altro personaggio coinvolto nelle indagini, Giuseppe Zacconi (figlio del grande attore Ermete) anche lui morto di crepacuore per essere stato citato innocente in questa vicenda.
Il processo inizia nel 1975; Baldisseri e Della Latta vengono condannati, rispettivamente, a 19 e 15 anni; Vangioni è assolto per insufficienza di prove. In appello Della Latta prende 11 anni, Baldisseri e Vangioni 9. La sentenza è confermata in Cassazione nel 1977.
Pier Paolo Pasolini scrisse un “diario del caso Lavorini” nel quale se la prende con tutti i personaggi che hanno avuto voce in capitolo nel “montare” la caccia alle streghe: ironizza sui giornalisti famelici, sui Carabinieri burocrati, sui viareggini bacchettoni, ma accusa anche i giovani della sinistra contestatrice per la loro assenza. Infatti scrive: “Per es., gli studenti di nessun movimento sono intervenuti in questo caso: l’hanno allontanato da loro, considerato impopolare e indegno?”
E a proposito del comportamento professionale dei giornalisti (e degli inquirenti) Pasolini non si limita all’ironia, ma passa all’attacco: “Ma in cosa differisce l’atteggiamento di Marco Baldisseri dai compagni verso gli omosessuali dall’atteggiameno dei giornalisti di tutti i giornali italiani e di tutti gli inquirenti? Non differisce sostanzialmente in nulla. Nel lanciare le loro accuse Marco Baldisseri e gli altri si sentono sostenuti dall’opinione pubblica, sanno di far piacere all’opinione pubblica, sanno di obbedire a una necessità di odio dell’opinione pubblica”. Opinione pubblica - in tal senso - rappresentata ugualmente dai cronisti. Poi se la prende ancor più con la corruzzione indotta dalla “cattiva maestra” televisione, colpevole di rappresentare un modello di vita falso e anestetizzato del sesso. “Niente di più volgare - scrive - che offre lo specchio di una società dove essere diversi è peccato, è orrore”.
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