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Agosto-Settembre/2008 - La 'nera' al microscopio
L'opinione dell'avv. Nino Marazzita
No alle pene come
di Intervista a cura di Ettore Gerardi

Taluni termini che spesso si usano
oggi a proposito dei processi per gravi
reati, non appartengono alla nostra civiltà
giuridica. Il problema vero è quello
della lentezza delle cause


Certezza, inasprimento, esemplarità: tre termini, questi, che da qualche tempo si vorrebbero applicare alle pene irrogate dai giudici, soprattutto in riferimento a taluni reati che suscitano allarme nei cittadini. In realtà, cosa si cela dietro queste tre parole?
Lo chiediamo, nella consueta intervista, all’avvocato Nino Marazzita.

Con l’espressione “pena esemplare” cosa si vuole intendere?
Cominciamo col dire subito che una pena esemplare non può essere una pena equa; è una pena dura per educare gli altri. Quindi non è adeguata al comportamento e non rispetta le sanzioni che ci sono nel Codice Penale. Pena esemplare significa una pena che sia di esempio agli altri, quindi una pena spropositata.
Pena esemplare è un linguaggio che non fa parte di una civiltà giuridica avanzata come la nostra. Anche se il nostro è un sistema processuale penale che non funziona bene, tuttavia è un retaggio culturale di una civiltà antica, importante, che è stata sempre una guida per il mondo intero e non ci permette di usare vocaboli come “una pena che deve essere esemplare”, solo perché c’è un aumento di criminalità e perché i cittadini non si sentano sicuri.
Il diritto ha come caratteristica fondamentale il fatto che il magistrato che irroga una pena deve essere neutro; cioè deve interpretare il codice e applicarlo. Non può estrapolare un caso che magari in quel momento per la proposizione dei giornali, del mondo mediatico, viene giudicato come un reato di particolare pericolosità. Il giudice non deve badare all’allarme sociale che si crea. L’allarme sociale è un problema della politica che deve scegliere strumenti legislativi adeguati per stabilire magari una pena più alta. Ma questo è un discorso della politica, non della magistratura.
La magistratura deve irrogare la pena nei parametri dettati dal Codice, dalla giurisprudenza, dalla più esatta possibile interpretazione delle varie norme. Ecco perché l’esemplarità, lo ripeto, fa parte dei paesi arretrati: si tagliava la mano ai ladri perché tutti gli altri fossero spaventati, ma i furti non è che diminuissero. Il ladro era più cauto, spesso molto più specializzato, proprio per il rischio che correva.

Inasprimento della pena. Ma è veramente indispensabile renderla più dura?
Quando c’è un problema di grande allarme sociale, come ad esempio la pedofilia, la guida in stato di ebrezza e si uccidono persone, questi fatti creano allarme sociale. C’è spesso una specie di passerella in televisione dove si alternano i politici che fanno a gara a dire: “Inaspriamo le pene, inaspreremo le pene” tutto questo in realtà non succede perché raramente la politica interviene con lo strumento dell’inasprimento. L’inasprimento è una presa in giro, in realtà. Non è la medicina adatta alla malattia.
Faccio un esempio: verso la fine degli anni 70, a Roma, i sequestri di persona avevano preso una piega molto preoccupante, non si riuscivano a debellare alcune bande che sequestravano persone, peraltro con una particolarissima crudeltà. Ricordo il caso Palombini, per esempio: quella fu una cosa crudelissima; venne ucciso e poi messo in un frigorifero per fotografarlo e far recapitare la foto ai familiari. Bene, anche allora si parlava di inasprimento della pena, pena di morte, le solite cose. La correzione legislativa che invece debellò il fenomeno fu un’altra: si stabilì una pena alta per chi non collaborava, per chi prendeva un ostaggio e lo uccideva, naturlamente quella era la pena dell’ergastolo; ma il legislatore fu così acuto e attento nello stabilire una pena bassissima, fino quasi all’impunità, per chi collaborava tanto da far rilasciare l’ostaggio, o quanto meno a debellare la banda. Il fenomeno quindi fu ridotto non dell’inasprimento, ma dell’abbassamento della pena a certe condizioni; il fenomeno criminale fu debellato contrariamente a quanto ci si attendeva dalla pena dell’ergastolo.
Lo spettro dell’ergastolo, come lo spettro della pena di morte negli Usa, non costituisce mai da deterrente. Queste sono statistiche note, consolidate nei decenni. Quindi ho un certo di timore quando vedo taluni politici che per accontentare un elettorato che ha paura (anche per effetto dei media), fanno certi discorsi.
L’Italia non si aspettava un aumento di criminalità che deriva da un fattore matematico: la immigrazione in misura larghissima. Noi siamo un certo numero di cittadini, ormai assestati storicamente, chi con il posto di lavoro, la famiglia, con stabilità elementari riguardo al tasso di criminalità. Con l’immigrazione, piuttosto selvaggia che si è verificata in questi ultimi anni, questa fascia di criminalità è aumentata abbastanza. Ma è fisiologico tutto questo: aumentano però anche i soggetti che vengono qui per lavorare e che fanno i lavori che gli italiani non fanno più. Io dico che la paura non deve essere assecondata dai politici con la frase che ormai è diventata ossessiva: “inaspriremo le pene”.
A questo proposito vorrei fare un discorso elementare: quando si verifica un comportamento criminale come un episodio di pedofilia, una rapina efferata con torture, si crea un allarme sociale; la pena, quindi il processo dovrebbero restaurare il clima sociale che è scosso, ma come? Con un processo immediato, certo, sicuro, garantito. Un processo che garantisce il diritto dell’imputato o degli imputati e i diritti delle parti offese. Quindi, l’unico rimedio per dare una risposta alle insicurezze che si sono create in questi ultimi tempi nei cittadini, è quello di annullare o ridurre l’allarme sociale con un processo certo.
La medicina, lo ripeto, in questi casi non è l’esemplarità della pena e non è neppure la pena elevata normativamente. L’inasprimento, intendiamoci, in alcuni casi può esserci. Penso al problema delle persone che, in stato di ebrezza o sotto l’effetto di stupefacenti, uccidono alla guida di autoveicoli. C’è una specie di teatrino: i pubblici ministeri contestano l’omicidio volontario, i Tribunali della libertà dicono il contrario, cioé che non c’è omicidio volontario ma omicidio colposo. La conseguenza è che colui che era stato arrestato per omicidio volontario, esce immediatamente dal carcere. Quindi una cattiva interpretazione delle norme crea un secondo allarme sociale. Il primo allarme sociale è l’incidente con le morti, il secondo è la liberazione della persona che ha commesso questo crimine.
Ci sono due inquadramenti normativi: se io uccido per distrazione, anche sotto l’effetto di stupefacenti o di alcool, faccio comunque un reato che si chiama omicidio colposo, che ha dei limiti; un reato che ha una pena sicuramente poco elevata rispetto al danno che si crea. L’altro aspetto è l’omicidio volontario aggravato, che prevede l’ergastolo. Allora bisognerebbe trovare una via di mezzo, non dilatando i termini di interpretazione normativa dell’omicidio colposo. Occorre invece costituire una figura apposita, unica di reato, una norma che preveda un omicidio a sé. Come c’è l’omicidio colposo, l’omicidio preterintenzionale, volontario, ecc. bisogna prevedere l’omicidio in condizioni alterate di mente a causa di droga, alcool, ecc. e quindi aumentare la pena per quel tipo di reato. Stabilire un nuovo tipo di reato e aumentare la pena affinché sia adeguata.
Qual è la capacità di evoluzione civile delle norme? Quella di adattarle agli allarmi sociali, ai comportamenti, ai tempi che si attraversano: alcuni reati non si compiono più, altri reati si compiono con maggiore efferatezza e quindi bisogna affrontarli. Mi fa paura quando sento i politici che parlano di inasprimento, inasprimento e poi niente. Facciamo finta che il giudice possa arbitrariamente, discrezionalmente, dare per un omicidio di questo tipo una pena di otto anni che non è prevista dal Codice: a che serve se questo processo si fa dopo 6 o 7 anni? Non serve a niente.
La funzione della pena è quella di riparare, ricostruire, ristrutturare, dare una risposta immediata. La pena non deve essere strabiliante, deve essere quella prevista dai Codici. Deve essere applicata subito, tempestivamente. Ad esempio in America mi dicono: “La differenza tra noi e voi italiani è che noi facciamo celermente i processi e i colpevoli li mettiamo in carcere, in Italia prima si arresta, poi si scarcera, poi si fa un processo dopo dieci anni e si arresta dopo dieci anni. E’ una cosa che non riusciamo a capire”.

Recentemente il Capo della Polizia ha invocato la certezza della pena: forse in Italia le pene non sono sempre e totalmente certe? Vuoi dirci il perché?
Il problema delicato è quello della certezza della pena. La certezza della pena è una frase ricorrente che viene detta ormai da avvocati, magistrati, cittadini, politici, chiunque venga interpellato crede che la soluzione di tutti i problemi sia la certezza della pena. Chi dice questo (mi riferisco in particolare al mondo politico che dovrebbe avere più rispetto verso la Carta Costituzionale) dimentica che nella Costituzione italiana è solennemente affermato che la pena non deve essere solo afflittiva, ma deve essere anche rieducativa.
Se una pena deve essere afflittiva e contemporaneamente rieducativa, non si può determinare nel momento in cui si verifica il primo processo, non si può pretendere che siano trattati tutti allo stesso modo, con una pena predeterminata e magari molto alta per il tipo di reato commesso. Il primo problema è determinare la pena adeguata al reato: se il reato è grave la pena deve essere alta; però si deve coniugare insieme all’altra esigenza: quella di recuperare il cittadino che va in carcere. Allora qual è la soluzione? La soluzione è di stabilire per ogni reato una pena predeterminata, una pena base. Noi italiani ci stupiamo per quel cittadino americano che ha preso 87 anni di carcere: questo che vuol dire? Che per quel tipo di reato è previsto che si stia in carcere 10 anni, però si deve pure stabilire che dopo, per esempio, 6 anni, si deve cominciare a prendere in considerazione se questo cittadino sta recuperando il senso della morale, il senso dell’etica, se comprende il danno che ha prodotto, l’allarme sociale che ha creato, ecc., e comincia ad essere integrato nella società civile. Tutto questo passa attraverso un meccanismo rieducativo che deve esserci all’interno del carcere, che in Italia non c’è in assoluto; ma noi dovremmo arrivare a questo.
Quindi torno a ripetere che il processo deve essere celere; mentre il processo esemplare è il retaggio di una mentalità arretrata, di ordinamenti giuridici che non ci sono più nel mondo. La sicurezza, il cittadino la riacquista se un processo è celere; la certezza della pena, ormai, è un luogo comune che si ripete come un ritornello. Io credo che la maggior parte dei cittadini quando pensa alla certezza della pena non pensa al fatto che uno sta in carcere 20 anni, ma piuttosto che uno va in carcere immediatamente, viene subito giudicato e quindi continua a stare in carcere. Per i reati più gravi, come i reati di omicidio, spesso si verifica questo: ritardo nella attività di indagine, decorrenza dei termini di carcerazione preventiva e quindi la persona viene scarcerata; il processo si celebra dopo due anni, la persona viene condannata ma non viene arrestata perché è a piede libero; processo in Appello di secondo grado, passano altri due anni, poi conferma della condanna ma la persona non viene arrestata perché è a piede libero, poi ricorso per Cassazione; la Cassazione è molto celere, lavora alacremente, ma non prima di un anno e mezzo o due. Qui si stabilisce infine che la pena definitiva è di 12 anni e questa persona viene presa e messa in carcere. Che possibilità ha avuto questa persona prima del processo definitivo di consolidare una famiglia che magari si è costituita in questi 12 anni se è una persona giovane? Di trovare un lavoro stabile? Se lo ha, vive con il timore di perderlo.
Io credo che il massimo di una civiltà giuridica è quello di personalizzare la pena, cioé la pena deve avere una base secondo la gravità, ma ci deve essere un ambito di pena finale che deve essere affidato alla capacità del soggetto di essere recuperato alla vita sociale, alla vita civile, alla vita del lavoro. Però occorre che ci siano le strutture adeguate all’interno del carcere, che siano strutture che mettono i condannati in condizione intanto di vivere una vita civile e poi che sia loro data la possibilità di lavorare perché dopo che esce nessuno lo assume, anche se ha una buona relazione finale dove si dice che è completamente reintegrato; lo è psicologicamente, ma se non trova nessuno che gli dà lavoro, se trova ostilità nel mondo nel quale viene integrato, si potrebbe verificare un secondo o un terzo caso di reiterazione del reato.



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