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Dicembre/2008 - La 'nera' al microscopio
Cronaca del delitto
La vita in quella casa era un inferno
di Eleonora Fedeli

La vicenda di Marco
Caruso quattordicenne:
trent’anni fa uccise il padre - spietato
e violento - per difendere la madre
dalle continue sevizie del marito


La storia di Marco Caruso è veramente significativa del clima di gravissime tensioni che si può creare in una famiglia e che sfocia, il più delle volte, nel dramma.
Siamo nel 1977: Marco Caruso, quattordici anni, uccide il “padre-padrone” che - sadicamente - maltrattava lui e la mamma. Oggi Marco vive in Germania dove lavora e si è formato una famiglia. Se ha raggiunto la serenità lo deve anche alla appassionata difesa in Tribunale da parte dell’avvocato Nino Marazzita che riuscì, con una serrata dialettica, a farlo assolvere per “legittima difesa putativa”.
Se fosse stato condannato, e quindi fosse rimasto in carcere, non sarebbe riuscito a recuperare l’equilibrio psicologico gravemente compromesso, prima da una vita famigliare infernale; poi dal suo stesso crimine commesso (non tanto stranamente) in pieno contrasto con una indole fondamentalmente buona.
Ma come è possibile che un ragazzino, bravo e per certi versi mite, possa aver ucciso suo padre? Il suo gesto fu motivato dalla convinzione che, se non avesse eliminato il padre, questi avrebbe ucciso lui o la madre o entrambi.
Tesi audace, questa sostenuta dall’avvocato Marazzita nel corso del dibattimento, che però fu accolta dalla Corte d’Appello minorile con una sentenza di assoluzione definitiva storica e grazie alla quale, il caso di Marco Caruso, acquistò una risonanza internazionale.
Ripercorriamo i fatti. Il padre di Marco era un sadico e le radici della sua perversione risalivano all’infanzia, avvelenata da un patrigno crudele, colpevole degli stessi tormenti che poi lui avrebbe inflitto al figlio e alla moglie.
Il padre di Marco, insomma, riproduceva in famiglia né più né meno l’orrore vissuto da bambino, in una spirale di violenza che la giovane moglie sembrava sopportare con rassegnazione e a cui invece, Marco, adolescente, si ribellava.
Il fatto di essere contestato come padre-padrone da Marco, indispettiva l’uomo rendendolo ancor più duro nel tentativo di piegare alla sua volontà quel ragazzino che non voleva ubbidirgli.
Marco era coraggioso; osava fissarlo negli occhi mentre veniva picchiato, si intrometteva fra la mamma e il padre durante le liti furibonde, facendo scudo alla donna con il suo corpo di adolescente e gli intimava di fermarsi quando, spesso, la trascinava per i capelli lungo il corridoio di casa.
Ogni colpo inferto alla donna - ebbe a confessare Marco all’avvocato Marazzita - ogni epiteto volgare che le veniva rivolto, gli rimbalzava addosso come se fosse diretto a lui.
Spesso il padre reagiva prendendo il figlioletto a cinghiate oppure lanciandogli sul capo il primo oggetto contundente a portata di mano.
Marco temeva di essere ucciso insieme alla mamma da quell’aguzzino, anche se ciò non sarebbe mai avvenuto in quanto il sadico tende a conservare le sue vittime per non perdersi lo spettacolo delle loro lacrime, dei loro singhiozzi, per non rinunciare, insomma, al gioco del massacro quotidiano destinato a diventare ragione stessa della sua esistenza.
Il padre di Marco faceva il rigattiere e vendeva la merce (per lo più frutto di piccoli furti) nelle piazze e nei vari mercatini romani. Marco e un altro fratello più piccolo erano addestrati a rubare e a consegnare la refurtiva. Un giorno Marco rubò un’oca ma ebbe l’imprudenza di regalarla alla nonna, alla quale era affezionatissimo. Bastò questo gesto a scatenare l’ira del padre: furono botte da orbi e per punizione venne lasciato fuori dal balcone (si era in pieno inverno) e la mattina seguente si ritrovò a scuola con una febbre altissima.
La paura di Marco cresceva ogni giorno e, forse per questo, ebbe l’occasione di procurarsi una pistola che ripose in un nascondiglio in casa.
Era fuggito oltre trenta volte di casa, ma altrettante volte gli assistenti sociali lo ricondussero fra le pareti domestiche, senza ascoltare le sue ragioni e fingendo di non vedere i segni delle percosse sul suo corpo di adolescente.
Fino a che, una domenica, gli si presentò l’occasione di diventare “angelo vendicatore” della mamma. Quella mattina l’ennesimo litigio fra moglie e marito e le solite percosse. Marco non ne poté più, corse a prendere la pistola e uccise il genitore. Finalmente era finita, senza rimorsi ma con tanto sgomento nel cuore per l’atto compiuto.
Scelse l’avvocato Marazzita come suo difensore, dopo aver letto un articolo in una vecchia rivista che tratteggiava l’impegno professionale del legale.
Durante una delle visite nel carcere minorile, Nino Marazzita (lo narra nel suo libro “L’avvocato dei diavoli”) ebbe a fargli questo discorso: “Probabilmente tornerai in libertà ma ricordati che hai commesso un grave delitto di cui devi pentirti perché nessuno ha diritto di uccidere un altro essere umano, anche se crudele come era tuo padre”. Il ragazzino guardò l’avvocato e obiettò: “Ma allora dovevo farmi massacrare da mio padre insieme alla mamma?”.
“Rimasi in silenzio (scrive ancora nel suo libro l’avvocato Marazzita) perché pur concordando sulla presa di coscienza per la propria colpa, in cuor mio ero convinto che Marco fosse innocente e che avesse agito per legittima difesa. Ma questa mia verità poteva nuocere al futuro del ragazzo, era giusto tacergliela e, entrando sia pure per poco nel ruolo di educatore, la tenni per me. Non so se le mie parole abbiano avuto un peso sull’equilibrio con cui, dopo la sentenza di assoluzione, Marco gestì il clima trionfalistico che lo aveva circondato. E’ certo che fin dal primo giorno di libertà il suo unico desiderio era quello di godersi un po’ di pace. Rimasi in contatto con lui e la madre e seguii il suo completo inserimento nel mondo del lavoro. La più grande vittoria di Marco è quella di essere riuscito a costruirsi un presente agli antipodi del suo passato. Se in qualche modo ho contribuito al raggiungimento di questo traguardo, sono felice come se Marco fosse mio figlio, e so che gli farebbe un gran piacere sentirmelo dire per la prima volta. Oggi è un tranquillo padre di famiglia, tenerissimo con i suoi due bambini. Un giorno che, per una banale monelleria, ha dato uno schiaffo a uno di loro, è rimasto sveglio tutta la notte per il rimorso e il mattino seguente è corso a svegliarlo con una carezza”.


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