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Dicembre/2008 - La 'nera' al microscopio
Il processo fece scalpore anche all’estero
di a cura di Ettore Gerardi

La vicenda processuale
fu un avvenimento che commosse
l’opinione pubblica non solo in Italia

La vicenda di Marco, del suo rapporto con il padre e del conseguente parricidio per “legittima difesa putativa”, sono uno spaccato drammatico di certe realtà familiari. Si può dire che casi del genere siano più frequenti di quanto s’immagina?
Marco Caruso è stato uno dei miei primi processi, uno di quelli che ti impegnano molto, ma con una minore esperienza rispetto alla abnormità del fatto. La vicenda ha interessato tutta l’Italia. Il “Giornale d’Italia”(erano quasi in contemporanea i processi per la morte di Pier Paolo Pasolini e quello di Marco Caruso), scrisse “Marazzita con Pasolini ha diviso il Paese”, perché c’erano innocentisti e colpevolisti “mentre con Marco Caruso lo ha unificato”. Tutti erano con Marco Caruso.
Capii che dovevo utilizzare quella rilevanza mediatica che il processo aveva. Lo feci con interviste e con tutti i mezzi che avevo a disposizione. Il caso era andato al di là dei confini nazionali. Io cercai sempre di trasmettere nel mondo mediatico quella che era la realtà: un padre che era sicuramente sadico, terribile, e che aveva abusato della madre. Lui aveva sposato la madre di Marco dopo averla violata; aveva anche, probabilmente, abusato della bambina, nel senso che l’aveva toccata. In questo clima, comincia nella testa di Marco a muoversi il dubbio che il padre, prima o poi, ucciderà la madre. Erano entrambi oggetto delle sue violenze, ma Marco recepiva di più la violenza verso la madre che non verso se stesso.
Fu uno di quei casi in cui io capii, per la prima volta, come l’avvocato doveva essere: non dico freddo, ma piuttosto distaccato dalle vicende personali dell’imputato. Era difficile restare distaccato davanti ad una situazione come quella che vidi la prima volta nel carcere di Casal del Marmo: un bambino di quattordici anni completamente rasato con la testa piena di ferite. Naturalmente provai una profonda compassione, una profonda pietà per lui. Marco fu condannato, dopo aver fatto alcuni mesi di carcere prima di Natale.
Intuii che il Tribunale per i Minorenni di Roma (formato da due collegi) era completamente spaccato: da una parte c’era il collegio di Carlo Alfredo Moro, con una linea avanzata, evoluta, che autorizzava il Tribunale Minorile a chiamarsi Tribunale per i Minorenni, a favore dei minorenni; dall’altra un collegio con una linea di durezza eccessiva, era rigidamente su posizioni colpevoliste, qualunque fossero i motivi che avevano spinto Marco a delinquere.
Io approfittai del Natale per fare una richiesta di libertà provvisoria, come si chiamava allora, direttamente a Carlo Alfredo Moro. Avevo capito la grossa scissione che c’era tra lui e l’altro Presidente, una scissione che si allargava anche al personale di cancelleria, di segreteria (la maggior parte era pro Marco Caruso, quindi era dalla parte di Carlo Alfredo Moro). Devo dire che non è esagerato e retorico notare che l’Italia ebbe un sospiro di sollievo quando la libertà provvisoria fu concessa. Anche l’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini fece una esternazione. Fu una dichiarazione benevola per il grande cuore di Pertini, però mi danneggiò, perché diede un alibi al Tribunale in questo senso: il Presidente della Repubblica non può scegliere una tesi in un processo in corso e Sandro Pertini disse, dopo avermi telefonato personalmente, “Darò la grazia a questo ragazzo nel caso venga condannato”.
In questo processo c’erano varie responsabilità, che misi in rilievo. Per esempio il ruolo della scuola. Non era possibile che gli insegnanti, i bidelli, tutto l’apparato scolastico non intuisse che questo bambino quasi quotidianamente arrivava a scuola pieno di lividi e ferite. In questo processo imparai a capire, come il mondo mediatico era utilizzabile in una vicenda processuale. Credo che feci anche un’operazione di giustizia, perché questo fu l’unico modo per far scontrare con il mondo reale un Tribunale che sembrava fuori da ogni realtà, caparbio, arroccato su posizioni superate già allora (cioé il padre padrone, il pater familias, la famiglia gerarchica). Il mondo reale era quello dell’Italia, di un Paese che fibrillava, che soffriva, per la sorte di questo ragazzo.
La liberazione di Marco dunque, avvenne in questo studio; la strada era completamente piena di gente ed il mio studio era invaso da centinaia e centinaia tra giornalisti, cineoperatori e cittadini che venivano a vedere Marco, a fargli coraggio. Fioccarono le offerte di aiuto: economiche con dei vaglia postali e persone che si presentavano a casa e lasciavano dei soldi; altri offrivano posti di lavoro. Accettammo un posto di lavoro in una tipografia, non durò molto perché il proprietario era una persona piuttosto severa, ma fu molto utile a Marco perché cominciò a inserirsi nel mondo del lavoro.
Venne a trovarmi Bollea (uno dei più famosi psicologi infantili) e mi spiegò che con il mio atteggiamento avrei potuto spingere Marco al suicidio, perché non aveva avuto il tempo per elaborare il senso di colpa che si era creato in lui per aver ucciso il padre. Non che abbia mai avuto un atteggiamento molto indulgente nei suoi confronti. Ricordo che lui una volta mi disse: “Io la considero come mio padre”. Io risposi: “Tu non devi considerarmi tuo padre. Di padre ce n’è uno. Era un padre non accettabile, non l’hai accettato e l’hai ucciso. Ma non lo puoi sostituire”. Comunque cominciai ad avere un atteggiamento di responsabilizzazione rispetto a quello che aveva fatto, gli dicevo: “Non ti sentire un eroe, perché non lo sei. Ti credono un eroe, le gente si è commossa per la vicenda, ma da questo non devi trarne motivo di orgoglio”.
La famiglia fu devastata perché il fratello ebbe un atteggiamento di emulazione verso Marco, e commise, credo, anche qualche reato.
Ancora una riflessione: in quella circostanza scoprii che cosa significa essere minorenne in una borgata, in una famiglia disagiata dove la regola numero uno era la violenza, l’imposizione, la brutalità.

Sono frequenti i casi di “legittima difesa putativa” che si verificano? Puoi dirci con esattezza quando avvengono e se i giudici sono propensi ad accettare questa tesi?
Fu una tesi che ho potuto sostenere, forse con un po’ di audacia. Nel primo grado non trovai ascolto, ma lo trovai nel presidente della Corte d’Appello, era un uomo dallo sguardo buono e severo allo stesso tempo, ed era soprattutto un giurista sottile ed intelligente. In modo particolare, la prima richiesta che facevo in Appello, era l’assoluzione per legittima difesa putativa. Cioè il ragazzino aveva maturato la convinzione che il padre avrebbe ucciso la madre, e questa convinzione lo aveva portato ad uccidere.
I casi di legittima difesa putativa, in genere, non sono così infrequenti. Esistono. Non sono la normalità, però ci sono, soprattutto in questi ultimi anni.

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