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Novembre-Dicembre/2017 - Mondo Poliziotto
Speciale Siulp
Visto dal nord-est, come sono cambiate le “strutture di trattenimento”
di Giovanni Sammito - Segr. prov. Siulp - Gorizia

La legislazione italiana in materia di contrasto al fenomeno dell’immigrazione illegale è alquanto complessa e controversa. Sostanzialmente, osservando lo sviluppo della normativa susseguitasi negli ultimi trent’anni, emerge in maniera chiara come l’affermazione della via “repressiva” sia divenuta sempre più prevalente rispetto a quella dell’“accoglienza”.
Infatti, nella cornice del “reato d’immigrazione illegale”, istituto che resiste alla bocciatura della Corte di giustizia europea tutt’ora al centro del dibattito politico tra detrattori e sostenitori, significativa la parallela politica del “trattenimento” nei Cpt (Centri di permanenza temporanea), divenuti Cie (Centri di identificazione ed espulsione) ora soppiantati dai Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio).
In primo luogo, tentiamo di dimostrare, al di là degli aspetti di carattere etico/umanitario che comunque non vanno trascurati, l’insostenibilità di queste strutture sotto il profilo dei costi in rapporto alla loro scarsa efficacia. In tal senso, per una migliore comprensione di questa analisi, propone preliminarmente una sintetica disamina della loro evoluzione.
Sebbene dei centri d‘accoglienza nel nostro Paese fossero presenti dagli inizi degli anni Novanta, la comparsa delle prime strutture di trattenimento si verificò con l’avvento della cosiddetta legge Turco-Napolitano che nel marzo 1998 istituì i Centri di permanenza temporanea e assistenza. Tuttavia, mentre i Centri d’accoglienza avevano la funzione di accogliere gli stranieri a prescindere dal loro status giuridico e non erano previsti termini temporali se non “quelli strettamente necessari all’adozione dei provvedimenti”, nei Centri di permanenza temporanea e assistenza, invece, venivano condotti quegli stranieri nei cui confronti si riteneva di dover effettuare accertamenti supplementari da concludersi entro venti giorni, al massimo trenta. L’accompagnamento presso queste strutture, dunque, costituiva l’eccezione in quanto la stragrande maggioranza di migranti in stato d’illegalità veniva munito di decreto d’espulsione al quale essi dovevano provvedere autonomamente. Prescrizione, ovviamente, che si concretizzava in uno sparuto numero di casi, ma che non comportava costi economici aggiuntivi. ... [continua]

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