Direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia era un uomo
che rispettava le responsabilità del ruolo. Aveva denunciato
un giro di corruzione e truffe reiterate e redditizie.
Fu ucciso nel 1995 davanti al portone di casa
È la fine di una lunga giornata di lavoro ed è quasi ora di cena. Sta rientrando dopo aver parcheggiato la macchina sotto casa. Porta con sè un paio di buste e decine di pratiche che sta studiando con attenzione. Fa appena in tempo a varcare il portone d’ingresso quando, appena entrato nell’androne della sua abitazione, due colpi di pistola infami e vigliacchi lo colpiscono mortalmente alla nuca. Sembra la scena di un film, un poliziesco che finisce male, che ha come protagonista un buono che muore ammazzato. Sembra la scena finale di un grande classico del cinema italiano: l’avvocato Giorgio Ambrosoli che sta rientrando a casa dopo una giornata pesante e complicata. Una voce con un’inflessione straniera, quella di William J. Aricò, la voce del killer, che lo chiama con un tono vagamente straniero, scusandosi persino del gesto estremo e violento che sta per compiere: “signor Ambrosoli… mi scusi signor Ambrosoli” e poi i colpi di pistola - bang bang - che uccidono l’eroe borghese che stava liquidando la Banca Privata Italiana e le attività finanziarie, come minimo spregiudicate e borderline, del banchiere siciliano Michele Sindona. Sembra un film ma, purtroppo, quella di Francesco Marcone è la realtà.
L’intera giornata passata in ufficio. A casa ad aspettarlo la sera la moglie e due figli. Fa appena in tempo a parcheggiare la Panda in via Figliolia, una traversa del più conosciuto corso Roma a Foggia, a scendere dall’auto, a percorrere pochi passi fino al portone quando viene freddato senza, forse, nemmeno rendersi conto completamente di cosa stesse accadendo.
Ore 19,10 del 31 marzo 1995. Foggia, Italia: così muore Francesco Marcone, l’Ambrosoli del Sud, come lo definì qualche giornale che riferì di quella vicenda, poi quasi dimenticata da tutti. Qualcuno, immediatamente dopo l’omicidio, disse di aver sentito due spari e poi più nulla. Qualcun altro aggiunse. “Ho sentito le pistolettate, mi sono affacciato e ho visto quel poveretto riverso”. Mentre qualche collega aveva cercato inutilmente di nascondere quel corpo senza vita alla figlia Daniela che aveva riconosciuto il cappotto blu del papà “è mio padre, è mio padre”.
Non era un avvocato liquidatore come Fabrizio Bentivoglio nel film di Michele Placido, non era un cronista d’assalto col pelo sullo stomaco pur di realizzare lo scoop della propria vita e non era nemmeno un magistrato antimafia, Francesco Marcone. Non era un eroe, non voleva esserlo. Era un burocrate, un dipendente pubblico. Era una persona normale. Soprattutto era un uomo perbene e scrupoloso, attento e metodico, Francesco Marcone. Anche dopo l’orario di lavoro. Anche dopo essersi alzato dalla scrivania dietro cui trascorreva gran parte della sua giornata. Per questo, forse, si è trasformato, suo malgrado, in un eroe borghese.
Faceva il direttore dell’ufficio del registro di Foggia e stava analizzando alcuni fascicoli perché voleva vederci chiaro in alcune faccende. E siccome rispettava la responsabilità del ruolo che ricopriva studiava gli atti di importi miliardari e se i conti non tornavano, se vedeva o notava qualcosa di sporco, non era disposto a lasciar correre e a fare finta di niente. ... [continua]
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