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Gennaio - Febbraio/2020 - Articoli e Inchieste
Difesa
Pistola elettrica: può essere davvero un deterrente?
di Ottorino Orfello, Segretario Provinciale Sindacato Autonomo di Polizia, Mod

Come si fa ad essere sicuri che venga rispettata la regolamentazione di questo strumento? E se la persona colpita dalla scarica subisce danni letali cadendo a terra? Come gestire la delicata fase successiva?

Negli ultimi sei mesi le forze dell’ordine in Italia hanno registrato 235 episodi di violenza in servizio, per lesioni patite da aggressione attiva o reattiva, con un totale di 450 feriti e 4 caduti (due agenti di polizia e due carabinieri). Questo il dato che, nostro malgrado, dobbiamo registrare e su cui dobbiamo riflettere. Il mancato rispetto di ciò che la divisa rappresenta, sentimento ormai sempre più diffuso, ed un ordinamento sempre più incline a riconoscere diritti a chi li vìola per scelta (spesso con l’emissione di sentenze che sfidano il buonsenso popolare) ha determinato nel tempo la recrudescenza della criminalità comune a cui quotidianamente assistiamo. L’opzione violenta, anche per motivi futili, mette quotidianamente in difficoltà gli operatori di polizia, come mai lo era stato in passato in questo paese. Assistiamo, a margine di semplici controlli ad aggressioni di ogni tipo. A mani nude, con armi bianche, con armi improvvisate, o peggio con armi da fuoco sempre più spesso utilizzate da soggetti sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o di alcool. Il corpo a corpo sempre più quotidiano cui sono sottoposti gli agenti per i motivi più disparati non solo determina questioni giuridiche e politiche da dipanare, (e spesso l’esito di tali giudizi è tutt’altro che scontato), ma l’uso della forza da parte dell’autorità impone per prassi il ricorso alle cure mediche da parte degli operatori, se non altro per suffragare l’eventuale ipotesi accusatoria di resistenza o violenza, alla base del provvedimento precautelare, con la conseguente assenza dal servizio dell’agente nei giorni successivi e, dunque, dal suo servizio per la collettività. Aumentando statisticamente gli episodi di violenza e la loro intensità, si è imposta la necessità operativa di colmare il “gap” tra l’uso dello sfollagente e quello dell’arma d’ordinanza. In questa “zona grigia” di intervento, (che rappresenta una significativa percentuale delle aggressioni subite dagli operatori di polizia), risulta inadeguato l’uso dello sfollagente ed eccessivo l’uso dell’arma da fuoco. Era necessario, dunque, uniformarsi alle soluzioni adottate in altri paesi moderni (Francia, Germania, Inghilterra solo per citarne alcuni più vicini a noi), adottando uno strumento di dissuasione che colmasse tale gap, tanto efficace quanto controverso: il taser (acronimo di “Thomas A. Swift’s electric rifle” dal nome del suo inventore). Si tratta di un arma da pugno facente uso di impulsi elettrici con proiezione a corto raggio (3-5 metri di utilità) di due dardi. Attraverso fili conduttori collegati a questi dardi, lo strumento inibisce le funzioni motorie, impedendo la decontrazione muscolare per pochi secondi al soggetto attinto.

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