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Agosto-Settembre 2020/2020 - Articoli e Inchieste
Poliziotti allo sbaraglio
di Belfagor

L’utilizzo della “forza” nelle operazioni di polizia, tra necessità di assicurare il fermo di un sospetto e i rischi giuridico-professionali connessi.

Quando un poliziotto cerca di usare la forza, per portare a compimento un’azione legittima, viene spesso indagato: si dice sia un “atto dovuto”. Se l’indagine non dovesse esserci, ora si agita anche lo spettro della sanzione disciplinare.

La presa al collo
Questa rappresenta un capitolo a parte. Il fatto è avvenuto a Vicenza: una volante interviene per la segnalazione di rissa, cerca di identificare le persone che trova sul posto, per tutta risposta gli agenti vengono sbeffeggiati, i presenti si rifiutano di fornire le generalità e quando – nell’impossibilità di effettuare le operazioni necessarie – un poliziotto decide di usare la forza, scoppia un parapiglia. Tutto viene ripreso con gli smartphone e finisce in rete. Non sono tanto le accuse di razzismo rivolte all’agente ad impressionare, ormai quando si controlla uno straniero – soprattutto se più scuro di un caucasico – stanno diventando automatiche, quanto “la presa al collo”. La storia finisce con l’accompagnamento e la denuncia del giovane di origini cubane e la convalida dell’arresto, eseguito per resistenza a pubblico ufficiale, da parte del Giudice.
Nel frattempo, solerti giornalisti – più interessati a fare clamore che a dare una notizia – hanno subito fatto un paragone con il caso Floyd, dimenticando, un fatto fondamentale: quello che (forse) ha ucciso l’afroamericano non è una presa “mortale” ma il costante posizionamento di più poliziotti – di cui uno con la tibia sul collo – sul corpo dello sfortunato arrestato.
Per il fatto di Vicenza nessun magistrato apre un’indagine, su un presunto uso eccessivo della forza da parte del poliziotto, ma il Questore della città ha iniziato un procedimento disciplinare sull’operato dell’agente, “reo” di aver preso per il collo il ragazzo che cercava di sottrarsi al legittimo controllo. Un procedimento preannunciato dal Capo della Polizia che, con una certa preveggenza, aveva anticipato “azioni disciplinari” nei confronti dell’agente per il suo operato. La modalità della “presa al collo” non è proprio piaciuta al Prefetto Gabrielli che annuncia l’eliminazione, dall’addestramento nelle scuole di Polizia, di tutte le tecniche di difesa personale che comprendano prese al collo.
Prendere qualcuno con un “laccio” e controllarlo fino al momento in cui il collega a supporto non mette le manette, non ha mai ucciso nessuno, non espone i poliziotti a pericoli e non li costringe ad usare le armi, come ad esempio il manganello. Se si fosse esperti di arti marziali, si scoprirebbe che proprio le varie prese al collo – facili da fare ed efficaci nei confronti dei violenti – permettono di controllare al meglio l’avversario, senza provocargli danni. Un sostituto – egualmente efficace – delle immobilizzazioni della parte “collo-testa” esiste solo nelle esibizioni di difesa personale quando l’avversario è collaborativo. Contro persone non collaborative, per riuscire a fare immobilizzazioni differenti (braccia, polsi, gambe), bisogna provocargli una serie di shock e fiaccarne la combattività, di solito con pugni e calci – oppure – bisogna essere Steven Seagal, ma l’attore americano, nei suoi film, non affronta avversari veri.
La presa al collo – a questo punto – vietata ai poliziotti, è legittima per gli atleti della MMA (Mixed Martial Arts) o per quelli del Judo (che è sport olimpico) e non è affatto pericolosa. La verità è che i poliziotti devono rinunciare a tecniche di difesa personale efficaci, solo perché, in questo momento, sono mediaticamente sconvenienti.

C’è chi dice “no!”
A Marina di Carrara almeno quattro poliziotti e due carabinieri sono stati osteggiati, da un gruppetto di giovanissimi, che ha quasi impedito l’arresto di un ragazzo, sospettato di aver partecipato ad una rissa poco prima. Scene impietose quelle circolate sui social, con i poliziotti circondati da amici del fermato che provano a non farlo prendere e caricare sulla volante, mentre piovono insulti, minacce e qualche pietra nei confronti degli uomini in uniforme. Una situazione che avrebbe dovuto richiedere pochi minuti, ha invece messo a rischio gli operatori di polizia che, a forza di tira e molla delle portiere e qualche danno alle macchine, sono riusciti a portare via l’arrestato.
Al di là dell’illegalità nell’impedire ad un pubblico ufficiale di fare il suo lavoro, traspare, da quelle immagini, il senso profondo di impunità che pervade la nostra società, riassumibile in un: “faccio quello che mi pare e quattro stronzi in divisa non ci fermeranno mai (cit)”. Ci si lamenta spesso delle mogli dei camorristi arrestati che manifestano all’esterno delle Questure, il che – pur non essendo giustificabile – è però comprensibile, devono farlo per un diktat proveniente da un substrato culturale mafioso e perché non vedranno più i loro mariti per molti anni. Il sottrarsi al controllo o vedere ragazzotti brilli in vacanza, cercare di strappare dalle mani degli agenti l’amico fermato, è – invece – un fenomeno ben più preoccupante.
Sta passando il concetto che ogni azione delle forze di Polizia, volta a ristabilire l’ordine pubblico o a far rispettare la legge, sia un abuso. Questo non è solo il prodotto della “solita” perdita dei valori ma di un vero e proprio movimento “culturale” che termina in Parlamento con quello che è stato definito da più parti il “Partito dell’Antipolizia”, quello che non vuole le bodycam (che riprendono oggettivamente tutto l’intervento dei poliziotti) ma i numeri di riconoscimento, quello che non vuole i taser o lo spray al peperoncino (che seppur fugacemente dolorosi permettono di bloccare un malintenzionato senza provocargli alcun danno) ma i corsi di bon-ton ed infine, quello pronto a dare addosso al primo poliziotto che appare sui social mentre fa il suo lavoro o mentre esprime un’opinione.
Le forze di polizia stanno perdendo il rispetto della gente, fatta di persone convinte che si possa fare tutto e tutto sia lecito, leoni del web, che, da un giorno all’altro, sono infettivologi, esperti costituzionalisti, fisici quantistici.
Ci si dimentica del valore del bene comune e delle regole, sono queste, rispettate da tutti e fatte rispettare (è questo il concetto statunitense di law enforcement) da una forza che appartiene allo Stato (e per cui a tutti), a fare la differenza tra la società umana e quella animale. Sono le regole democratiche, stabilite con l’accordo dei rappresentati del popolo, a differenziarci rispetto ai regimi. Per questo non si capisce come l’invito a seguire le regole sia declinato dai cittadini stessi che, anzi, non accettano alcun tipo di controllo su di essi, in nome di una libertà che non è tale ma è semplicemente anarchia egoistica. Ecco spiegata l’aggressione ai poliziotti di Roma Capitale che avevano invitato alcuni giovani, nei luoghi della movida romana, a mettere la prevista mascherina.
Quello di cui hanno bisogno i poliziotti italiani non è solo il rispetto, che va insegnato all’interno delle famiglie, le quali, sono le prime – invece – ad insegnare paura e disprezzo (chi non ha sentito la mammina dire al proprio figlio: “se non fai il bravo chiamo i poliziotti e ti faccio arrestare”), ma di regole certe e strumenti efficaci che garantiscano la loro sicurezza e la sicurezza degli altri.
A proposito di strumenti, il Taser, che ha ricevuto ottimi feedback da chi l’ha sperimentato su strada, è stato ritirato. Pare che funzionasse perfettamente nelle mani dei tecnici della ditta produttrice e che desse problemi nelle mani dei tecnici del Viminale. Lo spray al peperoncino non è ancora in dotazione a tutti i poliziotti, sarebbe stato utile per permettere l’allontanamento della folla che assediava i poliziotti a Marina di Carrara. Tuttavia, se lo avessero usato, qualche solerte censore dei loro comportamenti, non mediaticamente accettabili, li avrebbe potuti punire.

email: belfagor@poliziaedemocrazia.it

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